Contrordine, imprenditori! È l'ora del re-shoring.
Come sempre la parola d'ordine viene dall'America, anzi dagli Stati
Uniti e fa data ormai da quando Obama è stato eletto la prima volta,
quasi sei anni fa. Ma si sa, qui in Europa, e soprattutto in Italia,
siamo un po' più lenti. Anche nel copiare un orientamento di politica
industriale ci vuole qualche anno.
Cos'è il re-shoring? Si torna a casa, si riporta la produzione
“in patria”, si lascia perdere con le delocalizzazioni nei paesi a
basso costo del lavoro. “La competizione si è spostata”, spiega il
giovane vice-presidente di Federmeccanica Alberto Dal Poz, fondatore
della Comet quando era ancora sulle scalinate dell'università di Torino;
si torna indietro.
La globalizzazione è finita, diremmo noi. Gli imprenditori della
“ferramenta” industriale preferiscono parlare di “orgoglio
metalmeccanico” e chiedono al governo – in Italia come stanno facendo
altrove – di tornare ad occuparsi di politica industriale; ovvero di decidere quali siano “le priorità del paese” e agire di conseguenza, "proteggendo" o favorendo i comparti relativi.
Per molti versi sembra di ascoltare una lezione di keynesismo.
Dimenticati in un attimo tutti i mantra ripetitivi sulla “invisibile e
benefica mano del mercato”, sulla libertà assoluta dell'impresa di
andare dove la porta il portafoglio e “la massima crazione di valore per
gli azionisti”. O, perlomeno, tutta questa libertà non va più bene se
si traduce in perdita delle “eccellenze”, delle “risorse uomo”, delle
competenze e del know how. Ovvero se, "competendo", si perde...
Gli esempi sono clamorosi, tutti pilastri del “dirigismo statale”,
sia che si parli di Stati Uniti – da Obama che decide di far vivere la
Chrysler scegliendo la Fiat come “padrone virtuale”, ovvero come impresa
privata incaricata di realizzare gli obiettivi fissati dallla Casa
Bianca; fino ai francesi che stanno per riprendersi la produzione di
auto elettriche in funzione a Parigi; o alla Gran Bretagna (liberista
solo quando si tratta di comprare imprese altrui) e alla Spagna, che
hanno deciso – per esempio – di mantenere alta la
produzione-assemblaggio di auto nel proprio paese e hanno crato anche un
“ambiente favorevole” al raggiungimento dell'obiettivo. Lì si producono
ancorapiù auto di quante se ne vendano sul mercato interno.
Il contrario di quanto è avvenuto in Italia fin dagli anni '90 – tra
gli inni elevati da coristi un po' sgraziati ma ben pagati – dove
qualsiasi idea di politica industriale è stata sbeffeggiata come
“residuo novecentesco”, ostacolo al libero dispiegamento degli animal spirits
e belinate simili. Basti pensare alle sorti di imprese strategiche come
Telecom e Alitalia, lasciate deperire e morire rimettendoci persino
decine di miliardi (pubblici, naturalmente). O alle sorti future –
periclitanti – di altri colossi altrettanto strategici come
Finmeccanica, Eni, Enel, Alenia. Per non parlare della Fiat, cui è stato
permesso di tutto fin quando non ha deciso di andarsene “diventando
americana”, al guinzaglio niente affatto lento di un governo che sa cosa
vuole e come ottenerlo, anche dai mitici “privati”.
Contrordine, dunque. Non è solo un fatto di “orgoglio” - non facciamo ridere, please –
ma di struttura dei costi, infrastrutture, mercati di sbocco, politiche
fiscali, know how. Roba che qui in parte c'è e altove no, nonostante il
costo del lavoro minore. Soprattutto, dopo oltre ventii anni di
crescita a doppia cifra, le “economie emergenti” sono infine emerse,
presentando anche il conto: salari in crescita inarrestabile (ancora
inferiori ai nostri, certo, ma le spese di trasporto finiscono per
annullare il residuo vantaggio), brevetti proprietari in crescita
esplosiva, competizione diretta sugli stessi comparti dei
“delocalizzatori” occidentali, legislazioni del lavoro e fiscali meno
favorevoli di prima (per le imprese).
