sabato 7 luglio 2012

L'impasse delle solite politiche anti-crisi

Non sanno più che fare. Hanno dato fondo a tutte le loro conoscenze (ideologiche e tecniche), a tutta la fantasia creativa (la finanza è un gioco che permette un sacco di varianti). Ma non succede niente.
La crisi resta lì nonostante i sacrifici, nonostante i tagli, nonostante le migliaia di miliardi regalari alle banche. Lo ricorda bene "il manifesto", questa volta, usando a rovescio l'argomento sfoderato dagli economisti tedeschi che hanno criticato Angela Merkel con una lettera alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Lì si diceva che "I contribuenti, i pensionati, i risparmiatori dei paesi d'Europa ancora solidi non possono essere chiamati a rispondere per garantire questi debiti" delle banche. 
Un ragionamento da leghisti di un Nord più a Nord della Brianza, ma che coglie un frammento di una verità più generale: ci sono più debiti bancari che statali, e non c'è fondo che possa far fronte a quella voragine, ingiusto e inutile chiamare le popolazioni a tira fuori somme che non hanno, rinunciando a diritti e a un modello sociale che ha garantito benessere.
Certo, questi tedeschi-leghisti parlano per se stessi, mentendo anche parecchio (giudicano il proprio sistema bancario "sano", mentre è tra quelli messi peggio in Europa, e pensano che debbano essere solo gli altri paesi a farsi carico dei problemi). Ma il principio è esatto: non può essere la massa della popolazione (lavoratori, aziende, ecc; l'"economia reale", insomma) a pagare un conto lasciato scoperto dalla finanza allegra delle privatissime banche globali.
Pubblichiamo anche il pezzo di Rampini, tuttologo dell'orrido quotidiano Repubblica, perché arriva per la prima volta adar conto di come la "trappola della liquidità" (la creazione forsennata di moneta che non fa ripartire assolutamente nulla, né i soncumi né gli investmenti) sia il punto zero - come sempre - della gestione monetarista della crisi. L'espressione più azzeccata rimane comunque quella elaborata da Mario Draghi per descrivere la posizione di una banca centrale nella crisi: "non si può spingere con una corda".

Il grido di allarme del Fondo monetario
Fracesco Piccioni, Il Manifesto
Le istituzioni servono a garantire continuità attraverso il tempo, quindi dovrebbe essere nel loro dna la tendenza a «tranquillizzare» i sottoposti. Da qualche giorno, invece, si susseguono segnali preoccupatissimi da parte dei vertici istituzionali più influenti. È escluso che lo facciano per convincere qualche governo esitante di fronte ai diktat; né hanno trovato coalizioni sindacali intrattabili in qualche paese economicamente significativo (la Grecia resta un unicum, per ora). Vuol dire che l'allarme è serio, perché la crisi è peggiore di quanto avevano fin qui capito.
Dopo il presidente della Bce Mario Draghi, che aveva gelato le borse giovedì, pur tagliando il tasso di interesse, ieri è toccato a Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Parole per nulla diplomatiche: «Non facciamo errori, questa è una crisi globale», «nel corso degli ultimi mesi, la prospettiva si è fatta sempre più preoccupante. Molti indicatori dell'attività economica - investimenti, occupazione, produzione - si sono deteriorati. E non solo in Europa o negli Stati Uniti ma anche nei principali mercati emergenti: Brasile, Cina, India». Le conseguenze sulle previsioni sono ovvie: «Fra dieci giorni l'Fmi ritoccherà al ribasso le prospettive della crescita globale», tre mesi vista al 3,3% quest'anno e al 4,1 il prossimo.
L'effetto sui mercati finanziari è stato immediato, facendo crollare per il secondo giorno consecutivo le borse europee e statunitense. Madrid, la più esposta, ha perso il 3,1%, con spread a 560 punti e tassi al 7%; seguita da Milano che lascia sul terreno quasi il 2,6; ma anche Parigi e Francoforte perdono circa il 2%. Lo spread Btp-Bund è schizzato a 467 punti base, il cambio euro-dollaro è sceso al minimo dal luglio 2010 (1,22) mentre Wall Street, colpita per una volta in negativo dai pochi posti di lavoro creati nell'ultimo mese negli Usa, a due ore dalla chiusura perdeva oltre l'1,2%.
Non interessa per ora agli investitori l'invito che Lagarde rivolge a tutta l'Europa a «fare di più» in direzione di un'unità politico-monetaria-finanziaria più efficace dell'attuale. «Certo, alcuni sforzi straordinari sono già stati fatti», ha concesso riferendosi alle recenti decisioni europee, che dovranno però essere articolate e fissate nero su bianco durante l'Ecofin di dopodomani. «Ma ulteriori progressi continuano ad essere necessari per superare la crisi».
La via d'uscita indicata è la solita: «Ripristinare la solidità nazionale; riformare il settore finanziario; sostenere la crescita", esattamente in quest'ordine. Messa così, difficile sopravvivere. Specie mentre il ministro delle finanze tedesco, Wofgang Schaeuble, insiste per portare tutta la politica economica europea nelle proprie mani: «Abbiamo creato una politica monetaria grazie alla Bce, e questa deve corrispondere ad una politica finanziaria comune: questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di un parlamento, di un governo e di qualcosa che corrisponda a un ministro delle Finanze».
Ma intanto l'economia è ferma. L'altroieri Draghi ha anche azzerato il tasso che la Banca centrale europea paga a chi (le banche private) lascia soldi nei suoi forzieri. Una mossa per convincere a cercare investimenti più remunerativi, ma che difficilmente può avere esito in un mercato finanziario paralizzato dai timori. Il mare di liquidità immesso nel sistema non si riversa verso la lenta e rischiosa economia reale; dunque ci si sta avviando, nel migliore dei casi, verso una situazione di tipo giapponese, dove da oltre 25 anni i tassi di interesse sono a zero, ma la crescita anche.
La signora Lagarde ha però voluto raccomandare che «le riforme strutturali sono essenziali per creare posti di lavoro», spendendo dunque una parola di apprezzamento per quanto vanno facendo i Monti, i Samaras, ecc. Una menzogna palese, visto l'aumento immediato della disoccupazione creato dalle «riforme» nei vari paesi, Italia compresa. Una menzogna sbugiardata persino dal centinaio di economisti tedeschi che hanno inviato una lettera alla Faz per criticare la linea Merkel-Monti: «Un'unione bancaria implica una responsabilità collettiva per i debiti delle banche del sistema dell'euro; e questi debiti sono quasi tre volte i debiti pubblici. I contribuenti, i pensionati, i risparmiatori dei paesi d'Europa ancora solidi non possono essere chiamati a rispondere per garantire questi debiti».

