mercoledì 11 luglio 2012

La disoccupazione felice dell'Ocse

Accostiamo diversi articoli che parlano del rapporto Ocse. Il più sorprendente è quello di Chiara Saraceno, su Repubblica.
In cui sostanzialmente l'economista scrive che tutto il "discorso pubblico" - fatto da Repubblica - e gli "emendamenti" proposti dal Pd sono stronzate. Naturalmente Saraceno è un persona educata e non usa questi termini. Ma questo vuol dire.

Tragedia globale. Ma l'Ocse benedice il governo Monti
Francesco Piccioni
A esser giovani ci si rimette, a esser anziani pure. Finalmente un po' di equità! Il rapporto Ocse sull'occupazione nei 30 paesi più industrializzati non lascia a nessuno il diritto di sperare che le cose andranno meglio nel breve periodo, ma per quanto riguarda l'Italia sembra quasi che l'organizzazione abbia studiato un altro paese.
Non per i dati, ovviamente, che sono brutti e duri. Il tasso di disoccupazione da noi ha superato ormai il 10% (contro la media del 7,9, a maggio), ma la distribuzione è pesantemente squilibrata sul fronte giovanile e sulle basse qualifiche. Tra il 2007 e oggi la disoccupazione giovanile è passata dal 21,6 al 36,2%. Quella di «lungo periodo» (un anno e più) dall'8 al 15,8%. I ragazzi tra i 15 e il 24 anni che non studiano e non lavorano sono il 20% della loro fascia d'età; peggio di Messico e Turchia, per capirci. Ma, come si diceva, ad essere adulti non ci si guadagna granché: la disoccupazione di lungo periodo è aumentata molto anche per i 25-54enni. Così imparano...
Non che le cose vadano molto meglio, negli altri 29 paesi. Semplicemente per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi servirebbe creare 14 milioni di posti di lavoro, ma «il peggioramento delle prospettive economiche» non faciliterà la ripresa della assunzioni a tempo indeterminato. La conseguenza è ovvia: «i governi devono utilizzare ogni mezzo per aiutare chi cerca lavoro, in particolare i giovani, che rischiano di subire danni a lungo termine alla loro carriera e alla loro vita». Fino a suggerire «lavori sussidiati con fondi pubblici e ancor meglio gli aiuti alle nuove assunzioni». A trovarne, di governi che si preoccupano di fare anche solo una di queste cose...
La spiegazione dell'Ocse per la moria di posti di lavoro occupati da giovani non fa in teoria una piega. «I nuovi arrivati nel mercato del lavoro mancano di esperienza»; in secondo luogo «sono spesso occupati con contratti atipici» e quindi possono esser licenziati senza lungaggini. In tempi di crisi, come sa chiunque abbia avuto a che fare col lavoro reale, sono i primi a esser messi fuori.
I dolori vengono quando l'Ocse - o meglio il suo capoeconomista, Piercarlo Padoan - prova a indicare come «nella giusta direzione» l'operato del governo Monti. La cui «riforma del mercato del lavoro» punterebbe a «riequilibrare l'uso delle diverse forme contrattuali». Se si vuol dire che ora, con la cancellazione operativa dell'art. 18, ci possiamo considerare tutti precari, è vero. Ma è difficile considarlo un «passo avanti» verso la maggiore occupabilità.
Lunare poi il giudizio sulla «riduzione dei costi sociali e occupazionali delle prossime recessioni» che verrebbe da questa stessa «riforma». Intanto perché vede una «minore incidenza del lavoro temporaneo e delle altre forme contrattuali atipiche» che invece sono state confermate e peggiorate. In secondo luogo perché registra una «estensione della copertura dell'indennità di disoccupazione a una platea più ampia di lavoratori e un aumento moderato della sua generosità».
Qui sembra evidente l'azione di un grosso equivoco o una pessima informazione (mettendo da parte i possibili sospetti di malafede). La nuova indennità di disoccupazione (Aspi) copre effettivamente più persone della forma fin qui esistita e aumenta leggerissimamente anche la portata dell'assegno; che resta comunque molto inferiore alla media dei nostri vicini e «competitor» europei. Ma questo - quando andrà a regime - avviene a scapito di altra forme di tutela occupazionale e reddituale. Per esempio, le forme di cassa integrazione vengono ridotte alla sola «ordinaria» (per crisi dovute a eventi eccezionali), abolendo di fatto quasi tutti i casi di «straordinaria» e la «mobilità».
L'Ocse, come tutte le altre organizzazioni sovranazionali, è orientata da una visione del mondo ultra-liberista. La scelta dell'Aspi, che solo a loro sembra così «generosa», andrebbe dunque «sostenuta da una strategia di attivazione» che spinga i «beneficiari» a «impegnarsi attivamente nella ricerca di un lavoro». Pena «sanzioni».
Non è insomma «l'analisi» del nostro paese, ma la «prescrizione» di un altro modello sociale. Per questo ci hanno dato Monti.
da "il manifesto"
 