Il problema è che qui la situazione è per altri versi tragica. La
domanda interna è scomparsa o quasi (ma cosa vi aspettavate, dopo venti
anni di deindustrializzazione e chiusure?), le competenze sono diventate
scarse proprio dove più sono necessarie (cosa pensavate di ottenere,
chiudendo i rubinetti della spesa per “ricerca e sviluppo”?), il sistema
bancario è ostile alle imprese “fisiche”, oberato da “sofferenze” che
fanno percepire gli industriali dei clienti indebitati da evitare.
È addirittura paradossale. Certo, saranno contentissimi se il governo
regalerà loro il Jobs Act, l'abolizione dell'art. 18 e la mano libera
in azienda... Figuriamoci. Ma le grandi industrie metalmeccaniche – ed
anche quelle piccole – non vedono tanto di buon occhio la precarietà
contrattuale; non sanno bene che farsene perché la loro attività non è
"per natura" un banale usa-e-getta. Addirittura Dal Poz si lascia
scappare un “quando c'è troppa precarietà in azienda, è l'azienda che è
diventata precaria”; ovvero che fa fatica a stare sul mercato.
Qui la parola d'ordine che supporta il “tornare a casa” è “progettare
la prossima ripresa”. Un'eresia, fino a ieri mattina; un richiesta di
“Stato” con tutte le maiuscole che potete metterci. Uno Stato che sappia
scegliere – appunto - “le priorità” e quindi fornire un supporto
ambientale (“un pacchetto completo”) alle imprese manifatturiere.
C'è da dire che i dati presentati nella 131° “indagine congiunturale”
di Federmeccanica non lasciano più spazio al liberismo ideologico. Non
tanto per quel -1,6% nel secondo trimestre del 2014 o per quel –1,9
rispetto allo stesso periodo del 2013. Siamo in stagnazione – a voler
essere ottimisti - da oltre tre anni, nessuno si aspetta un
rovesciamento di tendenza in tempi brevi. Ma quel -31% rispetto al 2007,
data di inizio ufficiale della crisi attuale, dice che siamo ormai in
un altro mondo, descrive un sistema industriale che non potrà tornare
mai quello di prima senza robusti investimenti (pubblici, ça và sans dire)
sufficienti a generare “fiducia” in chi deve poi decidere, da privato
imprenditore, dove buttare caso mai la propria scommessa.
Non è la richiesta di un settore economico marginale. La
metalmeccanica italiana vale l'8% del Pil complessivo, il 40%
dell'industria in senso stretto ed anche delle esportazioni italiane. È
solo grazie ai “meccanici” che il saldo delle partite correnti – il
rapporto tra valore delle esportazioni e quello delle importazioni – è
ancora positivo per ben 30 miliardi. Senza “ferramenta” sarebbe negativo
per la stessa cifra.
Si chiede dunque un cambio di indirizzo totale, di cui la classe
politica – e persino gli analisti di Confindustria – fatica ancora a
capire le dimensioni, predisponendo le giuste a contorno. Certo, qui si
plaude alla scuola “interfacciata col mondo del lavoro”, alla formazione
fatta dalle aziende ma pagata da qualcun altro, ecc.
Ma sono altri i dati che gettano - per noi - uno squarcio sul
prossimo futuro. Crollano le esportazioni verso la Russia e il Medio
Oriente, oltre che verso l'India (non sappiamo mai se sparargli o
corromperli, quando si avvicinano...), in virtù delle nuvole di guerra
che si addensano su quelle rotte, oltre al peso di sanzioni e
controsanzioni. Ma non è neppure qui il cuore della questione.
Le “notizie positive” in termini di produzione e fatturato vengono
infatti da settori inquietanti. Come quel +5,6% derivante dalla
“produzione di altri mezzi di trasporto”. Dizione neutra, indicante
quasi un “residuo” rispetto a comparti ben più definiti; ma che
comprende il traino eccezionale che sta avendo in questo momento
“l'aeronautica e l'aerospaziale”. Mezzi di trasporto, certo, ma davvero
particolari...
La globalizzazione è finita, si deve tornare a produrre “in casa” e
anche un po' di più “per casa” (intendendo con questo l'Unione Europea,
verso cui le esportazioni crescono al rtimo del 5,3% anche in un
trimestre negativo). E ci si deve “armare meglio” per competere sui
mercati globali. In tutti i sensi, pare.
dal blog "Tempo reale"
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