Il
centrosinistra, in teoria, nasceva per garantire — nel modello bipolare
che avrebbe dovuto contraddistinguere la cosiddetta seconda Repubblica —
agli eredi del PCI,
che si erano messi definitivamente alle spalle l’esperienza comunista e
ogni velleità rivoluzionaria, una più rassicurante configurazione di
coalizione moderata. In proposito, la vulgata mediatica ha spiegato per
anni, sostanzialmente in coro, che l’Italia era un Paese troppo
conservatore per essere governato da una coalizione di partiti di sinistra
come quella che si era presentata alle elezioni del 1994 ed era stata
battuta da un moderatissimo Silvio Berlusconi, che “scendeva in campo”
in alleanza con leghisti e post-fascisti.
Per vent’anni questo mantra è stato ripetuto in ogni discussione politica sulle prospettive di governo del Paese. La stessa nascita del PD
rispondeva a questa discutibile logica, con la costruzione di un
partito di centrosinistra, funzionale all’auspicato passaggio dal
bipolarismo al bipartitismo.
Solo che ormai sono quasi tre anni che il PD, il grande partito di centrosinistra, sconfitto nettamente alla sua prima prova elettorale, nel 2008 e poi paralizzato dalla vittoria monca del 2013, governa continuativamente col centrodestra.
E, nel momento in cui, Matteo Renzi conferma la sua strategia dei 1000 giorni,
chiedendo in sostanza quasi tre anni di sospensione del giudizio su ciò
che il suo esecutivo sarà stato effettivamente in grado di fare,
possiamo dichiarare definitivamente finita l’esperienza politica del
centrosinistra, visto che il governo delle (più o meno) larghe intese
con la destra non è più occasionale e transitorio ma volutamente
orientato alla stabilità.
Questo è il dato di fatto: Matteo Renzi — colui che rasserenava Enrico Letta sulla sua intenzione di dedicarsi solo al partito, subito dopo la vittoria nelle ultime primarie per la segreteria del PD e poi, però, prendeva il suo posto come capo del terzo governo di fila che mette assieme centrodestra e centrosinistra — ha deciso che il suo slogan “mai più larghe intese” può rimanere congelato almeno fino a maggio 2017: da qui ad allora si governa col centrodestra e siccome il PD alle Europee è andato molto bene e i sondaggi (stabili sopra al 40%) sono in linea con quello straordinario risultato, si va avanti sulla strada tracciata, “piaccia o non piaccia“.
Qui c’è una doverosa annotazione da
porre a margine di questo nostro ragionamento. La nota è rivolta al
partito astensionista che, proprio alle recenti Europee, ha fatto il suo
record storico, andando oltre il 40%, come il PD, ma con quasi il
doppio dei (non) voti del PD (se su 100 elettori, 40 non votano, i 25
elettori del PD, rispetto ai 60 votanti arrivano a pesare molto di più:
sono 25, ma valgono il 41%): se vi piace l’azione politica dei governi
unitari che si spartiscono il potere da novembre 2011 (o che, come ha sostenuto recentemente Bertinotti,
amministrano la cosa pubblica per conto di un potere economico privato
a-democratico), il non-voto è una scelta ragionevole; ma se le politiche
dei governi di austerità non vi piacciono e siete consapevoli del fatto
che queste politiche contribuiscono a peggiorare le vostre condizioni
di vita, forse, dovreste riconsiderare la scelta di non sostenere chi,
da anni, cerca in tutti i modi di opporsi ai dogmi del liberismo e
dell’austerità.
Ma, soprattutto, al netto di una
propaganda efficace e diffusa come mai prima d’ora, è il segno
dell’azione politica di questo governo ciò che conferma e avvalora la
nostra ipotesi, essendo in presenza di iniziative programmatiche che si
muovono tutte nel solco di quelle linee guida e di quei valori di
riferimento che in Italia sono dominanti da almeno un ventennio (ed
erano comunque già presenti anche negli anni Ottanta del secolo scorso).
