La
filosofia del governo Monti su cui si fonda la riforma del mercato del lavoro
nasce da una convinzione: in tempi di crisi non c'è spazio per i distinguo,
bisogna rilanciare lo «sviluppo» nell'unico modo possibile, quello liberista; ogni ostacolo di natura sociale o
ambientale dev'essere rimosso. In altre parole, i diritti individuali e
collettivi sono diventati incompatibili. La stessa democrazia, con le sue
regole e le sue verifiche, rappresenta un ostacolo. Non solo in Valsusa, anche
e soprattutto nel lavoro. Marchionne insegna, in senso letterale. Il lavoro è
merce, si compra dove costa meno e se vuoi vendere il tuo devi offrirti al
massimo ribasso.
Sta tutta qui la ragione dell'accanimento contro l'articolo 18. Il principio di civiltà secondo cui un imprenditore è costretto a riprendersi al lavoro colui che ha ingiustamente licenziato cozza con i principi generali del liberismo ed è un ostacolo al dominio del padrone sulla forza lavoro intesa come pura appendice delle macchine, variabile dipendente dei profitti, flessibile in tutto ma vincolato alle leggi del mercato delle braccia e dei cervelli. Siccome il lavoratore spogliato di ogni soggettività è pura merce, come tutte le merci ha un prezzo e se il giudice cavilloso ritiene ingiusto il suo licenziamento basterà stabilire il prezzo della merce-lavoro e imporre all'imprenditore di pagarlo e al lavoratore di cercarsi un altro posto. Dire che l'art. 18 è un disincentivo per le imprese a investire o restare in Italia è un imbroglio meschino per nascondere la posta in gioco.
Il ministro Elsa Fornero ha sposato in pieno questa filosofia che si sta facendo strada anche nel mondo sindacale. Così come nel caso delle pensioni - dove la motivazione addotta per il suo slittamento a 67-70 anni d'età stava paradossalmente nella necessità di riaprire il mercato del lavoro ai giovani - anche l'abbattimento della copertura fin qui garantita dagli ammortizzatori sociali servirebbe a spalmare qualche diritto d'accesso sul corpo dei precari, perché anch'essi possano assurgere al rango di merce acquistabile e vendibile.
Siamo al trionfo dell'ipocrisia: acquisito che ci sarebbero al lavoro precari e garantiti, per ridurre questa ingiustizia si riducono le garanzie e i diritti ai più fortunati. Poi magari, se ci saranno i soldi, se ne distribuiranno un po' a chi non ne ha. Così come l'art. 18 che vale solo per alcuni fortunati, invece di estenderlo a tutti si toglie a chi ce l'ha. Il modo migliore per imporre questa logica passa attraverso la divisione del mondo del lavoro, per garanzie, diritti, generazioni, sesso, persino per colore della pelle. Il governo dei tecnici dalle buone maniere e dalla battuta facile non ammetterà mai che questo è il suo modo d'agire, si limita ad agire, completando senza opposizione politica e con poche resistenze sindacali il lavoro sporco che Berlusconi ha accelerato (all'avviamento aveva contribuito il centrosinistra) tra opposizioni politiche e resistenze sindacali.
E dire che la risposta ai predicatori dei sacrifici altrui sarebbe semplice: con la crisi servono più garanzie per tutti per contrastare disoccupazione e disumanizzazione, estendendo art. 18 e ammortizzatori sociali. E' quel che dice la Fiom. Che ne pensa la Cgil?
Sta tutta qui la ragione dell'accanimento contro l'articolo 18. Il principio di civiltà secondo cui un imprenditore è costretto a riprendersi al lavoro colui che ha ingiustamente licenziato cozza con i principi generali del liberismo ed è un ostacolo al dominio del padrone sulla forza lavoro intesa come pura appendice delle macchine, variabile dipendente dei profitti, flessibile in tutto ma vincolato alle leggi del mercato delle braccia e dei cervelli. Siccome il lavoratore spogliato di ogni soggettività è pura merce, come tutte le merci ha un prezzo e se il giudice cavilloso ritiene ingiusto il suo licenziamento basterà stabilire il prezzo della merce-lavoro e imporre all'imprenditore di pagarlo e al lavoratore di cercarsi un altro posto. Dire che l'art. 18 è un disincentivo per le imprese a investire o restare in Italia è un imbroglio meschino per nascondere la posta in gioco.
Il ministro Elsa Fornero ha sposato in pieno questa filosofia che si sta facendo strada anche nel mondo sindacale. Così come nel caso delle pensioni - dove la motivazione addotta per il suo slittamento a 67-70 anni d'età stava paradossalmente nella necessità di riaprire il mercato del lavoro ai giovani - anche l'abbattimento della copertura fin qui garantita dagli ammortizzatori sociali servirebbe a spalmare qualche diritto d'accesso sul corpo dei precari, perché anch'essi possano assurgere al rango di merce acquistabile e vendibile.
Siamo al trionfo dell'ipocrisia: acquisito che ci sarebbero al lavoro precari e garantiti, per ridurre questa ingiustizia si riducono le garanzie e i diritti ai più fortunati. Poi magari, se ci saranno i soldi, se ne distribuiranno un po' a chi non ne ha. Così come l'art. 18 che vale solo per alcuni fortunati, invece di estenderlo a tutti si toglie a chi ce l'ha. Il modo migliore per imporre questa logica passa attraverso la divisione del mondo del lavoro, per garanzie, diritti, generazioni, sesso, persino per colore della pelle. Il governo dei tecnici dalle buone maniere e dalla battuta facile non ammetterà mai che questo è il suo modo d'agire, si limita ad agire, completando senza opposizione politica e con poche resistenze sindacali il lavoro sporco che Berlusconi ha accelerato (all'avviamento aveva contribuito il centrosinistra) tra opposizioni politiche e resistenze sindacali.
E dire che la risposta ai predicatori dei sacrifici altrui sarebbe semplice: con la crisi servono più garanzie per tutti per contrastare disoccupazione e disumanizzazione, estendendo art. 18 e ammortizzatori sociali. E' quel che dice la Fiom. Che ne pensa la Cgil?
p. s. per Elsa Fornero non tocca al governo dire alla Fiat quel che deve fare.
E infatti è Marchionne a dire a Monti quel che deve fare.
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