giovedì 22 marzo 2012

La truffa dell’indennizzo per avere mano libera sui licenziamenti, Maria Mantello, Micromega


Nessuno può essere licenziato senza una “giusta causa” (es. furti o altri reati) o senza “giustificato motivo” (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa).

Al di fuori della giusta causa o del giustificato motivo, il licenziamento è nullo. Lo prevede il Codice civile, la legge n. 604 del 15 luglio 1966, lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’art.18.
Vale per ogni rapporto di lavoro. Vale per ogni azienda, contro abusi di datori di lavoro che discriminano, emarginano fino al licenziamento per ragioni estranee alla professionalità del lavoratore.

Vale perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, come stabilisce fin dall’incipit la nostra Costituzione, che individua nel lavoro il formidabile strumento di emancipazione individuale e sociale per una società di liberi e di uguali.

La tutela del lavoratore, allora, non è un privilegio o un interesse particolare, come qualcuno vorrebbe far credere, ma valore d’investimento dello Stato liberal-democratico, perché senza tutele contro i licenziamenti illegittimi i lavoratori tornerebbero ad essere schiavi.

Per questo, come già prevedeva la legge 604/1966, il datore di lavoro era tenuto a reintegrare il lavoratore da lui licenziato senza giusta causa o giustificato motivo e a corrispondergli il dovuto: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro é tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro. (art. 8, L. 604/1966)».

L’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, avrebbe fatto del reintegro il deterrente formidabile contro il licenziamento, prevedendo il pagamento comprensivo di rivalutazione delle mensilità non corrisposte e dei relativi contributi: «Il giudice … condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione».

E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che potesse essere liquidato con una somma sostitutiva del suo reintegro, stabiliva che questa eventualità fosse possibile solo se richiesta dal lavoratore: «… al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».

Adesso tutto questo lo si vorrebbe azzerare, riportando il lavoratore in totale balia del ricatto del licenziamento, e lasciando al datore di lavoro (padrone?) la “legale” possibilità di disfarsi di chi non gli aggrada più con una paccata di benservito.

Un bel regalo per un padronato che l’art. 18 (se non tutto lo Statuto dei lavoratori) non l’ha mai digerito e pertanto ha cercato sempre rivincite, aspettando il momento opportuno per ottenerle.
Col governo Berlusconi sembrava quasi cosa fatta. Ma la grande manifestazione del 23 marzo 2002 con tre milioni di cittadini al Circo Massimo a Roma riuscì a stoppare l’osceno disegno.

Adesso ci riprova il governo tecnico. Un governo che si dice di risanamento, di cura, ma che il suo bisturi – tutto politico – affonda nel corpo vivo dei lavoratori: dai tagli economici a quelli delle più elementari tutele.
Allora, l’assalto proprio al simbolo della garanzia del diritto al lavoro che l’articolo 18 rappresenta non è un caso. E il fatto che il ministro Elsa Fornero, col suo eloquio al birignao esaltato dagli algidi sorrisi d’ordinanza, pretenda di spacciarlo per modernizzazione è solo esercizio di televendita, funzionale all’incalzante dittatura di un capitalismo che fa cassa sullo sfruttamento di chi lavora e di chi è licenziato.

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