La linea politica del governo Renzi è tutta orientata alla riduzione della spesa pubblica: Stato più leggero e meno tasse; il programma di tutte le destre liberiste del pianeta!
I famosi e pompatissimi 80 euro
cosa sono in realtà? Un bonus fiscale sulla cui stabilità e sulle cui
coperture ci sono stati (e tuttora sussistono) talmente tanti dubbi che non a caso la manovra non ha prodotto subito gli effetti sperati sul versante della domanda interna.
Al di là del fatto che una piccola quota di reddito in eccesso,
spalmata su milioni di salari, è più probabile che si traduca in
risparmio che non in consumo (molto più efficace sarebbe stata
l’elargizione di nuovi redditi a chi non ne percepisce: assunzioni di
una quota di disoccupati e/o universalizzazione del sussidio per la
disoccupazione involontaria), il limite oggettivo della più nota misura
renziana è proprio questo: non vi è alcuna certezza che si sia trattato di un intervento di natura equitativa e redistributiva.
Una politica fiscale di sinistra infatti efficienta e razionalizza le
risorse in maniera tale da garantire a parità di spesa maggiori e
migliori servizi: se si vuole agevolare i ceti meno abbienti, poi, si
rimodulano i carichi fiscali in modo tale da far sì che le minori
entrate relative allo sconto fiscale fatto alle fasce di minor reddito
siano compensate da recuperi dell’imponibile evaso, incrementi del
prelievo fiscale sulle fasce di reddito elevate (eventualmente anche con
la creazione in senso progressivo di nuovi scaglioni Irpef per i
redditi superiori ai 75mila euro) e tassazione delle rendite e dei
patrimoni dei soggetti che hanno accumulato maggiori ricchezze nel corso
delle generazioni (ricordiamo sempre che il 10% delle famiglie italiane più ricche possiede quasi la metà dell’intera ricchezza nazionale).
Ma ancora più impressionante è il segnale dato con la riforma Poletti in materia di lavoro: la sostanziale liberalizzazione dei contratti a termine, in manifesta violazione della direttiva comunitaria che vieta l’abuso del tempo determinato, come anticipo di un Jobs Act che, negli annunci del governo, servirebbe a combattere la precarietà, ma che da quel poco che se ne sa rischia di essere l’ennesimo
tassello del processo di smantellamento del complesso di norme che
erano state fissate per la protezione dei lavoratori.
E solo un’informazione smaccatamente
filo-governativa può conseguentemente lasciar passare, senza un minimo
di spirito critico, gli slogan sulla lotta alla precarietà che comincia
dalla pretesa stabilizzazione di alcune migliaia di supplenti. Messaggio
due volte ipocrita perché, da un lato, come abbiamo visto, è
contraddetto dall’impianto base della riforma Poletti (persino l’Ocse ha recentemente rimarcato questo dato) e, dall’altro, dalla stessa filosofia di fondo della riforma della scuola, che l’ex ministro Gelmini rivendica
apertamente come continuazione di quanto avviato dai governi di
centrodestra, mentre le poche voci critiche, demoliscono senza riserve
l’impianto di questa riforma scolastica che, in sostanza, blocca gli scatti di anzianità e subordina gli adeguamenti salariali a discutibilissimi processi di valutazione meritocratica. Solo che, come afferma Valeria Pinto, in proposito:
«La meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo l’ordine sociale esistente. Non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle».
Questa breve panoramica sull’azione di
governo, in relazione a tre temi centralissimi per una qualunque
politica sociale (fisco, lavoro e scuola), mostra chiaramente come la
formazione stabile di governi di larghe intese non serve solo a dare
continuità all’egemonia culturale di lungo periodo della destra
economica, ma punta anche a costituzionalizzare questo dominio: persino
persone prudenti come Carlassarre, Rodotà, Urbinati, Zagrebelsky (e
diversi altri) hanno parlato espressamente di “svolta autoritaria”
di fronte a un progetto di riforma «che dà al Presidente del Consiglio
poteri padronali» ed è chiaro che, una volta che è passato il messaggio
propagandistico della necessità di una significativa revisione
costituzionale, sarà molto più semplice per i leader padronali (e senza
adeguati contrappesi istituzionali, con buona pace del povero Montesquieu) a cui stiamo spianando la strada, mettere in discussione anche l’impianto di principio e modificare diritti e doveri dei cittadini della Repubblica, in maniera tale da adeguarli ai desiderata dei poteri privati che dettano legge nel nostro tempo:
«I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo.
