Le vere cause del debito pubblico italiano
Pubblicato da keynesblog
Dal 1981 la Banca d’Italia, per
decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, ha smesso di
monetizzare il debito pubblico che è schizzato alle stelle. Una storia che si è
ripetuta, amplificata, con l’Euro e la BCE.
di Domenico Moro da Pubblico
In questi giorni la stampa tedesca ha attaccato con
forza Draghi. Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Holger Steltzner, lo ha
accusato di voler trasferire alla Bce i metodi della Banca d’Italia.
Questa sarebbe al servizio dello Stato, di cui alimenterebbe le casse. Se ora
la Bce finanziasse i debiti statali acquistandone i titoli, scatenerebbe l’inflazione
e aggraverebbe la crisi dell’eurozona.
Come ha fatto notare anche il Sole 24ore, le critiche di
Steltzner alla Banca d’Italia sono infondate. A partire dal
1981 la Banca d’Italia ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta
nell’acquisto di titoli di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella
lontana decisione contribuì a produrre non solo l’enorme debito pubblico ma
anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico italiano si formò tra
gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al
124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri
Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che
rimase sempre al di sotto della media della Ue e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005,
sempre al di sotto di quella tedesca.
Nel 1984 l’Italia
spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil,
che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue
(esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%.
Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per
interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più
alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8%
del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa.
Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella
dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu
addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona
euro e il 4,3% della Ue. La crescita dei debiti pubblici dipende da molte
cause, soprattutto dalla necessità di sostenere le crisi e la caduta dei
profitti privati che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più
avanzati. Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere
ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in
Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero
quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli
stessi, l’eliminazione di una componente importante della domanda, quale è la
Banca centrale, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e,
quindi, di far esplodere il debito totale.
Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della
Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli
investitori internazionali. Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi
speculativi alla lira costrinsero l’Italia ad uscire dal Sistema monetario
europeo e a svalutare. Insomma, non solo Steltzner ha torto riguardo alla Banca
d’Italia, ma è il principio stesso dell’“autonomia” della Banca centrale,
da lui tanto tenacemente difeso, ad aver dato per trent’anni in Italia gli stessi risultati negativi che
ora sta producendo nell’eurozona.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto quale fu la
ragione del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Ce lo spiega il suo autore,
l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. Uno degli
obiettivi era quello di abbattere i salari, imponendo una
deflazione che desse la possibilità di annullare “il demenziale rafforzamento della scala
mobile, prodotto dall’accordo tra Confindustria e sindacati”.
Infatti, nel 1984 con gli accordi di San Valentino la scala mobile fu
indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata. Anche oggi, come allora, le presunte
“necessità” di bilancio pubblico sono la leva attraverso cui ridurre il salario,
in Italia e in Europa. Con la differenza che oggi l’attacco si estende al
salario indiretto, cioè al welfare.
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