La vicenda dell’Ilva di Taranto deve portare ad un attento riesame
delle scelte fatte in questi ultimi anni in materia di privatizzazioni; a
sua volta, questo riesame implica la presa di coscienza dell’agonia
nella quale versa lo stato sociale che i meno giovani tra noi ricordano e
forse rimpiangono. In cosa consisteva questo stato sociale?
Innanzitutto, nella tutela dell’occupazione. Le grandi imprese non potevano fallire: qualora le cose fossero andate troppo male, c’era sempre un Iri, o un Efim, o un Eni – o, per le imprese di medie dimensioni, una Gepi – che avrebbero provveduto al salvataggio sia dell’impresa che dei posti di lavoro. Le piccole imprese, o le attività di servizio private, godevano di una sostanziale immunità fiscale: in altri termini, o non pagavano le tasse o pagavano molto meno del dovuto. Quando le grandi imprese avevano esuberi consistenti, non si licenziava, ma si realizzavano prepensionamenti: e questo, a memoria di chi scrive, fu molti anni or sono il caso della Finsider.
Certo, c’era molto che non andava nel sistema descritto: oneri oggi impensabili venivano posti a carico del bilancio dello Stato, con la conseguente – ed oggi evidente – lievitazione del debito pubblico. C’erano però anche aspetti positivi. Gli occupati, nella sostanziale certezza dell’intangibilità del posto di lavoro, potevano indebitarsi per comprare la casa e l’automobile, far studiare i figli, ecc. Allo stesso tempo, pagavano tasse e contributi e, sotto alcuni aspetti, restituivano allo Stato quello che dallo Stato avevano ottenuto.Le grandi imprese, private o pubbliche investivano anche senza finalità di massimizzazione del profitto; cosa che oggi invece non avviene (e questo è il caso dell’Ilva di Taranto, che non ha effettuato gli investimenti ecologici che avrebbero evitato la chiusura di alcuni reparti).
Oggi per limitare il disavanzo pubblico, e quindi per ridurre temporaneamente il debito, si taglia su alcune delle funzioni essenziali dello stato sociale: sull’istruzione, sulla sanità, sulle pensioni, e – sia pure indirettamente – sull’occupazione: se un’azienda è in difficoltà, che chiuda o licenzi alcune migliaia di dipendenti non fa alcuna differena. E così il sistema economico si avvita in una recessione senza uscita: meno occupati e meno consumi – meno automobili per Marchionne, al quale è scoppiato in mano il bluff di Fabbrica Italia – meno entrate per il fisco e per l’Inps. Allo stesso tempo, cresce il settore privato. «Meno Stato e più mercato», come hanno sempre sostenuto i fautori di un’economia meno soggetta alla politica.
Ma dove ci ha portato questa filosofia? Le Banche, ormai tutte privatizzate, si sono arroccate in un cartello praticamente inattaccabile. Intesa San Paolo, per non fare che un esempio, paga lo 0.1% di interessi ai depositanti, ma applica interessi che vanno dal 10 al 20% a chi richieda un fido; allo stesso tempo è l’intero sistema bancario che ha provocato la crisi attuale che chiede allo Stato (ed ottiene) consistenti sostegni per evitare il fallimento che avrebbe largamente meritato, ma che si deve evitare nell’interesse dei depositanti! La sanità pubblica, un tempo (con qualche eccezione) esempio di elevata qualità, diviene sempre più la sanità dei poveri; la scuola pubblica, che a suo tempo inviava a quella privata i ragazzi e le ragazze non recuperabili, perde colpi rispetto a quella privata, con un generale scadimento dei livelli culturali. La stessa università statale, dominata da ignoranza e nepotismi, viene gradualmente soppiantata dalle varie Luiss e Bocconi. Le strutture statali, che dovrebbero garantire la salvaguardia dell’interesse pubblico rispetto a quello privato, tendono sempre più a latitare; le Soprintendenze autorizzano i peggiori scempi: a Roma, il restauro del Colosseo, sponsorizzato da un privato (!) viene affidato a ditte specializzate non nel restauro, ma nell’edilizia!
