Con
l’inasprirsi della “crisi dell’euro” a sinistra si delineano due
posizioni contrapposte, spingere per avere “più Europa” oppure
abbandonare l’euro.
“Più Europa” equivale a sottrarre il controllo dei bilanci statali e
delle leggi finanziarie ai parlamenti nazionali, unica istanza
minimamente democratica in Europa. In questo contesto, “più Europa” vuol
dire dominio della “tecnica”, cioè della burocrazia europea (BCE e
Commissione Europea), apparentemente neutrale, in realtà subordinata al
capitale monopolistico europeo. Come ha detto Monti, la democrazia è una
forma di governo incapace di guardare al lungo periodo, vale a dire
alle necessità dell’accumulazione del capitale. La soluzione, quindi, è
aggirare il livello nazionale. L’Unione europea è stata il grimaldello
con cui forzare la resistenza dei movimenti operai nazionali. Ora, la
crisi dell’euro è l’arma per accelerare sulle trasformazioni tese al
mantenimento di alti livelli di profitto mediante l’attacco al salario e
al welfare.
L’euro in sé c’entra solo
secondariamente con la crisi in atto, che è una derivata della
sovraccumulazione di capitale e del calo del saggio di profitto, che
generano conflitti tra area del dollaro ed area dell’euro, nonché
squilibri interni all’area dell’euro, dove l’eccesso di capacità
produttiva tedesca schiaccia gli altri Paesi. Anche la questione
dell’aumento del divario dei rendimenti dei titoli tra i vari stati non è
nata con la Bce e l’euro. Già nell’81 in Italia venne abolito l’obbligo
per la Banca d’Italia di garantire il collocamento del debito pubblico,
allo scopo di bloccare la crescita dei salari attraverso la scala
mobile. Da quel momento, il debito italiano crebbe molto più che nel
resto d’Europa a causa della abnorme crescita degli interessi, invece
che della spesa della P.A., rimasta al di sotto o intorno ai livelli
medi Ue.
L’uscita dall’euro, invece, avverrebbe in un contesto in cui lo
Stato, sempre più espressione diretta del grande capitale monopolistico,
ha rinunciato al controllo della moneta, della finanza e del commercio
estero. In questo contesto, un ritorno alla lira realizzerebbe un
trasferimento di ricchezza in poche mani ben più imponente che nel
passaggio dalla lira all’euro. Il ritorno alla valuta nazionale
porterebbe alla riduzione del potere d’acquisto dei salari e alla
svalutazione del risparmio delle famiglie dei lavoratori, già
penalizzate dal calo dei salari reali e dalla disoccupazione. La
capitalizzazione di borsa delle aziende crollerebbe, rendendole oggetto
di scalate da parte di multinazionali a base estera, mentre la
percezione di un ritorno alla valuta nazionale scatenerebbe fughe di
capitali verso l’estero. Ugualmente da prendere con le molle sarebbe un
default. Il fallimento porterebbe alla impossibilità, per un tempo
indeterminato, di emettere titoli di stato negoziabili sui mercati
internazionali, facendo gravare ancor di più il finanziamento pubblico
all’interno e quindi sui lavoratori. Senza contare che il mancato
pagamento del debito verrebbe a gravare su molte di queste, in quanto
detentrici di titoli di stato.
Per trovare una soluzione ad una situazione che sembrerebbe senza
uscita, alcuni economisti propongono posizioni “neoprotezioniste”, allo
scopo di esercitare pressioni sulla Germania, minacciando l’uscita anche
dal mercato comune. In aggiunta, in caso di uscita dall’euro, vengono
prospettati meccanismi che controllino le fughe di capitale e difendano
il potere d’acquisto, dall’indicizzazione dei salari alla introduzione
di prezzi amministrati per certi prodotti “base”. Se, però, l’uscita
dall’euro pone dei problemi, anche l’uscita dalla Ue di Paesi fortemente
interdipendenti e integrati non sarebbe meno complicata. Quanto ai
meccanismi di indicizzazione, questi sarebbero stati necessari anche
negli ultimi dieci anni e, se non si è riusciti a reintrodurli fino ad
ora, non si capisce perché ci si dovrebbe riuscire oggi. Il limite di
queste come di altre proposte risiede, infatti, nella difficoltà a
definire chi e come dovrebbe metterle in pratica. La soluzione alla
crisi non un fatto tecnico, ma politico. Non può, quindi, prescindere
dalla modifica dei rapporti di forza fra le classi. Soprattutto in una
situazione in cui lo Stato è controllato dal grande capitale. La
soluzione non può che basarsi su una chiara politica di classe, tesa a
modificare il contesto economico e politico. La domanda da fare non è se
stare o non stare nell’euro, ma come la classe lavoratrice italiana ed
europea può incidere sui processi di trasformazione delle modalità di
accumulazione, e, quindi, su quelli di unità europea.
