0.
È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante
non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il
che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente
preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze
ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.
1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale - per dirla con Marx - da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.
2. Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.
3. Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B. Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente - poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa - in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat e di piccolo-borghesi.
4. Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che la keynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che il piano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato, poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chiari in mente in tutti e due i sensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.
5. La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.
6. Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora, voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grande importanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica dei due tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Ciocca è stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nella riunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che di recente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplice suggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna considerazione.
7. L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto di domanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:
1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale - per dirla con Marx - da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.
2. Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.
3. Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B. Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente - poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa - in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat e di piccolo-borghesi.
4. Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che la keynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che il piano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato, poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chiari in mente in tutti e due i sensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.
5. La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.
6. Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora, voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grande importanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica dei due tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Ciocca è stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nella riunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che di recente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplice suggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna considerazione.
7. L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto di domanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:
7.1 Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti - non solo dimensionali - di cui l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, la carenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione, ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimenti pubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nella inadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta - paradossalmente, da quando esiste un’autorità antitrust - si è inoltre affievolito l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare il profitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblica larga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata - quella pubblica essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilities e a alcuni servizi - riscopra una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia cogliere le opportunità.
7.2 Sostenere la domanda. Per superare una depressione che altrimenti si protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agire sulla composizione 〔corsivo aggiunto〕 del bilancio pubblico. Unitamente a minori imposte, non va ridimensionato - come sinora si è fatto - ma va accresciuto il peso delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nella misura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle spese da espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolata manovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d´interesse deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.
7.3 Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressione tributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di là dell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma che nel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6 punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo e assicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devoluti a maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senza quartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni del patrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa: trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale e reale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti proporzioni: i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto, perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali; ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie e soprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) la spesa per il personale - con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari dall’11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle P. A. non funzionali alla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dal sistema pensionistico e dal sistema sanitario - conquiste e collanti della società italiana - rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente e solo residualmente far ricorso.
8. Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamente risalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limiti europei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci di spesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5% rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatori dell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggiori investimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nella misura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.
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