Nel
più ampio silenzio mediatico che si sia mai registrato (assenza di
servizi radiotelevisivi pressoché totale, autocensura della quasi
totalità dei giornali), la Camera dei Deputati ha ratificato oggi, con
grande zelo e senza alcun dibattito significativo, con l’opposizione di
65 parlamentari di Italia dei Valori e Lega e con l’astensione di altri
65 parlamentari, il cosiddetto “Fiscal Compact”, che entrerà in vigore
il prossimo gennaio a condizione che almeno 12 paesi lo abbiano
ratificato (al momento erano solo 9, Cipro, Danimarca, Grecia, Irlanda,
Lituania, Lettonia, Portogallo, Romania e Slovenia).
L’Italia è quindi il decimo paese. Come si vede non ci sono ancora né
Francia, né Germania, paese in cui la Corte Costituzionale si è
riservata di emettere, entro Settembre, la propria sentenza sulla
compatibilità o meno con la Grundgesetzt (Legge
fondamentale) di questo provvedimento che limita definitivamente e
rende permanente, almeno per i prossimi 20 anni, la sovranità dei
singoli paesi che lo accettano, in materia di politica economica e
sociale.
Il «fiscal compact» prevede infatti, come punti centrali, “l’impegno
delle parti contraenti ad applicare e ad introdurre, entro un anno
dall’entrata in vigore del trattato, con norme costituzionali o di rango
equivalente, la ‘regola aurea’ per cui il bilancio dello Stato deve
essere in pareggio o in attivo”.
“Qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60%,
(in Italia siamo al 120% nda) le parti contraenti si impegnano a
ridurlo mediamente di 1/20 all’anno per la parte eccedente tale
misura”. “Qualsiasi parte contraente che consideri un’altra parte
contraente inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dal patto di
bilancio può adire la Corte di giustizia dell’Ue, anche in assenza di
un rapporto di valutazione della Commissione europea”.
Il meccanismo significa per il nostro paese la definitiva
cancellazione di ogni ipotesi di ruolo pubblico nello sviluppo (già
peraltro ottenuto con la recente l’introduzione del pareggio di bilancio
in Costituzione), ma soprattutto obbliga al rientro del 50%
dell’ammontare complessivo del debito pubblico che eccede il 60% del
PIL.
Attualmente il nostro debito è pari ad oltre 1.900 miliardi Euro e
raggiungerà entro fine 2012/inizio 2013, i 2.000 miliardi di Euro.
Dal 2013, oltre alle normali manovre di riduzione del Deficit di
bilancio, al finanziamento dell’ESM e di probabili altre misure a
salvataggio di altri paesi della zona Euro, dovremo aggiungere la somma
impressionante di ulteriori 50 Miliardi all’anno da reperire con
salassi generalizzati sulla ricchezza pubblica e privata italiana.
E questo non per un anno, ma per i prossimi 20 anni.
Con questo provvedimento, il futuro di due e più generazioni di
italiani è ipotecato e ancorato ad una nuova e permanente dimensione di
miseria sociale. Il patrimonio pubblico sarà sacrificato sull’altare di
questa decisione ideologica del neoliberismo che ha messo al rogo
Keynes e le sue scoperte decisive per lo sviluppo del modello sociale
europeo della seconda parte del ‘900, e con cui una classe politica
imbelle, totalmente ignorante delle conseguenze di ciò che ha
sottoscritto, ha abdicato o senza averne adeguata coscienza o per
costitutiva subalternità, al ruolo che i principi democratici
riconquistati nel dopoguerra e la Costituzione Italiana le avevano
riservato.
Sarà bene tenere a mente i nomi di questa banda di irresponsabili
bipartisan (del PDL del PD dell’UDC e degli altri gruppuscoli che
sostengono Monti) che al Senato (il 12 luglio scorso) e alla Camera
(oggi 19 luglio) hanno votato a favore: abbiamo 20 anni ed oltre per
ricordare in ogni occasione a queste persone il danno decisivo e
irrecuperabile che hanno causato con questo voto, al nostro paese.
La decisione di oggi rende tra l’altro insignificante la presunta
battaglia politica tra il cosiddetto centro-sinistra e il centro-destra a
cui dovremmo assistere di qui a poco: qualsiasi maggioranza
parlamentare e qualsiasi governo ne risulti eletto alle prossime
elezioni, a meno che non decida di uscire dall’Euro e dall’Unione
Europea denunciando questo patto e i trattati, non avrà alcuna
possibilità di rinverdire le sorti economiche del paese e il recupero di
uno spazio sociale coerente con i principi costituzionali.
