venerdì 26 settembre 2014

Re Giorgio, l’ideologia e l’articolo 18

di Angelo Cannatà
Ideologia è ogni rappresentazione che ricopra, con giustificazioni illusorie, la realtà vera dei fatti (K. Marx).
Non è più di moda citare il filosofo di Treviri, ma andare controcorrente ogni tanto può essere utile.

E’ diventato un mantra insopportabile (da destra, Confindustria e maggioranza Pd): “Basta con i conflitti ideologici”. Naturalmente lo slogan nasconde un inganno: non si vogliono abolire davvero le ideologie, “le rappresentazioni illusorie”, ma lasciarne in vita una sola – il liberismo selvaggio – con facoltà assoluta (di pochi) di decidere, de-localizzare, licenziare, uccidere: non solo a Rovigo per esalazioni di acido solforico.

La classe operaia è sotto scacco, la globalizzazione e il sequestro dei poteri nazionali da parte dell’Europa, la stritola. Gli operai non hanno più diritti: non rientrano nella volontà politica di Bruxelles e negli interessi dell’alta finanza, delle grandi imprese, delle banche. Fine delle ideologie? Il contrario, vittoria assoluta del neo-liberismo e della dittatura dei mercati. L’intellighenzia si accoda, con argomenti non proprio irresistibili. Michele Ainis sull’articolo 18: “Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro” (Corriere). Che ragionamento è questo? Siccome non tutti hanno un lavoro si procede togliendo diritti a quelli che ce l’hanno. Assurdo. La lucidità di Ainis perde colpi, dopo la giusta tesi dell’anagrafe che divide.

La verità è che gli operai da tempo subiscono. Bastonati sempre. Ovunque. Non gli si dà tregua. Democrazia, stato sociale, principio d’eguaglianza: non esiste più nulla. Sono schiacciati, derisi, umiliati, nel diritto al lavoro e nel diritto alla vita: l’Ilva di Taranto è un paradigma. La fabbrica perfetta: libertà di licenziare (lo esige il mercato); e di uccidere, lo vuole l’etica (?) del profitto che non prevede impianti ecocompatibili. Costano troppo. Tempi difficili.

E tuttavia: viene nella vita di un uomo il momento di decidere da che parte stare. Intellettuali progressisti, artisti, politici di sinistra, sindacalisti, società civile, tutti sono chiamati a schierarsi. Cosa vogliono fare – il governo, Bruxelles, la troika – delle nostre vite (e delle nostre Comunità)? Siamo ancora una democrazia? Basta il diritto di voto per esserlo? E’ una foglia di fico – questa democrazia – se non si possono scegliere gli eletti, se il Parlamento non conta nulla, se decide tutto la Ue, se la cessione di sovranità ci ha spogliati di diritti fondamentali, se manca il lavoro e quando c’è viene calpestata la dignità dell’uomo: l’operaio è ridotto a schiavo. Libertà di licenziare senza giusta causa, addio Statuto dei lavoratori. L’articolo 18 è ideologia, dice l’ideologia vincente. A questo siamo.

Giorgio Napolitano – “figura istituzionale, dalla consolidata militanza progressista”, scrive Tito (Repubblica) – ha preso posizione schierandosi, come sempre, contro l’ideologia e la conservazione: il nostro Presidente, si sa, è stato per i democratici carri armati russi contro Budapest nel ’56; per la liberale Unione Sovietica contro Solzenicyn nel ‘64; per la libertà d’opinione, contro i dissidenti del “manifesto” nel ‘69; per l’incorruttibile Bettino Craxi, contro la “questione morale” denunciata da Berlinguer. Adesso – naturalmente – sta con la neutrale Confindustria, contro la Cgil e i diritti dei lavoratori. Libero di scegliere, il Presidente, per carità, ma per favore non si vendano queste posizioni come progressiste e di sinistra. Questo non è sopportabile.

Gli operai muoiono da Taranto a Rovigo nei luoghi di lavoro; chi sopravvive viene deprivato dei diritti più elementari; vige la legge del più forte e la vita di un uomo, il destino di una famiglia, non contano più nulla. Questa è la realtà – nuda e cruda – al di fuori, davvero, dal velo ideologico (Marx direbbe: dal “vestito di idee”) col quale la si copre. Fine delle ideologie? Magari. In realtà domina l’ideologia del Dio denaro: mercato, profitto, soldi. Per pochi, naturalmente. Gli altri si arrangino come possono. Abbiano il coraggio almeno – Napolitano, Renzi, Squinzi… – di non chiamare tutto questo: “progresso”. E’ offensivo. Ingiusto. Immorale.
Di Berlusconi è inutile dire. Sta accadendo esattamente quello che voleva. L’articolo 18 – già azzoppato due anni fa – viene definitivamente tolto di mezzo per mano di Renzi. Poteva andare meglio di così al Caimano? Se esiste ancora in Italia una società civile capace d’indignarsi è il momento di dimostrarlo. Lo sciopero generale oggi non è solo un diritto, è ciò che ogni cittadino libero dovrebbe avvertire – con tutta la sua anima – come un dovere.

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