I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».
Tutto ciò risponde perfettamente a quel disegno che Luciano Gallino ha molto efficacemente sintetizzato nella formula “La lotta di classe dopo la lotta di classe“, titolo di un suo preziosissimo testo, del quale si raccomanda vivamente la lettura:
«Tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta, la classe operaia, e più in generale la classe dei lavoratori dipendenti a partire da chi lavora in fabbrica, ha ottenuto, in parte con le sue lotte, in parte per motivi geopolitici, miglioramenti importanti della propria condizione sociale. Anche senza volerli chiamare, alla francese, i gloriosi Trentanni, si è trattato di un periodo in cui decine di milioni di persone hanno avuto per la prima volta un’occupazione stabile e relativamente ben retribuita. Basti pensare, per quanto riguarda il nostro paese, che ancora nel 1951, anno del primo censimento dopo la guerra, esistevano in Italia centinaia di migliaia di braccianti pagati a giornata, su chiamata mattutina di un caporale, che lavoravano mediamente 140 giorni all’anno.
Per questi strati sociali, un impiego stabile nell’industria ha rappresentato un notevole avanzamento sociale. Sono aumentati i salari reali; sono stati introdotti o ampliati in molti paesi, Italia compresa, i sistemi pubblici di protezione sociale, dalle pensioni fondate sul metodo a ripartizione (in base al quale il lavoratore in attività contribuisce a pagare la pensione di quelli che sono andati a riposo, metodo che le mette al riparo dai corsi di Borsa e dall’inflazione) al sistema sanitario nazionale; si sono ridotti gli orari di lavoro di circa 2-300 ore l’anno (che vuoi dire quasi due mesi di lavoro in meno); si sono allungate di settimane le ferie retribuite. Infine si sono estesi in diversi paesi, a partire dal nostro, i diritti dei lavoratori ad essere trattati come persone e non come merci che si usano quando servono o si buttano via in caso contrario.
(…) Verso il 1980 ha avuto inizio in molti paesi — Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania — quella che alcuni hanno poi definito una contro-rivoluzione e altri, facendo riferimento ad un’opera del 2004 dello studioso francese Serge Halimi, un grande balzo all’indietro. Le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Simile recupero si è concretato in molteplici iniziative specifiche e convergenti. Si è puntato anzitutto a contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul PIL che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta.
In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente.
La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori — termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti — sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. È ciò che intendo per lotta di classe dopo la lotta di classe.
Dovrebbero essere chiare, a questo
punto, le principali direttrici lungo le quali indirizzare tutte le
azioni politiche di opposizione a questo progetto egemonico: difesa e
attuazione dei principi costituzionali; rilancio e attualizzazione delle
questioni del lavoro come questioni di classe, nella lotta di classe
tuttora in atto, con la classe dominante all’offensiva e i lavoratori
divisi, confusi e letteralmente allo sbaraglio.
Non è questa, purtroppo, la prospettiva
politica del più consistente movimento di opposizione al governo,
presente in parlamento. Mentre in Spagna, le proteste degli Indignados stanno trovando risposta nell’azione politica di Podemos, da noi, il
Movimento 5 stelle subordina le istanze di sinistra, che pure sono
presenti nel suo programma, alle direttive padronali imposte dal
proprietario del marchio Beppe Grillo e dal curatore del marketing del
blog, Gianroberto Casaleggio. E se la prospettiva del “né di destra, né di sinistra” ha permesso di intercettare alle politiche del 2013
il malcontento di entrambi gli schieramenti, portando il movimento al
25% dei consensi con oltre 8 milioni e mezzo di elettori, alle recenti
Europee le contraddizioni irrisolte si sono tradotte in una perdita di
quasi 3 milioni di voti (meno evidente in termini di consenso espresso
in percentuale, grazie all’altissima astensione e al fenomeno già
analizzato in relazione al 41% del PD).
