Senza pace e lavoro. Una
riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente
l'Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini:
Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina
Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria
sviluppatasi a partire dal 2008 e della gestione dell’austerità con
cui, soprattutto in Europa, si è preteso di contrastarla (copiando
dagli Usa, che però quelle politiche le predicano ma non le
applicano) era, ed è, una ulteriore riduzione delle quote di Pil
destinate a lavoro, pensioni, sanità e istruzione e, soprattutto, la
privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, del
territorio e dell’ambiente. Il tutto a beneficio della finanza
internazionale, a cui era stato da tempo trasferito il diritto di
creare denaro attraverso il cosiddetto «divorzio» tra Governi
e Banche centrali.
In questo quadro si è sviluppata fino al parossismo una
cultura di governo ragionieristica, attenta fino allo spasimo
(politico) a centellinare le risorse dedicate al lavoro e al
benessere delle popolazioni per proteggere i grandi interessi
finanziari che hanno scatenato la crisi e che continuano
a beneficiarne.
Quella cultura e quelle politiche da ragionieri, gestite dalle
istituzioni dell’Unione Europea di cui i Governi degli Stati membri,
soprattutto nella zona euro, sono meri esecutori, hanno aperto una
voragine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sempre più
debole, delle condizioni di vita della maggioranza dell’elettorato.
Ma ha reso anche assai meno attrattivo l’obiettivo di unirsi alla
compagine europea per quelle nazioni che ne sono ai margini: vedere
come l’Unione Europea strapazza il popolo greco, ma anche quelli
italiano, spagnolo, portoghese, irlandese e ora anche francese (ma
sempre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.
Sfumata quella della Turchia, le richieste di nuove adesioni,
come quella del Governo ucraino, nascono più per non rimanere
schiacciati dai conflitti generati dall’espansionismo della Nato
(cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Europea mostra sempre più
la propria sudditanza) che dall’attesa di qualche beneficio. Ma
quella sudditanza è la conseguenza della cultura ragionieristica
con cui viene governata l’Unione, che la rende muta e impotente di
fronte all’esplodere di conflitti sempre più gravi ai suoi confini:
Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Molti di questi conflitti, compreso uno nella stessa Israele, sono
nati da rivolte popolari contro le politiche liberiste dei
rispettivi governi, e sono poi stati schiacciati o assorbiti dalle
guerre perché non hanno trovato in Europa una sponda adeguata. Ora,
mentre si moltiplicano i vertici sui decimi di punto di
sforamento del deficit da concedere ai governi di paesi ormai al
collasso per via di vincoli ben più sostanziosi imposti da debiti
e trattati insostenibili che non vengono messi in discussione (una
riedizione del dibattito sul sesso degli angeli che impegnava
i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando),
i territori che circondano l’Europa si infiammano.
Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire. Perché quei
paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento energetico
dell’Europa, e la potrebbero portare al collasso. Perché tutto il
continente verrà investito sempre più da flussi di profughi di
dimensioni bibliche: oggi si trova insostenibile l’arrivo di
qualche decina di migliaia di derelitti, che pagano la loro fuga con
un pesantissimo tributo di morte, senza rendersi conto che
i profughi prodotti dalle guerre che ormai circondano l’Europa sono
milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospitano i paesi limitrofi:
Turchia, Giordania, Iraq, come già Siria e Giordania ai tempi della
guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cercheranno un rifugio in
Europa; e che i paesi a cui si vorrebbe affidare il compito di
fermare quei flussi sono quelli che li alimenteranno sempre di più.
Perché una quota crescente della popolazione europea
è composta da nativi di paesi sconvolti da conflitti che non
tarderanno a ripercuotersi anche qui, intrecciandosi con
conflitti sociali sempre più aspri. Perché guerra chiama guerra
e senza strumenti per promuovere la pace (una politica estera di
ampio respiro e risorse consistenti, umane, economiche
e culturali) se ne finisce travolti.
