Nell’indifferenza più assoluta, alla commissione Difesa del Senato (di cui è appena diventato presidente quel Valerio Carrara che non vuole ricevere email dai cittadini) si sta completando il primo passaggio parlamentare della riforma delle forze armate che porta la firma dell’ammiraglio-ministro Giampaolo Di Paola.
Una riforma che non si sa che cosa comporterà perché in quattro
articoletti dà di fatto carta bianca al Governo per ridisegnare la
nostra difesa. Come? Nessuno lo dice, men che meno Di Paola: sappiamo
solo che dovrebbe riequilibrare la ripartizione del bilancio, dal 70 per
cento attualmente destinato al personale a un più ragionevole 50 per
cento per stipendi e il rimanente per funzionamento e ammodernamento.
Qualsiasi altro governo avrebbe presentato chilometri di documenti per
spiegare come e dove taglierà, cosa cambierà e, soprattutto, per che
cosa dovremmo armarci e, se servisse, partire. Non il governo Monti-Di
Paola.
Una sola cosa è certa, incisa nero su bianco: i militari scenderanno dagli attuali 180 mila circa a 150 mila (-16,5%), i civili della difesa diminuiranno da 30 mila a 20 mila (-33,3%), il che segnerà la definitiva militarizzazione del ministero.
Qualcuno, giustamente, si chiederà: ma la difesa non è dei militari?
Non proprio. Oltre alle funzioni militari, che si riducono poi
essenzialmente a fare la guerra, c’è una moltitudine di altre attività
che “definiscono” la difesa: amministrative, di supporto, manutenzione.
Napoleone diceva che une armée marche à son estomac, principio
valido oggi come ieri: dunque se una volta c’erano le vivandiere oggi
servono cuochi. Per non parlare poi della policy della difesa, che in
tutto il mondo viene gestita e determinata dagli alti funzionari civili.
In tutti i paesi europei, ad esempio, il segretario generale della difesa/direttore generale degli armamenti che sovraintende all’amministrazione e all’acquisto degli armamenti è un funzionario civile. Da noi un generale o un ammiraglio: anche Di Paola lo è stato.
In Francia, a fronte di 235.230 militari ci sono 69.990 civili con un rapporto di 1 civile ogni 3,36 militari (fonte: Les Chiffres Clés de la Défense édition 2011). In Gran Bretagna, a fianco di 175.940 soldati lavorano 70.940 impiegati, cioé 1 ogni 2,48 (fonte UK Armed Forces Quarterly Manning Report – 1 January 2012 e Quarterly Civilian Personnel Report – 1 April 2012). Da noi, per 182.336 militari (fonte Conto annuale del Tesoro 2010) ci sono oggi 29.646 civili (cifre fornite da Noemi Manca della Cgil durante l’audizione alla commissione Difesa del Senato), cioé il rapporto è di 6,15 soldati ogni impiegato o operaio civile. Con la contro-riforma Di Paola questo rapporto, che una volta avremmo chiamato sudamericano, salirebbe addirittura a 7,5.
Dunque,
complice un Parlamento muto si sta cercando in modo maramaldesco di
militarizzare definitivamente il ministero. Progetto perseguito da tempo
immemorabile dai nostri generali, che hanno riempito negli anni uffici
amministrativi di militari sostituendoli ai civili. Marescialli che fanno gli stipendi, capitani che si occupano di pensioni, colonnelli che dirigono soggiorni estivi.
Insomma nessun uomo e tutti caporali (senza offesa per questi ultimi).
Con un obiettivo: più militari ci sono, più generali e colonnelli
servono. Con il vantaggio di meno sindacati, meno occhi indiscreti, meno trasparenza.
E un effetto sicuro: un aumento spropositato delle spese per stipendi.
Un soldato, a parità di grado/livello, guadagna enormemente di più di un
civile, senza contare i costi aggiuntivi dell’addestramento militare. Secondo i dati illustrati al Senato dalla Ragioneria generale dello Stato, la media delle retribuzioni da maresciallo a tenente colonnello dell’Esercito nel 2010 era di 45.361 euro, contro i 24.185 di un civile della 2^ e 3^ area: quasi il doppio, dunque. Applicando questa differenza alla controriforma Di Paola, tagliare diecimila civili anziché diecimila militari ci costerà almeno 211 milioni di euro l’anno in più. Al di là di tutte le altre considerazioni, siamo sicuri che ci convenga?
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