Ma c’è di più: mentre Podemos, dopo una campagna elettorale movimentista, ha scelto di collocarsi nel gruppo della sinistra europea,
i proprietari del M5S, a giochi fatti, hanno scelto di avere come
proprio interlocutore privilegiato il nazionalismo xenofobo dell’Ukip di Nigel Farage, collocandosi a destra, dopo aver messo in scena una votazione on line, senza reali alternative
(o Ukip o l’irrilevanza). Il tutto per poter continuare a raccogliere
voti, sfruttando l’onda lunga del risentimento xenofobo, su cui si è
costruita, per due decenni, una parte rilevante del consenso della
destra berlusconiana (la recente campagna di disinformazione sanitaria anti-immigrati
ne costituisce l’ennesima riprova), senza rendersi conto di come queste
contraddizioni minino alla base ogni possibilità di costruire una
prospettiva politica di governo del Paese, oltre a portare
all’intransigenza e all’isolamento.
In uno scenario del genere, l’Altra Sinistra, quella che la scorsa primavera, nel giro di poche settimane, è riuscita a raccogliere le firme
e a presentare delle liste di candidati più che dignitose, per far sì
che anche l’Italia potesse sostenere la candidatura alla presidenza
della commissione europea di Alexis Tsipras per la Sinistra Europea, dovrebbe avere vita facile e riguadagnare rapidamente consensi.
E invece, purtroppo, sembrano
nuovamente prevalenti le divisioni, le questioni personali e
l’incapacità di essere davvero comunità solidale che sono le principali
cause dei ripetuti tracolli elettorali della sinistra italiana.
Le elezioni europee hanno riportato
nelle istituzioni una minuscola rappresentanza di sinistra in condizioni
oggettivamente difficili: la creazione e il successo della lista L’Altra Europa con Tsipras
è stato un piccolo miracolo se si considera l’oscuramento mediatico,
gli errori di comunicazione e le campagne stampa denigratorie, tutto
vero, certo! Ma è vero anche che, con poco più di un milione di
elettori, la soglia di sbarramento l’abbiamo superata per lo stesso
fenomeno che ha portato il PD al 41%: grazie all’altissima astensione.
Al netto dell’astensionismo, però,
restano i rapporti di forza attuali: 10 a 1 per il PD; (un po’ più di) 5
a 1 nei confronti dei 5 stelle. Può mai essere solo colpa degli
elettori se il grosso del corpo elettorale italiano non si riconosce
nell’Altra Sinistra? Possiamo mai pensare che su 50 elettori, ce n’è
solo uno “di sinistra”, in questo Paese?
Dalle risposte a queste domande dipende
il futuro dell’Altra Sinistra, se ci sarà. Perché qui non si tratta di
rifare il vecchio partito comunista, o di rifondarlo o di mettere
semplicemente da parte linguaggio e simbologia del Novecento: qui si
tratta di costruire e consolidare quell’esperienza di coalizione sociale
che in altri Paesi europei è già presente; si tratta di essere
comunisti (ortodossi, eterodossi e quant’altro), post-comunisti,
ambientalisti, socialisti (nel vero senso della parola), alter-mondisti e
movimentisti (a qualunque titolo), facendo fronte comune contro il
partito unico dell’austerità e del libero mercato.
