ealfonzo - 01 aprile 2014
ealfonzo - 01 aprile 2014
1. Nella spesa
pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi.
Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa
pubblica italiana sia eccessiva e in questo consisterebbe il principale
problema della nostra finanza pubblica, secondo alcuni persino la causa
originaria della montagna di debito pubblico. Per questa ragione, la spesa
pubblica italiana andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già
dato pessima prova di sé. Infatti, la
spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza
che sprechi e privilegi siano stati cancellati. Per non parlare
degli effetti macroeconomici dei tagli, e
in generale delle politiche di austerità, che hanno arrestato la crescita della
nostra economia.
A ben vedere, la spesa pubblica italiana non è affatto
elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì
riqualificandola. Infatti, come di seguito mostreremo, il volume complessivo della spesa pubblica
italiana è in linea con la media dei Paesi europei, nonostante il
volume ingombrante degli interessi sul debito. Ciò significa che la spesa pubblica primaria o “di scopo”
– cioè la spesa diretta ad erogare servizi pubblici, con esclusione degli
interessi sul debito – è largamente inferiore alla
media europea. L’analisi mostra inoltre che, dopo anni di politiche
di austerità, il valore della spesa pubblica totale per
cittadino espressa in termini reali è ormai largamente inferiore alla media
europea. Da tutto ciò ne segue che bisogna guardare altrove per
spiegare la formazione del debito e per affrontare i problemi atavici di
competitività del Paese. La spesa pubblica di scopo italiana andrebbe incrementata e certamente riqualificata, non
tagliata.
2. Cominciamo con
l’esaminare la spesa di scopo prendendo come
riferimento il 1981, l’anno in cui si consumò il fatidico “divorzio” tra il
Tesoro e la Banca d’Italia, che da allora in poi non fu più tenuta ad
acquistare i titoli del debito pubblico. Ebbene, nel 1981 la spesa di scopo
italiana ammontava al 39% del Pil, a fronte del 45% della Germania e del 47%
della Francia. Da allora – come mostra il Grafico 1, costruito sulla base dei
dati AMECO forniti dalla Commissione Europea – la spesa pubblica italiana,
espressa in percentuale del Pil, è stata sempre inferiore
alla media dei paesi europei, Germania e Francia in testa. Solo nei
quattro anni tra il 1987 e il 1991, e poi a partire dal 2005 la Germania ha
sperimentato una percentuale di spesa inferiore a quella italiana, ma la quota
della nostra spesa sul Pil si è mantenuta comunque ben inferiore alla media
dell’eurozona.
Ancora più
significativa risulta essere l’analisi della spesa pubblica di scopo per
cittadino. Si tratta di un dato particolarmente significativo per valutare
l’impegno finanziario pubblico per il welfare e per i
servizi pubblici in generale. Ebbene, come evidenziato dal Grafico 2, la spesa italiana per cittadino risulta essere
sensibilmente ben inferiore a quella di Francia e Germania, ma anche della
media dei Paesi dell’eurozona. Nel 2013 il valore della spesa
pubblica di scopo pro capite è stata stimata in Italia pari a 11.629 euro.
Nell’eurozona è stata di 13.350 euro, in Germania 14.220 euro e in Francia
17.074 euro. In Svezia, la spesa di scopo pro capite è stata di 22.555 euro,
quasi il doppio che in Italia.
Quanto appena osservato
ci aiuta a capire che se i servizi pubblici italiani sono spesso inadeguati
questo sarà pure dovuto a gravi sprechi e inefficienze, ma non si può escludere
che vi sia per alcuni capitoli – quanto meno nel confronto con gli altri Paesi
– un problema di insufficienza di spesa
pubblica. Questa affermazione risulta difficilmente contestabile,
anche alla luce della Tabella 1:
3. A fronte di una
spesa pubblica primaria inferiore agli altri paesi europei, il nostro debito
pubblico è però sempre stato maggiore della media europea[1]. Nel 1981 il debito
pubblico italiano ammontava infatti già al 59% del Pil, contro una media
europea intorno al 40%, con la Germania attestata al 33,70% e la Francia molto
più in basso, appena al 22%. Nel 2013 il rapporto debito Pil risulta essere più
che raddoppiato in tutti i Paesi. In Italia ha raggiunto il 131% del Pil,
nell’Unione Europea il 90%, in Francia il 94% e in Germania l’81%.
Per spiegare il paradosso di un Paese che spende meno degli
altri e si indebita di più bisogna guardare ad altri due fattori:
la dinamica delle entrate pubbliche e il regime dei tassi di interesse.
