La crisi è finita, anzi no: così si potrebbe sintetizzare il succo di
due articoli apparsi sull’ultimo numero dell’Economist intitolati,
rispettivamente “America’s recovery is neither robust nor dramatic. But it is real” e “Can it be…the recovery?”.
Titoli che definire prudenti è un eufemismo, ma che, ove commisurati ai
dati analizzati e commentati al loro interno, rischiano di apparire
perfino trionfalisti.
Le “buone notizie” dalle quali gli autori ritengono di poter trarre
sia pur moderati motivi di ottimismo, infatti, sono tutt’altro che
entusiasmanti. “Le cose non stanno andando meglio, ma è già molto che
non vadano peggio”, leggiamo nel primo, nel quale le ripetute delusioni
per gli annunci di ripresa che si sono ripetuti dal 2009 (e che sono
stati puntualmente smentiti dai fatti) vengono attribuite soprattutto a
fattori “esterni” (l’aumento dei prezzi del petrolio, la crisi del
debito europeo, ecc). Ma ora che gli effetti di questi fattori sembrano
farsi meno pesanti, ecco apparire segnali incoraggianti, come una certa
ripresa dell’occupazione negli ultimi tre mesi (benché si riconosca che
potrebbe trattarsi dell’effetto di distorsioni statistiche) e una certa
tendenza all’aumento del PIL (che però, se tutto va bene, non supererà
il 2,5% nell’anno corrente).
Ancora meno giustificato l’ottimismo del secondo articolo, nel quale
si celebra come un ottimo risultato il fatto che la crisi finanziaria
europea stia rivelandosi “meno peggio” del previsto e che le economie
dei Paesi in via di sviluppo stiano rallentando ma non troppo la loro
corsa. Infine – tutti i salmi liberisti finiscono in gloria! – si
conclude dicendo che le cose potranno migliorare ulteriormente, a
condizione che i governi non commettano gravi errori di politica
economica, interferendo indebitamente nei meccanismi di riequilibrio
spontaneo dei mercati.
Il fatto che il maggiore organo del liberismo mondiale sia indotto a
simili contorsioni dialettiche per far intravvedere ai propri lettori un
barlume di luce alla fine del tunnel, suona come una evidente –
ancorché involontaria – conferma della natura strutturale della crisi –
una realtà che si cerca in ogni modo di occultare, salutando ogni timida
oscillazione congiunturale verso l’alto come un segnale di ripresa.
Ma la vera “morale” del tutto sta nell’elenco dei fattori “esterni” –
prezzo del petrolio, tsunami giapponese, errori di politica economica
dei governi europei – su cui viene rovesciata la “colpa” delle
persistenti difficoltà dei mercato globale: la famosa battuta “piove
governo ladro” suona qui particolarmente appropriata, nella misura in
cui racchiude in tre parole catastrofi naturali e errori umani. Del
resto chi può provocare disastri se non la natura e gli uomini, visto
che i mercati non sbagliano mai?
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