L’interesse dell’appello “Furto di
informazione” pubblicato sul manifesto non sta tanto, come dice il
Corriere della Sera di ieri , nell’ennesima contrapposizione tra
neokeynesiani e neoliberisti, quanto nell’aver affrontato per la prima
volta il problema a priori, fuori dal puro contesto economico. L’appello
è firmato da economisti ma pone piuttosto un problema filosofico. Tra
qualche anno il neoliberismo di oggi rischia di venir letto dagli
storici come il paradosso di un’epoca che impiega tutte le sue risorse a
distruggere il benessere economico guadagnato nel tempo. Da piccolo
avevo un libro di favole intitolato “Il tulipano screziato”. La storia
raccontava la bolla speculativa del mercato dei tulipani nell’Olanda del
‘600.
Un unico bulbo di tulipano poteva avere
un immenso valore. La storia ha fatto giustizia dei tulipani e la farà
delle nostre attuali convinzioni. Il marxismo (come teme Giuliano
Ferrara) non c’entra niente. C’entra il pensiero critico e la capacità
di prendere distanza dalle cose.
Il salasso per tutti
Qualche anno fa il neoliberismo veniva chiamato “pensiero unico”, definizione che evocava la possibilità di altri pensieri possibili. Oggi il neoliberismo si chiama semplicemente “economia” e non importa se esistono teorici come Paul Krugman o Joseph Stiglitz che vedono le cose da un altro punto di vista. Stiamo vivendo una crisi. Dobbiamo inchinarci alle leggi economiche e accettare i sacrifici che ci vengono imposti come dolorosi ma necessari. Il neoliberismo non è più una tesi economica discutibile e relativamente recente, ma un dato di natura. La crisi del 1929 è stata affrontata con politiche keynesiane ed è stata superata. La crisi attuale viene curata con politiche neoliberiste e non fa che peggiorare. È come se a un paziente disidratato venissero praticati salassi anziché fleboclisi: morirà. Ma per secoli il salasso è stata l’unica pratica medica accreditata per curare ogni tipo di malattia con esiti disastrosi. Oggi noi applichiamo alla crisi un’unica forma di terapia: tagli e sacrifici, convinti come i medici di un tempo, di non avere altre alternative a disposizione.
Anticasta, l’unica critica lecita
Si dirà: questi sono temi da affrontare tecnicamente in campo economico. Non a caso il nostro è un governo di “tecnici”. Viviamo in uno stato di eccezione in cui le necessità economiche prevalgono sulle istanze politiche. L’uomo comune può solo affidarsi a chi è più competente di lui come si affiderebbe a un medico in caso di malattia. La sua critica deve essere circoscritta agli abusi e agli sprechi che impediscono al mercato di funzionare e produrre ricchezza e benessere per tutti. Ma questo è già pensiero unico, rinuncia a ogni alternativa possibile. Guardiamo la situazione italiana degli ultimi decenni. Avevamo un governo sedicente liberista in cui il liberismo era mitigato e spesso stravolto dal populismo. Un’opposizione che si dichiarava più liberista del governo ed evocava maggior rigore. Abbiamo oggi un governo tecnico sostenuto da entrambi gli schieramenti. E l’unica alternativa è costituita da una reazione contro la politica, che viene accusata (a ragione) di sperperi, nepotismo, privilegi. Mentre per il governo la causa della crisi è il debito pubblico e l’azione dissennata dei governi precedenti, per i gruppi anticasta, la causa della crisi sta nella corruzione della politica che impedisce al mercato di funzionare. Formalmente contrapposte le due tesi aderiscono nella sostanza a un'unica tesi: questo è l’unico mondo possibile, possiamo migliorarlo ma non cambiarlo. Gli italiani sembrano in preda a una forma di depressione che li porta a non reagire, mentre il loro mondo affonda e il benessere costruito dal dopoguerra viene sacrificato sull’altare della necessità economica. Cos’è che ha cambiato le nostre capacità di reazione, ha annullato il nostro spirito critico? La censura, la mancanza di informazione, i tagli alla scuola e alla ricerca. Ci è stata instillata in questi anni la convinzione che la cultura non conta nulla, che il pensiero è inutile, che l’unico valore è il benessere economico. E la morte del pensiero critico non ha prodotto benessere, ma disastro e miseria. Per questo l’appello pubblicato dal manifesto sul “furto di informazione” riguarda, prima ancora delle politiche economiche il tema dell’informazione. Una politica economica non è “naturale ”, presuppone una scelta tra più alternative. E la scelta politica presuppone informazione. Per questo mi sono battuto per la sopravvivenza del servizio pubblico. Una pluralità di emittenti private non garantisce pluralismo informativo. La stessa cosa vale per le testate giornalistiche. Fino a oggi l’editoria ha richiesto ingenti capitali. E i magnati dell’editoria che possono sostenere certi costi, difficilmente saranno dalla parte dei ceti meno abbienti.
Il presente come sola possibilità
Ai tempi de “Il Capitale” di Karl Marx il proletariato aveva valore per il suo lavoro. Ai tempi de “La società dello spettacolo” di Guy Debord per la sua capacità di consumo. Oggi non ci resta che il voto, per questo l’economia globalizzata limita l’autonomia degli Stati. E per questo la politica vuole controllare l’informazione. Dobbiamo ricreare una libertà di informazione, studiare nuovi canali e possibili veicoli di informazione perché si rompa l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità. Siamo realisti, chiediamo l’impossibile .
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