È improbabile che si possa rimediare in tempi brevi ai danni di vent’anni di berlusconismo; è grave però che si insista ciecamente sulla stessa strada, ignorando o fingendo di ignorare dove essa ci stia portando.
Innanzitutto, nella tutela dell’occupazione. Le grandi imprese non potevano fallire: qualora le cose fossero andate troppo male, c’era sempre un Iri, o un Efim, o un Eni – o, per le imprese di medie dimensioni, una Gepi – che avrebbero provveduto al salvataggio sia dell’impresa che dei posti di lavoro. Le piccole imprese, o le attività di servizio private, godevano di una sostanziale immunità fiscale: in altri termini, o non pagavano le tasse o pagavano molto meno del dovuto. Quando le grandi imprese avevano esuberi consistenti, non si licenziava, ma si realizzavano prepensionamenti: e questo, a memoria di chi scrive, fu molti anni or sono il caso della Finsider.
Certo, c’era molto che non andava nel sistema descritto: oneri oggi impensabili venivano posti a carico del bilancio dello Stato, con la conseguente – ed oggi evidente – lievitazione del debito pubblico. C’erano però anche aspetti positivi. Gli occupati, nella sostanziale certezza dell’intangibilità del posto di lavoro, potevano indebitarsi per comprare la casa e l’automobile, far studiare i figli, ecc. Allo stesso tempo, pagavano tasse e contributi e, sotto alcuni aspetti, restituivano allo Stato quello che dallo Stato avevano ottenuto.Le grandi imprese, private o pubbliche investivano anche senza finalità di massimizzazione del profitto; cosa che oggi invece non avviene (e questo è il caso dell’Ilva di Taranto, che non ha effettuato gli investimenti ecologici che avrebbero evitato la chiusura di alcuni reparti).
Oggi per limitare il disavanzo pubblico, e quindi per ridurre temporaneamente il debito, si taglia su alcune delle funzioni essenziali dello stato sociale: sull’istruzione, sulla sanità, sulle pensioni, e – sia pure indirettamente – sull’occupazione: se un’azienda è in difficoltà, che chiuda o licenzi alcune migliaia di dipendenti non fa alcuna differena. E così il sistema economico si avvita in una recessione senza uscita: meno occupati e meno consumi – meno automobili per Marchionne, al quale è scoppiato in mano il bluff di Fabbrica Italia – meno entrate per il fisco e per l’Inps. Allo stesso tempo, cresce il settore privato. «Meno Stato e più mercato», come hanno sempre sostenuto i fautori di un’economia meno soggetta alla politica.
Ma dove ci ha portato questa filosofia? Le Banche, ormai tutte privatizzate, si sono arroccate in un cartello praticamente inattaccabile. Intesa San Paolo, per non fare che un esempio, paga lo 0.1% di interessi ai depositanti, ma applica interessi che vanno dal 10 al 20% a chi richieda un fido; allo stesso tempo è l’intero sistema bancario che ha provocato la crisi attuale che chiede allo Stato (ed ottiene) consistenti sostegni per evitare il fallimento che avrebbe largamente meritato, ma che si deve evitare nell’interesse dei depositanti! La sanità pubblica, un tempo (con qualche eccezione) esempio di elevata qualità, diviene sempre più la sanità dei poveri; la scuola pubblica, che a suo tempo inviava a quella privata i ragazzi e le ragazze non recuperabili, perde colpi rispetto a quella privata, con un generale scadimento dei livelli culturali. La stessa università statale, dominata da ignoranza e nepotismi, viene gradualmente soppiantata dalle varie Luiss e Bocconi. Le strutture statali, che dovrebbero garantire la salvaguardia dell’interesse pubblico rispetto a quello privato, tendono sempre più a latitare; le Soprintendenze autorizzano i peggiori scempi: a Roma, il restauro del Colosseo, sponsorizzato da un privato (!) viene affidato a ditte specializzate non nel restauro, ma nell’edilizia!
È improbabile che si possa rimediare in tempi brevi ai danni di vent’anni di berlusconismo; è grave però che si insista ciecamente sulla stessa strada, ignorando o fingendo di ignorare dove essa ci stia portando.
(Duccio Valori è ex Direttore Centrale Iri)
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