Se questi sono i risultati delle vittorie diplomatiche, figuriamoci
quelli delle sconfitte. Così penseranno, di fronte ai «necessari
sacrifici» annunciati ieri, milioni di spagnoli ai quali era stato
venduto il risultato dell’ultimo Consiglio europeo come un successo del
«fronte latino» Rajoy-Monti-Hollande.
Piegate le resistenze della Merkel, estratto dal cilindro il coniglio blocca-spread, finalmente l’austerità protestante lasciava il posto ad una più cattolica comprensione delle ragioni dei popoli in difficoltà: così recitava la propaganda filo-governativa nel paese iberico. In buona compagnia dell’altrettanto celebrativa grande stampa italiana, moderata e «progressista», che versava fiumi di inchiostro per rassicurarci circa il buon lavoro fatto dal nostro premier bocconiano, tanto bravo a far di conto quanto andreottianamente abile nelle partite a scacchi della politica estera.
Erano stati in pochi (il manifesto tra questi) ad avanzare dei dubbi riguardo la veridicità della versione ufficiale del summit di Bruxelles, lanciando l’allarme sulle contropartite in cambio degli «aiuti». Come decine di altri vertici nei mesi precedenti – tutti sempre annunciati come decisivi -, anche l’ultimo non ha prodotto nulla che possa fermare davvero l’espandersi del contagio della crisi economica e sociale. Un paio di giorni di calma apparente sui mercati finanziari, e poi immediatamente ricomincia tutto da capo: sale lo spread, si diffonde l’allarme per gli insostenibili tassi di interesse sul debito e via, un altro giro di giostra di tagli. E così continuerà, se il destino dell’Europa – degli europei – seguiterà a dipendere dai bizantinismi degli accordi fra capi di governo siglati nel chiuso delle stanze del consiglio.
Non c’è alternativa: se non irrompe in scena un forte soggetto politico-sociale che, su scala continentale, crea hic et nunc le condizioni di una svolta, le misure di austerità come quelle greche, spagnole (o italiane) sono l’unico esito possibile, perché in campo resta solo la trojka. La presenza di Hollande al tavolo di Bruxelles è certamente condizione necessaria ma largamente non sufficiente per un cambiamento vero.
Serve il protagonismo dei partiti di sinistra, del sindacato, delle associazioni, dei collettivi di indignados, che devono essere capaci di creare quel fronte comune europeo di cui parlava ieri su queste colonne Monica Frassoni. Altrimenti, la pur straordinaria resistenza di cui si stanno rendendo protagonisti numerosi settori della società spagnola, dagli insegnanti ai minatori, dagli studenti agli sfrattati, non avrà la forza per imporsi. E lo stesso vale per le possibili lotte a venire, in autunno, nel nostro Paese, come per quelle – ormai di lunga durata – dei greci.
Le dure repliche non della storia, ma dell’attualità, mostrano che per le sinistre non c’è spazio d’intesa possibile con chi pensa che le origini della crisi stiano nell’eccesso di spesa pubblica, nella rigidità del mercato del lavoro o addirittura nella concertazione – ultima perla del nostro premier. Se non lo si capisce analizzando l’Italia, si guardi proprio alla Spagna, dove il rapporto debito\pil fino al 2007 era del 36% e dove un articolo 18 non c’è mai stato. Il problema, in entrambe le penisole, sta semmai nella debolezza del sistema produttivo, da cui derivano gli squilibri nella bilancia dei pagamenti.
È inutile illudersi che i fautori dell’austerità possano essere contemporaneamente artefici di una politica industriale, impegnati come sono a tagliare i finanziamenti alle università o le tredicesime del pubblico impiego. E a bastonare, come capitato ieri nelle strade di Madrid, chi, malgrado tutto, ha ancora la forza di ribellarsi.
Piegate le resistenze della Merkel, estratto dal cilindro il coniglio blocca-spread, finalmente l’austerità protestante lasciava il posto ad una più cattolica comprensione delle ragioni dei popoli in difficoltà: così recitava la propaganda filo-governativa nel paese iberico. In buona compagnia dell’altrettanto celebrativa grande stampa italiana, moderata e «progressista», che versava fiumi di inchiostro per rassicurarci circa il buon lavoro fatto dal nostro premier bocconiano, tanto bravo a far di conto quanto andreottianamente abile nelle partite a scacchi della politica estera.
Erano stati in pochi (il manifesto tra questi) ad avanzare dei dubbi riguardo la veridicità della versione ufficiale del summit di Bruxelles, lanciando l’allarme sulle contropartite in cambio degli «aiuti». Come decine di altri vertici nei mesi precedenti – tutti sempre annunciati come decisivi -, anche l’ultimo non ha prodotto nulla che possa fermare davvero l’espandersi del contagio della crisi economica e sociale. Un paio di giorni di calma apparente sui mercati finanziari, e poi immediatamente ricomincia tutto da capo: sale lo spread, si diffonde l’allarme per gli insostenibili tassi di interesse sul debito e via, un altro giro di giostra di tagli. E così continuerà, se il destino dell’Europa – degli europei – seguiterà a dipendere dai bizantinismi degli accordi fra capi di governo siglati nel chiuso delle stanze del consiglio.
Non c’è alternativa: se non irrompe in scena un forte soggetto politico-sociale che, su scala continentale, crea hic et nunc le condizioni di una svolta, le misure di austerità come quelle greche, spagnole (o italiane) sono l’unico esito possibile, perché in campo resta solo la trojka. La presenza di Hollande al tavolo di Bruxelles è certamente condizione necessaria ma largamente non sufficiente per un cambiamento vero.
Serve il protagonismo dei partiti di sinistra, del sindacato, delle associazioni, dei collettivi di indignados, che devono essere capaci di creare quel fronte comune europeo di cui parlava ieri su queste colonne Monica Frassoni. Altrimenti, la pur straordinaria resistenza di cui si stanno rendendo protagonisti numerosi settori della società spagnola, dagli insegnanti ai minatori, dagli studenti agli sfrattati, non avrà la forza per imporsi. E lo stesso vale per le possibili lotte a venire, in autunno, nel nostro Paese, come per quelle – ormai di lunga durata – dei greci.
Le dure repliche non della storia, ma dell’attualità, mostrano che per le sinistre non c’è spazio d’intesa possibile con chi pensa che le origini della crisi stiano nell’eccesso di spesa pubblica, nella rigidità del mercato del lavoro o addirittura nella concertazione – ultima perla del nostro premier. Se non lo si capisce analizzando l’Italia, si guardi proprio alla Spagna, dove il rapporto debito\pil fino al 2007 era del 36% e dove un articolo 18 non c’è mai stato. Il problema, in entrambe le penisole, sta semmai nella debolezza del sistema produttivo, da cui derivano gli squilibri nella bilancia dei pagamenti.
È inutile illudersi che i fautori dell’austerità possano essere contemporaneamente artefici di una politica industriale, impegnati come sono a tagliare i finanziamenti alle università o le tredicesime del pubblico impiego. E a bastonare, come capitato ieri nelle strade di Madrid, chi, malgrado tutto, ha ancora la forza di ribellarsi.
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