sabato 21 luglio 2012

La Consulta: “I servizi pubblici non si possono privatizzare”



E’ una doppia bocciatura per i governi Berlusconi e Monti quella sancita poche ore fa dai giudici Supremi , che hanno dichiarato incostituzionale la norma che obbligava i comuni a privatizzare i servizi pubblici locali. "Viola apertamente il referendum del 12 e 13 giugno del 2011", votato da 27 milioni di italiani 

di , Il Fatto Quotidiano
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E’ una doppia bocciatura per i governi Berlusconi e Monti quella sancita poche ore fa dalla Consulta, che ha dichiarato incostituzionale la norma che obbligava i comuni a privatizzare i servizi pubblici locali. Si tratta dell’articolo quattro del pacchetto anticrisi varato da Giulio Tremonti il 13 agosto dello scorso anno, ripreso – e in buona parte rafforzato – dal decreto liberalizzazioni del governo di Mario Monti. Una norma – hanno deciso i giudici costituzionali – che viola apertamente il referendum del 12 e 13 giugno del 2011, quando ventisette milioni di italiani votarono contro la legge Ronchi Fitto, che imponeva la cessione delle quote delle municipalizzate ai mercati. Nell’agosto dello scorso anno, quando lo spread iniziava la sua vertiginosa salita, il governo Berlusconi decise di intervenire con un pacchetto di emergenza, dove venne infilata una norma che, nel titolo, annunciava un adeguamento della legislazione sui servizi pubblici locali al voto referendario. In realtà l’articolo centrale di quell’intervento riprendeva, in un vero e proprio copia e incolla, buona parte della legge appena abrogata dal primo dei quattro quesiti votati due mesi prima.
Pur escludendo l’acqua, Tremonti – artefice di quell’intervento – riproponeva la privatizzazione forzata di servizi essenziali, quali i rifiuti e il trasporto pubblico locale. Il decreto firmato il 13 agosto diventava poi legge ad ottobre, pochi giorni prima della caduta del governo Berlusconi. In quegli stessi giorni molti giornali pubblicavano una lettera della commissione europea che indicava al governo italiano la road map ideale per affrontare la crisi. Tra i punti spiccava la revisione del risultato del referendum, con l’avvio di una nuova stagione di privatizzazioni. Il governo guidato da Mario Monti ha di fatto mantenuto l’intervento voluto dal governo precedente, inserendo le norme dell’articolo 4 all’interno del pacchetto liberalizzazioni, poi approvato dal parlamento, con il voto congiunto di Pdl e Pd. Il ricorso davanti alla corte costituzionale – elaborato, tra gli altri, dai referendari Ugo Mattei e Alberto Lucarelli – era stato presentato lo scorso ottobre dalla regione Puglia. La decisione della Consulta restituisce ora il potere di decidere come gestire i servizi pubblici locali ai comuni, che non saranno più obbligati a cedere tutto ai privati. La possibilità di privatizzare rimane, ma la decisione, a questo punto, sarà esclusivamente politica.
Intervista a Stefano Rodotà sulla sentenza della Corte Costituzionale sui beni comuni.
Stefano Rodotà, un risultato, quello ottenuto con la sentenza della Consulta, che premia anche il lavoro del suo Comitato di giuristi.
Premia soprattutto la grande elaborazione culturale che è stata messa a punto in questi mesi sia intorno al bene comune dell'acqua e dei servizi pubblici essenziali, sia per quanto riguarda il rapporto fecondo tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa al quale la sentenza fa esplicito riferimento. Si restituisce così alla volontà popolare quel ruolo fondamentale che il governo Berlusconi prima e il governo Monti poi hanno cercato di sottrarle.
È una sentenza importante?
Non si esagera dicendo che questa è una sentenza storica perché in concreto denuncia e elimina una clamorosa frode del legislatore.
Nella sentenza infatti si dice esplicitamente che i vari decreti in materia hanno riprodotto parti delle norme abrogate col referendum, addirittura rendendole più restrittive, violando così l'articolo 75 della Costituzione. Inoltre i giudici scrivono che le nuove discipline in materia sono contraddistinte da «identica ratio ispiratrice» di quelle abrogate col referendum. In primo luogo, dunque, è stata ripristinata la legalità costituzionale.
Vengono così a decadere le norme sulla privatizzazione dei servizi, o sulla «promozione della concorrenza», che dir si voglia, sia quelle di Tremonti del 2011 che quelle contenute nel Salva Italia. È così?
Certamente. E nella sentenza la continuità tra i provvedimenti è addirittura accentuata.
Lei ricorda precedenti analoghi?
Con questa nettezza, non era mai stato affermato il diritto del cittadini di veder rispettato il referendum.
Una bussola per le prossime elezioni?
È una indicazione molto precisa che le diverse forze politiche dovranno tener presente abbandonando l'atteggiamento complice spesso tenuto rispetto alle iniziative dei governi, ora censurate in modo così netto. La corte è stata assolutamente esplicita: ha parlato di lesione della volontà popolare espressa con il voto di 27 milioni di cittadini.
Anche in tempi di crisi?
Dal punto di vista politico e culturale insieme, assume grande rilevanza l'indicazione di tenere fuori dalla stretta logica di mercato i servizi essenziali per la vita dei cittadini. Si ribadisce così il legame stretto tra i diritti fondamentali di cittadinanza e i beni e i servizi che ne danno la concreta attuazione. In questo senso è fondamentale la censura del tentativo di ampliare la portata del principio di concorrenza come unica base legittima dell'agire nella materia economica. Viene anche qui ripristinata la legalità costituzionale e il necessario equilibrio tra il diritto di iniziativa economica privata e i principi e i diritti fondamentali, così come indicati dall'articolo 41 della Costituzione.
In questi giorni la Consulta non ha goduto di buona stampa, soprattutto nei commenti riguardo il ricorso alla Corte del presidente Napolitano.
Sì, ho sentito argomentazioni tipicamente berlusconiane, ma è sbagliato mettere la Corte sotto attacco. Credo che in questo momento si debba dire che la Consulta ha dato prova di un grande rigore. E non è la prima volta. Soprattutto questa volta ha dato prova di rifiutare la logica emergenziale in economia che pretende di travolgere tutto, Costituzione compresa. Questa è una lezione che tutti dovrebbero tener presente quando si dubita dell'autonomia della Corte.
Dopo che questa sentenza ha abrogato l'imposizione di privatizzare i servizi, ora gli enti locali sono però liberi di farlo ugualmente, se credono. É così?
Certamente la sentenza li lascia liberi di muoversi. Rimane sempre però la responsabilità politica delle scelte. I giudici però hanno fissato alcuni principi, come il rispetto dei referendum. Ci saranno ancora altre manovre di aggiramento del dettato costituzionale e della volontà popolare. Per esempio sono in atto, e molto avanzati, i tentativi di aggirare l'abrogazione della norma che vieta la remunerazione del capitale del 7%, come abbiamo visto con le tariffe del servizio idrico. Ma viene meno l'argomentazione dell'obbligo, dell'imposizione contemplata nelle leggi appena abrogate.
Ora la campagna di «obbedienza civile» lanciata dai comitati referendari che invita a non pagare quella parte di bolletta che remunera, appunto, il capitale investito nei servizi, è legittimata ulteriormente. Vero?
Questo è un punto importante: dopo la sentenza della Consulta è assolutamente legittima quella giusta reazione dei cittadini di ribellarsi ai tentativi di violare la legalità fissata con il risultato referendario.

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