Crescita zero e banche centrali umiliate, così la crisi dell'euro contagia il mondo
L'intervento congiunto sui tassi di giovedì non è bastato a ridare fiducia alle Borse. L'euforia per il summit Ue è scomparsa in 48 ore. Ora occhi puntati sulla Fed. E sul motore bloccato da cui tutto parte: l'economia reale
FEDERICO RAMPIN, La Repubblica
Crescita "anemica" in America col tasso di disoccupazione inchiodato all'8,2%. La Triplice delle banche centrali umiliata dai mercati. Il nodo delle banche spagnole torna a dominare le paure: ormai all'ordine del giorno c'è un salvataggio della Spagna come Stato sovrano, non dei singoli istituti. Il Fondo monetario estende l'allarme per un rallentamento a tutte le ex-locomotive emergenti, dalla Cina all'India. Quattro colpi duri, quattro sviluppi nefasti in sole 48 ore.
La settimana si è chiusa in un clima completamente rovesciato rispetto all'euforia del 29: ogni illusione suscitata da quel summit Ue si è già dissipata da tempo. L'ultimo venerdì di giugno sembra una data lontanissima nella storia, per il ritmo convulso degli eventi. La realtà si è presa la sua rivincita, e dice che nulla è cambiato nell'eurozona otto giorni fa.
La Spagna per collocare tra gli investitori i suoi titoli del Tesoro è costretta di nuovo a offrire rendimenti vicini al 7%: cioè insostenibili nel medio-lungo periodo. Avevano ragione dunque quei "maligni" del fronte euroscettico angloamericano, dai grandi media Usa agli uffici studi delle banche di Wall Street e di Londra, che non credettero alla versione del trionfo di Mario Monti su Angela Merkel.
Lo scudo anti-spread si è già arenato di fronte alla minaccia di un veto della Finlandia e a quella - ben più sostanziale - della Csu bavarese che è parte della coalizione di governo a Berlino. Dunque non ci saranno i massicci e risolutivi acquisti di bond italiani e spagnoli per arginare l'escalation dei rendimenti. Peggio: neppure l'operazione-salvataggio delle banche spagnole va in porto come si era sperato e creduto al summit del 29.
La novità risolutiva in quel caso doveva essere la ricapitalizzazione diretta: fondi travasati dall'Europa alle banche stesse, senza passare attraverso il Tesoro di Madrid. Era indispensabile quel passaggio diretto, per spezzare "il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani", così era stato spiegato a Bruxelles otto giorni fa. Chiaro: bisognava evitare cioè l'effetto perverso di un'esplosione del debito pubblico spagnolo, che è automatica se gli aiuti transitano prima sul bilancio dello Stato. E invece il "circolo vizioso" è vivo e vegeto, più funzionante che mai. Con una giustificazione iper-tecnicistica: l'attuale fondo salva-Stati Efsf non può ricapitalizzare direttamente le banche, potrà farlo solo il suo successore Esm quando sarà nato, in futuro.
 Arrivarci, al futuro. La ragione vera è politica. Angela Merkel ha detto sì alla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole solo "dopo" che sarà creata una vera vigilanza europea su tutti gli istituti di credito. Richiesta logica e ragionevole. Ma i mercati hanno capito subito che ciò equivale a rinviare tutto verso orizzonti lontani: della vigilanza europea si parla da tempo, le resistenze nazionali sono enormi, quella European Banking Authority che doveva esserne l'embrione è una patetica e impotente caricatura.
La Bce di Mario Draghi ha le sue reticenze e riserve sull'argomento, per non essere in conflitto d'interessi chiede una separazione rigida, una "muraglia cinese" fra i due mestieri di prestatore di ultima istanza e di guardiano dei suoi "clienti" (i banchieri). Insomma ci vorranno ancora mesi, se non anni, perché qualcosa di concreto appaia. Nel frattempo gli investitori stanno suonando le campane a morto per la Spagna, i rendimenti che esigono per sottoscrivere i suoi bond la spingono inesorabilmente verso il default. Ora si torna a parlare di un vertice "risolutivo", stavolta è l'Ecofin di questo lunedì: ma ormai l'eurozona ha speso le ultime riserve di credibilità, a furia di evocare la sua "ultima spiaggia" forse ci sta arrivando davvero.
