Se non ora quanto?
Se non ora quanto?
L’interrogativo resistenziale e catartico di Primo Levi è stato virato in un
incubo economico e monetario. Eppure l’Italia è stata davvero, nel dopoguerra,
e negli anni Settanta, “una Repubblica fondata sul lavoro”, un paese di artigiani,
contadini, operai, di piccoli e geniali imprenditori (e soprattutto una terra
di emigranti), che avevano costruito sull’etica del lavoro ben fatto, e
dell’onestà, la loro fortuna. Poi, dalla fine degli anni Ottanta, questo Paese
si è trasformato in una democrazia fragile – non a caso assaltata dai monopoli
e dai poteri speculativi – finalizzata alla moltiplicazione
della precarietà. Adesso, alla fine di un percorso netto, si sta preparando
l’ultimo salto dis-evolutivo: quello che ci farà diventare un paese “fondato
sull’indennizzo”.
Si può pensare qualsiasi cosa sul problema del Tav, per esempio, ma che senso di responsabilità comunica una classe dirigente che invece di rassicurare e risolvere dice: va bene, faremo qualche disastro, devasteremo dei territori, però vi ricopriamo di soldi? Che credibilità può avere un imprenditore (indovinate chi?) che dice: ti tolgo dieci minuti di pausa alla catena di montaggio, ogni giorno, però ti metto in busta paga 44 euro (se possibile lordi). E quale terremoto sociale produce, nel paese della demeritocrazia realizzata (in questo siamo i più bravi al mondo) l’idea che il licenziamento si legittima con la liquidazione economica e che persino quando i tribunali scrivono in una sentenza che una azienda ha tenuto un comportamento anti-sindacale, tutto si può risolvere con un obolo e con una monetizzazione del danno?
Senza che quasi ce ne accorgessimo si è realizzato un terremoto culturale e sociale: chi ha soldi può fare quello che vuole, basta che paghi. Può evadere, purché poi aderisca al condono, può cementificare, perché tanto poi si mette in regola. Può inquinare, tanto poi promette bonifiche che non arrivano mai (chiedere al sindaco di Taranto o di Porto Torres, a quelli della petro-Basilicata).
Nella nuova Italia feroce in cui aumentano le differenze tra ricchi e poveri tutto può essere comprato, e sembra che non esistano più diritti non negoziabili. Com’è triste il passaggio dall’etá dei valori ideali a quello dei valori monetari.
Si può pensare qualsiasi cosa sul problema del Tav, per esempio, ma che senso di responsabilità comunica una classe dirigente che invece di rassicurare e risolvere dice: va bene, faremo qualche disastro, devasteremo dei territori, però vi ricopriamo di soldi? Che credibilità può avere un imprenditore (indovinate chi?) che dice: ti tolgo dieci minuti di pausa alla catena di montaggio, ogni giorno, però ti metto in busta paga 44 euro (se possibile lordi). E quale terremoto sociale produce, nel paese della demeritocrazia realizzata (in questo siamo i più bravi al mondo) l’idea che il licenziamento si legittima con la liquidazione economica e che persino quando i tribunali scrivono in una sentenza che una azienda ha tenuto un comportamento anti-sindacale, tutto si può risolvere con un obolo e con una monetizzazione del danno?
Senza che quasi ce ne accorgessimo si è realizzato un terremoto culturale e sociale: chi ha soldi può fare quello che vuole, basta che paghi. Può evadere, purché poi aderisca al condono, può cementificare, perché tanto poi si mette in regola. Può inquinare, tanto poi promette bonifiche che non arrivano mai (chiedere al sindaco di Taranto o di Porto Torres, a quelli della petro-Basilicata).
Nella nuova Italia feroce in cui aumentano le differenze tra ricchi e poveri tutto può essere comprato, e sembra che non esistano più diritti non negoziabili. Com’è triste il passaggio dall’etá dei valori ideali a quello dei valori monetari.
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