Se è possibile virare un post a grido di indignazione, oggi avrei proprio voglia di provare a farlo. L’indignazione per l’imbroglio continuato che da anni stravolge il significato reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
(disciplina del licenziamento illegittimo nelle unità produttive con
più di quindici dipendenti), trasformandolo in dogmatismo da guerra di
religione.
Come sempre, le normative in materia di relazioni
industriali attengono direttamente a poste in gioco concrete e non sono
mai neutrali. Stabiliscono vincitori e vinti. Nel caso in questione, su
chi si intende puntare per uscire dalla crisi di un sistema produttivo
ormai in deliquio; al tempo stesso, contro chi puntare il dito in quanto
colpevole della situazione disastrosa.
La focalizzazione inquisitoria sul famigerato “diciotto” ha un solo significato, “politico”:
colpevoli sono i lavoratori, cui sono stati concessi in passato (o
meglio, che hanno estorto) troppi diritti e troppi soldi. Portandoci
fuori mercato.
Difatti
sono ormai decenni che si è scatenata questa caccia alle presunte
stregonerie malefiche annidate nel mondo dei prestatori d’opera e delle
loro rappresentanze; tanto che nulla serve, per diradare i fumi dei roghi allestiti dai grandi inquisitori (i veri stregoni all’opera in materia), tentare di ricordare che il costo del lavoro italiano è più basso di quello francese e tedesco.
Non
serve a niente, perché qui non si parla di politiche industriali ma si
attuano veri e propri esorcismi. Ingannevoli come sempre, quanto
finalizzati a depistare la furia generale dai veri bersagli. Le
responsabilità effettive.
Ad esempio, oscurare il fatto che il
disastro di cui si parla risale agli anni Settanta, quando è stata
avviata una vera e propria serrata degli investimenti; i cui effetti
diretti sono il crollo della ricerca applicata. Tanto che il Made in Italy
non riesce più a immettere sui mercati prodotti con un minimo di appeal
(credo di averlo detto già altre volte: il nostro ultimo prodotto
innovativo è quello scarpone con il gancio metallico che risale agli
anni Settanta).
Ma ora il governo dichiara, baldanzoso e imperterrito, che provvederà
a decretare la cancellazione della normativa di garanzia del rapporto
di lavoro come una sorta di guerra di liberazione del lavoro da se
stesso; così dimostrando di essere totalmente immerso nel cerchio
stregato che distorce le questioni e produce visioni mistificatorie. In
effetti l’annuncio governativo ha un altro significato: dice chiaramente con chi sta.
Ossia, sta con i quei ceti manageriali/imprenditoriali che per tutti
questi decenni non hanno saputo indicare – in materia di strategie
competitive – altro che la ricetta da Terzo Mondo della mano libera per
pagare sempre meno e tenere a bada sempre di più con la minaccia del
licenziamento. Nonostante la montagne di chiacchiere da convegno e
seminario di organizzazione su “il lavoro competente e motivato quale
risorsa primaria dell’impresa” (quindi, detto in anglomanagerialese che
fa fino: commitment, empowerment e altri tricchetracche).
Sicché continuiamo nell’antico imbroglio. Con buona pace di quelli che si sgolano a spiegare che con queste leadership d’impresa,
cui si vorrebbe ulteriormente dare mano libera, non si va da nessuna
parte. Questi presunti “cavalieri della valle solitaria” rivelatisi alla
prova dei fatti nient’altro che la reincarnazione dei robber barons (i
baroni ladri del secolo scorso). In America i sedicenti grandi
innovatori che hanno scippato le scoperte della ricerca finanziata dallo
Stato (da Arpanet-Internet, creata dal sistema militare/universitario
USA e poi tradotta in business miliardario dalle Microsoft, al
touch-screen sviluppato dal centro di ricerca dell’Università del
Delaware ma commercializzato con extra profitti dalle Apple); in Italia i
presunti “capitani coraggiosi” che oligopolizzano la telefonia con le
bollette più alte d’Europa e fanno incetta di servizi pubblici in
svendita; dalla sanità alla mobilità.
Difatti il nostro premier
sta dalla loro parte. Difatti anche in questo campo il presunto
riformatore è garanzia di esiti controriformistici.
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