«Così neanche negli anni '50»
INTERVISTA - Francesco Piccioni
 
Sotto i 24 anni 1 occupato su 2 è precario. Il 20% dei giovani italiani non studia e non può lavorare, peggio del Messico GIANNI RINALDINI Dopo la politica la tempesta sta travolgendo anche il sindacato
Il lavoro diventa liquido, precario, mobile. Come si fa ad roganizzarlo e fare sindacato? Ne parliamo con Gianni Rinaldini, coordiantore dell'area «La Cgil che vogliamo» ed ex segretario generale della Fiom.
Hai letto dei nuovi dati Ocse?Sono purtroppo la conferma che la situazione peggiora. Mi sembra le misure - dalle pensioni al mercato del lavoro - che ha deciso questo governo aggravano disoccupazione e recessione. Prefigurano un nuovo assetto del paese,una ridefinizione del ruolo delle stesse rappresentanze sociali. Quindi anche del sindacato. Sono misure che ipotizzano, per un'eventuale ripresa, un assetto del paese fondato sulla precarizzazione, l'abolizione dei contratti, la libertà di licenziamento e la crescita, paradossalmente, di tutte le forme assicurative e previdenziali. Cioè del sistema creditizio, che si accompagna alla riduzione, per esempio, della sanità.
Sembra un ritono indietro. Come fa il sindacaro ad incontrare il lavoro quando diventa così precario, sfuggente...?Il sindacato è in evidente condizione di difficoltà e di crisi. Il problema non è tanto di cambiare i soggetti di riferimento, ma non c'è dubbio che - rispetto a quello che è successo nel corso di questi mesi, dalle pensioni ai disegni di legge su precarietà, art. 18 e ammortizzatori sociali - il sindacato non è stato in grado di proporsi come elemento di unificazione dei diversi soggetti; a partire dalla difesa ed estensione delle tutele. Anche con proposte nuove, che è la condizione per ricostruire un livello di rappresentanza sociale vero. Si è di fatto assecondato il percorso che ha presentato la falsa contrapposizione tra giovani e anziani sulle pensioni, con cui han fregato in primo luogo i giovani; quella un bene come l'art. 18 e l'aumento della precarietà. Adesso siamo al tentativo evidente di contrapporre dipendenti pubblici e privati.
Perché non ha saputo rispondere?Non ha mai aperto una discussione vera. Questa crisi mette in discussione gli aspetti fondativi del sindacato, su come tracciare un'idea del sindacato del futuro. Che non è semplicemente la riproposizione delle cose del passato, ma come far vivere gli stessi valori - solidarietà, giustizia sociale, autonomia contrattuale - in una fase totalmente diversa. Penso al problema della rappresentanza dei precari, ai contratti che oggi riguardano solo una parte dei lavoratori; a come il sindacato si deve riorganizzare.
Che significa?Bisogna tornare a un rapporto con la gente che non si fa attraverso gli uffici. Bisogna tornare sui luoghi, all'idea di un sindacato e una militanza che oggi in molti casi non c'è.
È diventato un mestiere?Corre il rischio di diventare un mestiere, con il suo tran tran quotidiano; mentre tutto attorno c'è una realtà sociale che sfugge, che non trova la sua rappresentanza sociale. In effetti, il sindacato sta vivendo con anni di ritardo quello che è successo alla politica.
Cioè lo sganciamento dal soggetto sociale.Diciamo che corre il rischio.....
C'è qualche segnale di presa di consapevolezza di questo stato di cose?«Presa di consapevolezza» mi parrebbe un'espressione azzardata. Le cose che stanno succedendo sono tali che il sindacato non può che affrontare radicalmente una discussione forte. Ormai il quadro legislativo da una parte e i processi sociali dall'altra ci consegnano una realtà persino sconosciuta, anche nel passato. Le novità si susseguono una dietro l'altra. Chiedevi dei precari... Ma nello stesso tempo il contratto fatto nelle ferrovie prevede un aumento dell'orario di lavoro, dalle 36 alle 38 ore. Credo non sia mai successo che il sindacato firmi un accordo di aumento dell'orario di lavoro. Ma anche questo sta dentro le tendenze in atto oggi; e non solo nel nostro paese.
Sono tendenze in ordine sparso?In realtà c'è un filo logico, che appunto prefigura un nuovo assetto sociale del paese. Fatto di frammentazione, divisione e corporativizzazione, aumento di tutti i livelli di diseguaglianza sociale.
C'è un problema di cultura politica?Il problema è questo. Il quadro che abbiamo di fronte non c'era neanche negli anni '50; tutte le conquiste fatte successivamente sono state praticamente azzerate.
Il futuro come ritorno all''800, grossomodo...È un processo di americanizzazione delle relazioni sociali. Anche nelle praterie che si stanno spianando per lo sviluppo di un sistema creditizio privato. Pensa alle pensioni, alla sanità...Si moltiplicano gli accordi aziendali e territoriali per i fondi sanitari privati; mentre dall'altra parte il governo taglia.
 