Si può dire che con l’approvazione del Fiscal Compact, termina
definitivamente, in Italia, la democrazia fondata sulla sovranità
popolare e nazionale.
Si apre una nuova epoca post-democratica, post-capitalistica e dai
caratteri autoritari e neo-feudali, una configurazione che è la sola,
secondo i sostenitori postumi del neoliberismo, che possa garantire la
sopravvivenza sistemica di poteri (nazionali ed sovranazionali)
costituiti dai processi di finanziarizzazione dell’economia, dei beni
comuni, della natura e della vita di centinaia di milioni di persone.
La decisione presa costituisce infatti un volano formidabile di
ulteriore recessione, una spirale senza fondo che si aggraverà di anno
in anno e che non raggiungerà alcuno degli obiettivi decantati dalle
elite tecnocratiche europee e nostrane: il prossimo anno, i miliardi da
sborsare per soddisfare solo la decisione assunta oggi dal Parlamento,
in corrispondenza di un PIL che diminuirà almeno del 2% nel 2012, farà
lievitare le 20 rate annuali, ben oltre il previsto, rendendone
impraticabile la gestione, a meno di una svendita progressiva dei beni
fisici del paese, cioè di una nuova colonizzazione dell’Italia. Il
salasso finanziario imposto dal Fiscal Compact sarà del 2,5% del PIL
attuale, a bocce ferme, ma è facile ipotizzare che esso possa crescere
fino al 3-4%.
Alla fine del ventennio, nel 2033, il bel paese potrebbe assomigliare
ad un grande spazio geografico simile a quello del dopoguerra, le cui
maestranze saranno state riconvertite in guide turistiche e camerieri
al servizio dei turisti dei paesi avanzati d’Europa, d’Asia e
d’America.
Una nuova Dolce Vita e magari nuove Cinecittà, insieme allo
svuotamento del territorio delle nuove generazioni in fuga verso altri
lidi.
Non tutto è perduto, tuttavia, ammesso che, a questo punto, tutte le
ambiguità e le incertezze presenti nella sinistra sociale e politica
(ed oltre) vengano sciolte: se si vuole continuare a pensare ad un
futuro potabile e sostenibile socialmente, non vi è ormai altra
alternativa a quella dell’uscita dall’Euro. La quale, da decisione
autonoma, si trasforma in necessità indotta dagli eventi.
La posta in gioco è ora o il declino economico-sociale definitivo
gestito e condotto dai poteri delle elites interne ed esterne, oppure
recuperare sovranità e democrazia rischiando periodi certamente molto
difficili e dolorosi, come altre situazioni ci hanno mostrato, ma
recuperando alle popolazioni, il ruolo di decisore finale.
Il un certo senso, si tratta di decidere se ci accodiamo all’antica
abitudine di “Francia o Spagna (oggi Germania) purchè se magna”, oppure
se riproviamo, come in altri contesti storici risorgimentali, a contare
sulle nostre forze, espungendo tutti gli elementi di costrizione
esterne e di subalternità di classe interne.
Secondo molti c’è una terza via, che sarebbe la più sensata e
politicamente corretta, quella di una reale e completa unità politica
europea e di un nuovo protagonismo delle classi lavoratrici del
continente. Ma questa possibilità esisteva, per quanto ci riguarda come
italiani, fino a ieri.
Da oggi questa prospettiva è casomai da recuperare con passaggi nazionali
che impongano la distruzione dell’Europa neoliberista e la sua
ricostruzione in Europa sociale; in cui si sia capaci di imporre il
recupero dell’equilibrio tra pubblico e privato, di processi democratici
autonomi e non subalterni ai mercati, di mettere un guinzaglio ferreo e
permanente alla finanza, allo strapotere dei megagruppi bancari e alle
imprese multinazionali: insomma solo a condizione che si estrometta
per sempre l’ideologia neoliberista e che si inauguri il nuovo
paradigma di sostenibilità sociale ed ambientale, di una nuova
centralità dell’uomo e della vita contro la riduzione dell’uomo e della
vita a numeri e rapporti contabili.
Tutte cose giuste e condivisibili, ma dal punto di vista politico,
ciò può avere qualche chance di realizzarsi solo se, al punto a cui
siamo arrivati, saremo in grado di far saltare il banco.
E, come i fatti stanno dimostrando, la chiave decisionale non è
un’inesistente Europa, ma sono gli ancora esistenti (per il momento),
Stati Nazionali. E’ a questi, infatti che si è chiesta la ratifica della
nuova dogmatica. E’ da questi che essa può essere fatta saltare.
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