Il disastro dell'eurozona ha già contagiato ampiamente il resto del mondo. Non lo dice solo la direttrice del Fmi Christine Lagarde che ammonisce sul rallentamento generalizzato dagli Stati Uniti ai Brics. Lo dicono soprattutto le reazioni dei mercati al "giovedì della Triplice", la giornata in cui Bce, banca centrale inglese e cinese sono intervenute simultaneamente con tagli dei tassi d'interesse e pompaggio di liquidità d'emergenza. Un flop micidiale, un buco nell'acqua, che non ha ricostituito la fiducia neanche per pochi minuti.
Uno spettacolo d'impotenza disarmante, che si riverbera adesso anche sulla più potente e rispettata delle banche centrali, la Federal Reserve americana. Saprà essere efficace lei, dove le altre hanno fallito? Le attese di un intervento salvifico della Fed si sono rafforzate ieri, dopo un altro dato deludente sul mercato del lavoro americano. Appena 80.000 posti di lavoro in più, il saldo netto del mese di giugno fra nuove assunzioni e licenziamenti: pochi, troppo pochi per un'America che è uscita dalla recessione con 15 milioni di disoccupati (reali). E infatti con una crescita così debole il tasso di disoccupazione resta inchiodato all'8,2%, un record storico per un periodo così prolungato dal dopoguerra.
La Fed ha il dovere istituzionale di agire contro la disoccupazione, questo ne ha sempre fatto una banca centrale più interventista e risoluta di altre. Ha anche interesse a non lasciare che s'indebolisca troppo l'euro, perché già ieri a quota 1,22 era avviato su un piano inclinato che non piace all'industria esportatrice americana. Ma la Fed è entrata da tempo nel suo "semestre bianco": il banchiere centrale Ben Bernanke deve meditare se gli convenga agire troppo energicamente quando manca così poco all'elezione presidenziale. Il 6 novembre potrebbe vincere il repubblicano Mitt Romney, che al momento del rinnovo dei vertici della Fed forse si vendicherebbe contro chi ha aiutato troppo Barack Obama.
 Più ancora dell'elezione, un'altra angoscia esistenziale attanaglia Bernanke: e se la Fed dovesse fallire, come hanno fallito le sue consorelle dall'Europa alla Cina? Il tasso d'interesse negli Usa è già a quota zero: da tre anni e mezzo. Le precedenti operazioni di massiccia iniezione di liquidità hanno fornito una "droga leggera" a Wall Street e alle banche Usa, ma non hanno sostanzialmente rinvigorito l'economia reale.
La politica monetaria ha dei limiti, conosciuti fin da quando li studiò John Maynard Keynes durante la Grande Depressione. Esiste una "trappola della liquidità", nella quale la moneta viene inghiottita e scompare: se manca fiducia tra i consumatori e le imprese, il denaro può anche costare zero ma nessuno lo prende e lo spende. Draghi lo ha ricordato usando un'altra immagine: "Non si può spingere con una corda". Un suo predecessore alla Banca d'Italia, Guido Carli, aveva coniato l'espressione "il cavallo non beve".
Negli Stati Uniti uno studioso della Depressione come Bernanke ha immaginato ogni possibile "offensiva anti-convenzionale" fino a ipotizzare una Fed che manda elicotteri a lanciare banconote su tutti gli Stati Uniti: resta da verificare che i consumatori beneficiati dalla manna celeste la vadano a spendere, non a tesaurizzare per accumulare un risparmio precauzionale (o per ripagare i propri debiti). Il Fondo monetario evoca un altro Armageddon entro la fine dell'anno: nella stasi tra Obama e la Camera a maggioranza repubblicana, scatterebbero degli aumenti automatici d'imposte riducendo ulteriormente il reddito disponibile e il potere d'acquisto delle famiglie. È quello il motore bloccato su cui il Fmi attira l'attenzione: l'economia reale, a cui nessuno sta rifornendo il carburante.


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