da "il manifesto"
 
 
Mercato del lavoro e disugualianze
Chiara Saraceno
C'è un dato relativamente nuovo nel Rapporto Ocse sulle prospettive dell’occupazione, per quanto riguarda l’Italia: l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Contrariamente ad ogni mitologia sugli effetti benefici, per il  dinamismo del mercato del lavoro, della flessibilità in uscita, emerge che chi perde il lavoro difficilmente ne trova un altro entro uno, e persino due anni. Nel migliore dei casi, la flessibilità in uscita si trasforma in turn-over, in sostituzione di un lavoratore con un altro. Nel peggiore, e più frequente, si trasforma semplicemente in perdita sia di lavoro per chi lo aveva, sia di occupazione complessiva.L’anno scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro il 48,5% nel 2010. 
Oltre alla mancanza di reddito, questo dato nasconde enormi rischi di perdita di capitale umano e professionale e di fiducia nel futuro. Contribuisce anche ad alimentare il fenomeno dei lavoratori scoraggiati, ovvero di coloro che non cercano più un’occupazione ed escono, almeno ufficialmente, dalle file degli attivi.
 Lo aveva già segnalato una nota dell’Istat l’aprile scorso, allorché aveva evidenziato come nel 2011 la percentuale degli inattivi sia aumentata. All’11,6% delle persone in età di lavoro, è di oltre tre volte superiore alla media europea.
Ciò in parte è dovuto all’alta incidenza dell’inattività tra le donne. Questa a sua volta rimanda non tanto a scelte libere, quanto a difficoltà sia a trovare lavoro, specie nel Mezzogiorno, sia a conciliarlo con le responsabilità familiari in un contesto di servizi scarsi e in via di ulteriore riduzione. Ma l’inattività è in aumento anche tra gli uomini.
Nella stessa nota, l’Istat indicava come tra gli “inattivi” quasi la metà fosse composta da persone scoraggiate dal persistente insuccesso nella ricerca di un lavoro. Se si aggiungessero anche loro ai disoccupati “ufficiali” i dati sulla
disoccupazione apparirebbero ancora più drammatici di quanto non siano. Le cifre peggiorerebbero ulteriormente se
si tenesse conto della sotto-occupazione, ovvero di chi lavora part time (poche ore al giorno, o pochi giorni alla settimana), non per scelta, ma perché non trova altro. Anche loro sono aumentati nel 2011 e costituiscono il 90% di tutti gli occupati part time.
È vero che la crisi occupazionale ha colpito in modo sproporzionato quella minoranza di giovani tra i 15 e i 24 anni che non sono più a scuola e che non sempre possono accedere all’apprendistato. Ma il rapporto Ocse segnala che disoccupazione di lunga durata, scoraggiamento, part time involontario sono fenomeni in crescita anche tra gli adulti. In particolare, l’aumento della disoccupazione di lunga durata riguarda anche gli uomini tra i 24 e i 54 anni. Mentre nel discorso pubblico sul mercato del lavoro continuano a essere additati come i privilegiati iperprotetti a danno dei più giovani (che per altro i più vecchi tra loro spesso devono mantenere), anche i maschi nelle età centrali stanno sperimentando l’erosione delle proprie sicurezze, con effetti a cascata sulla sicurezza economica delle famiglie, come evidenziano i dati più recenti sulla riduzione sia dei consumi sia del risparmio.
A fronte di questa situazione il rapporto Ocse valuta con favore la riforma del mercato del lavoro di recente approvata, specie nella parte che riduce la precarietà all’ingresso e allarga le tutele per chi ha perso il lavoro. Sappiamo tuttavia che
entrambi questi elementi sono molto più ridotti di quanto non fosse auspicabile, lasciando fuori ancora molti lavoratori e lavoratrici. Non solo, gli emendamenti che i partiti stanno cercando di fare approvare, invece di rafforzare questi due elementi in una direzione maggiormente universalistica, sembrano andare in direzione di un loro depotenziamento (nel caso della flessibilità in entrata) e di un loro rimando (nel caso dell’Aspi).
Temo che ciò non servirà a creare maggiore occupazione, mentre cristallizzerà ulteriormente le disuguaglianze nel mercato del lavoro.
 
da Repubblica

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