Il problema è che fino ad ora, specialmente in Italia, tale questione
è stata quasi del tutto ignorata. La quasi maggioranza dei gruppi
dirigenti politici e sindacali di sinistra hanno visto l’unione europea e
l’euro come fatti di per sé positivi. Tale atteggiamento, che ha
disarmato il movimento operaio e i partiti della sinistra, ha tratto
origine non solo dalla errata concezione che un mercato unito e
liberalizzato sarebbe stato vantaggioso per tutti, ma anche da una
tradizione di pensiero “universalistica”, molto diffusa tra i cattolici
come tra la sinistra anche comunista, che ha assecondato l’unità
europea, considerata progressiva, in chiave di superamento della
dimensione nazionale, considerata arretrata. Opposta all’impostazione
filo-europeista è la recente concezione “patriottico-sociale”, che
identifica l’attacco alla classe operaia come attacco allo Stato
nazionale, visto come la cornice entro la quale la classe operaia ha
ottenuto le sue passate vittorie e, quindi, come l’unico terreno sul
quale ci si possa difendere. Entrambe queste due posizioni fanno un
errore speculare, assolutizzando un solo aspetto, sicuramente reale, di
una realtà fatta però di tendenze contraddittorie. Il punto è capire
qual è quella principale e su quale i lavoratori devono fare leva.
Un conto, dunque, è assecondare il movimento del capitale, un altro
conto è partire dal movimento oggettivo della realtà, inserendosi in
esso per allargarne le contraddizioni, sviluppare lotte e costruire
organizzazione. Il movimento della realtà ha irrimediabilmente
trasformato il terreno su cui si svolge lo scontro di classe. Questo,
oggi, pur dovendo partire da radicamento e specificità locali, non può
avere successo se si svolge solo su un piano nazionale, bensì deve
svilupparsi su un terreno europeo. Il livello di interdipendenza tra i
sistemi sociali ed economici in Europa e il carattere continentale
dell’attacco ai lavoratori tende ad aumentare l’omogeneità della classe
lavoratrice a livello europeo, costituendo così la base materiale di un
nuovo internazionalismo.
Parlare di internazionalismo è, però, un puro esercizio retorico se
non si sciolgono alcuni nodi politici, a partire dal livello nazionale.
Il nodo principale è che oggi i rapporti tra le classi sono
contraddistinti da un fattore nuovo, ovvero dal rifiuto, da parte del
settore dominante del capitale, del patto sociale tra classi. Ne risulta
compromessa, quindi, la “democrazia pluralistica”, in cui i
rappresentanti delle varie classi erano disponibili al compromesso,
sotto l’egida dello Stato, nella camera di compensazione del Parlamento.
In questo quadro, bisogna avere proposte precise, dalla ripresa
dell’intervento statale in economia, alla nazionalizzazione delle
banche, alla riforma in senso progressivo del fisco, alla introduzione
di una legislazione europea antispeculativa, fino alla modifica del
ruolo della Bce piuttosto che della Banca d’Italia come garanti del
collocamento dei titoli pubblici. Ma ciò non basta, il punto principale è
come dare corpo politico a queste proposte. Per farlo non si può
continuare con i vecchi metodi politici, ma bisogna recuperare
l’autonomia di classe, a livello ideologico e politico, in cui sia il
conflitto a riprendere la sua centralità. Non, però, conflitti slegati e
su temi specifici, come quelli che spesso si producono nel nostro
Paese, bensì un conflitto generale, cioè finalizzato al potere politico.
Solo sulla base di una costante pratica autonoma, con un profilo
programmatico definito e un posizionamento politico forte, rispetto alle
altre classi e agli altri partiti, è possibile intraprendere il lungo e
difficile percorso della ricomposizione dei differenti settori e delle
varie nazionalità che compongono il lavoro salariato in Italia ed in
Europa.
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