Non si tratta solo di fare un passo indietro per farne tutti assieme molti in avanti,
come ci ha saggiamente consigliato Tsipras, in occasione della scorsa
campagna elettorale; si tratta invece di provare anche a rileggere e
rendere attuale nella pratica il meglio della nostra storia, perché,
come scriveva Gramsci, nel secolo scorso:
«Il compagno Lenin ci ha insegnato che per vincere il nostro nemico di classe, che è potente, che ha molti mezzi e riserve a sua disposizione, noi dobbiamo sfruttare ogni incrinatura nel suo fronte e dobbiamo utilizzare ogni alleato possibile, sia pure incerto, oscillante e provvisorio. Ci ha insegnato che nella guerra degli eserciti, non può raggiungersi il fine strategico, che è la distruzione del nemico e l’occupazione del suo territorio, senza aver prima raggiunto una serie di obiettivi tattici tendenti a disgregare il nemico prima di affrontarlo in campo.
Tutto il periodo prerivoluzionario si presenta come un’attività prevalentemente tattica, rivolta ad acquistare nuovi alleati al proletariato, a disgregare l’apparato organizzativo di offesa e di difesa del nemico, a rilevare e ad esaurire le sue riserve. Non tener conto di questo insegnamento di Lenin, o tenerne conto solo teoricamente, ma senza metterlo in pratica, senza farlo diventare azione quotidiana, significa essere massimalisti, cioè pronunziare grandi frasi rivoluzionarie, ma essere incapaci a muovere un passo nella via della rivoluzione».
Siamo pertanto all’altezza delle sfide
che ci attendono? Siamo in grado di mettere da parte le questioni
personali e di farci comunità, smettendo di ragionare come un insieme
eterogeneo di gruppi a sé stanti? Che senso hanno le polemiche sulle alleanze per le elezioni regionali,
se prima non si dà continuità all’esperienza delle Europee, costruendo
strutturalmente l’Altra Sinistra come luogo di discussione e comunità
politica democratica, aperta, inclusiva e in divenire?
La Rete è uno strumento utilissimo che
dobbiamo imparare a usare meglio: si dia maggiore spazio alla
discussione politico-programmatica (che attraverso il web — sui nostri
siti e nei social network e non più nel recinto chiuso di una mailing
list più o meno estesa — deve poter arrivare trasparentemente a tutti i
coordinamenti locali e a tutti gli interessati); si selezionino le
battaglie politiche da fare a tutti i livelli (internazionale, europeo,
nazionale, regionale, comunale); una volta individuati e definiti i
punti di programma, ci si confronti con eventuali alleati e si valuti,
con metodo democratico, se muoversi da soli o allearsi, di volta in
volta, con chi condivide le nostri istanze politiche e vuole
effettivamente aiutarci a realizzarle.
Si faccia politica nell’interesse dei
lavoratori, insomma. Si analizzino a fondo le questioni del lavoro e le
tecniche di propaganda con cui la classe dominante fa sì che ormai siano
gli stessi lavoratori a difendere gli interessi del capitale,
accodandosi alla vulgata che descrive come “ingiusti privilegi” i
diritti delle categorie di lavoratori più sindacalizzate (si vedano le
recenti polemiche sulla conferma del blocco dei contratti nella P.A.).
Non ci si stanchi mai di provare a far comprendere ai lavoratori che le
battaglie politiche per l’eguaglianza vanno condotte, cercando di
estendere e generalizzare i diritti e le norme di protezione sociale:
l’adeguamento salariale ottenuto da una categoria deve essere visto come
il primo passo di una serie di adeguamenti salariali generalizzati; il
mancato rinnovo, al contrario, è ciò che blocca le rivendicazioni di
tutte le categorie.
Soprattutto si torni a fare una politica di sinistra che — oltre a mettere in discussione il dogma dell’austerità e il dominio della Troika, come ha fatto molto bene Tsipras, ieri, a Cernobbio
— sia in grado di accettare anche la sfida del governo, mettendo
all’ordine del giorno le nostre soluzioni alle questioni del lavoro e il
nostro diverso progetto di società.
Lo si faccia senza la pressione e
l’urgenza di avere un immediato riscontro elettorale. E, verosimilmente,
i lavoratori (che sono sempre la maggioranza degli elettori), col
tempo, e col progressivo recupero di una coscienza di classe,
ritorneranno a considerarci degni di rappresentare politicamente i loro
interessi di classe.
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