La drammaticità del momento, che si somma al collasso degli
equilibri economici su cui avrebbe dovuto reggersi il progetto
europeo rende evidente che ci troviamo non alla vigilia, ma già nel
bel mezzo di una svolta epocale che ci impone di affrontare, dentro
la prassi quotidiana e dentro le lotte in difesa delle proprie
condizioni di vita, una profonda revisione dell’orizzonte entro cui
ci muoviamo: una revisione che riguarda innanzitutto i concetti di
democrazia e di lavoro.
Due entità congiunte, come peraltro prevede l’articolo 1 della
Costituzione italiana, ancorché discusso e varato in un contesto
del tutto differente. Occorre elaborare e poi contrapporre al
pensiero unico, che esalta la competitività, l’individualismo
proprietario, il consumo come motore dello sviluppo, il merito come
sanzione di una presunta superiorità di chi si è affermato (e il
servilismo, che ne è la diretta conseguenza) una cultura nuova,
che promuova la solidarietà, la condivisione, la sobrietà, la cura
del prossimo, della natura e del vivente: tutte cose che
costituiscono l’orizzonte di una rifondazione integrale della
democrazia.
Non è solo una battaglia culturale da affidare all’elaborazione
teorica di pochi e all’intelligenza collettiva dei più; deve
investire anche gli affetti e il vissuto quotidiano di tutti: là
dove il pensiero unico è riuscito spesso a far breccia e ad
annidarsi in ciascuno di noi senza che nemmeno ce ne avvedessimo.
E’ un lavoro di scavo che richiede un reciproco interrogarsi
e rimettersi in gioco, il cui esito non può che essere quella
conversione ecologica di cui parlava Alex Langer.
Un processo che investe contestualmente il nostro sentire, le
nostre convinzioni, i nostri atteggiamenti, i nostri
comportamenti soggettivi e le forme della partecipazione e del
conflitto sociale per trasformare la strutture del contesto in cui
operiamo, a partire da quello economico: che cosa produciamo, per
chi, con che cosa, come e dove. Perché o la democrazia riesce
a investire anche l’ambiente economico, l’impresa, la sua
organizzazione, il suo mercato, il suo rapporto con il
territorio e chi lo governa, o, se resta ai margini o al di fuori di
queste cose, non ha più modo di esistere.
È solo facendosi protagonista di una lotta politica
e culturale per queste forme di democrazia integrale che l’Europa,
cioè i suoi popoli, possono offrire al resto del mondo,
e innanzitutto a chi abita ai suoi confini, una prospettiva di pace
e di solidarietà che ne faccia un modello. E che prospetti una
strada per sottrarsi a quello stato di guerra permanente in cui si
traduce ormai da tempo la convinzione che dall’Europa così com’è, dai
suoi modelli di vita e dalla ferocia che esercita verso i suoi stessi
cittadini non c’è niente da attendere e niente da riprendere.
Ma democrazia e lavoro si intrecciano inestricabilmente. Non
il lavoro nelle forme coatte in cui esso si esercita oggi in tutto il
mondo; cioè emarginando e deprimendo salute, vita, desideri,
capacità e creatività di chi lo svolge – così come si devasta la
natura e il vivente per ricavarne solo la millesima parte, e la
peggiore, di quello che potrebbero dare – ma potenziando al massimo,
attraverso conflitti con cui recuperare gradualmente per tutti
una capacità di autogoverno: sia sul territorio che all’interno
delle imprese che sulle grandi questioni di indirizzo; in modo da
rendere la creatività di ciascuno il vero motore di uno «sviluppo»
radicalmente diverso.
In questa dimensione un reddito di cittadinanza universale
è oggi non solo un obiettivo unificante per le lotte dei precari
e dei disoccupati, giovani e anziani, come dei lavoratori non più
protetti dall’articolo 18, ma una condizione per poter imporre scelte
progressivamente sempre più libere su come e dove lavorare, e per
quanto tempo, e se sotto padrone o per proprio conto, e per fare che
cosa; cioè per trasformare il lavoro in un’attività più libera. Che
è ciò che approssima maggiormente, in un contesto in cui
partecipazione e conflitto si intrecciano senza soluzione di
continuità, la società che vogliamo e che abbiamo il compito di
proporre a tutti.
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