Come mostra il Grafico
3, le entrate pubbliche in rapporto al Pil erano
nel 1981 molto inferiori a quelle degli altri paesi europei. Infatti, le entrate
italiane erano il 33,6% del Pil, mentre in Germania erano il 43,6% e in Francia
addirittura il 46,1%. Dopo un decennio le entrate italiane raggiunsero
finalmente quelle della Germania, ma nel frattempo il debito italiano aveva già
superato il valore del suo prodotto nazionale annuo. Solo dalla metà del primo
decennio del nuovo secolo le entrate italiane si sono portate leggermente al di
sopra della media europea, restando però per tutto il periodo nettamente
inferiori a quelle della Francia.
Tuttavia, per non
essere tratti in inganno dalla più recente dinamica delle entrate occorre
notare che il loro andamento rispetto al Pil è in grande misura il risultato della bassa crescita dell’economia
italiana. Quanto appena affermato si evince dall’analisi dell’andamento delle entrate reali pro capite registrate
in Italia dopo il 2000, alla luce delle statistiche dell’Ocse. Infatti, come
mostra il Grafico 4, l’Italia è uno dei pochissimi Paesi nei quali la crescita delle entrate dello Stato, in
termini reali pro capite, è stata negativa.
Ciò ci consente di
spiegare un altro apparente paradosso della finanza
pubblica italiana: le entrate totali rispetto al Pil aumentano mentre le
entrate reali pro capite si riducono.
Sul primo aspetto non
possono esserci dubbi: come sottolineato dopo la recente uscita del volume Noi Italia 2014 dell’ISTAT,
l’Italia ha una pressione fiscale appena inferiore a quella della Svezia. In
effetti – secondo i dati AMECO della Commissione Europea – il peso totale del
carico fiscale in rapporto al Pil è stimato al 44,05%, superiore alla media
europea e tanto vicino al dato svedese del 45,03%. Tuttavia, anche sul secondo
aspetto non possono esserci dubbi. E infatti il carico fiscale pro capite
italiano è considerevolmente inferiore a quello della Svezia, e a quello di
tutti gli altri Paesi europei più sviluppati: nel 2013 il carico fiscale per
cittadino italiano è stato di 11.338 euro per l’Italia, mentre in Svezia ha
raggiunto la cifra di 19.819 euro. In Germania, sempre nel 2013, è stimato a
12.082 euro e in Francia a 15.075 euro. Si comprende facilmente che il paradosso di un Paese che ha una elevata
pressione fiscale rispetto al Pil e un basso carico fiscale pro capite dipende
proprio dal basso livello del reddito, e non dall’elevatezza assoluta delle
entrate statali. Insomma, rispetto agli altri Paesi europei le tasse non sono
elevate, è la crescita ad essere insufficiente.
Tutto ciò conferma che
all’origine dell’alto debito pubblico italiano
non c’è un “eccesso di spesa”, ma un difetto di entrate pubbliche,
che nel 1981 erano, in rapporto al Pil, più di cinque punti inferiori alla
spesa di scopo. In Germania questa differenza era di meno di due punti
percentuali, e in Francia meno di un punto. La conseguenza era che l’Italia
registrava livelli di disavanzo del bilancio pubblico, al netto degli
interessi, sconosciuti agli altri Paesi. Più precisamente, il nostro peccato
originale è stato quello di avere consentito una enorme evasione fiscale
e forse anche di avere speso male, ma certo non di aver speso troppo in
aggregato. La successiva crescita delle entrate,
senza però che si sia risolto il problema dell’evasione, non è stata sufficiente ad invertire il trend
del debito pubblico, principalmente a causa dell’andamento degli
interessi sul debito.
4. Ma anche sulla
questione degli interessi c’è qualcosa da chiarire. Infatti, lo Stato italiano ha sempre pagato tassi sul debito più elevati
dei partner europei. Questa circostanza si è particolarmente
accentuata dopo il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, allorché lo Stato
doveva necessariamente collocare i titoli del debito sul mercato, con
conseguente crescita dei tassi. Ma la dinamica degli interessi non si spiega
solo con questioni di spese e entrate statali. Tutt’altro. Il fatto è che il nostro
apparato produttivo si mostrava – già allora – non adeguatamente competitivo,
dando vita a una tendenza strutturale all’eccesso delle importazioni sulle
esportazioni. Una situazione aggravata da spinte inflazionistiche interne
maggiori rispetto alla media degli altri paesi. Ne seguiva un disavanzo cronico della bilancia commerciale
che doveva essere compensato con un avanzo della bilancia dei capitali, e
dunque con afflussi di capitali attratti da tassi particolarmente remunerativi.
Per queste ragioni, il peso sugli interessi del debito cominciò a salire
rapidamente, raggiungendo addirittura il 12,6% del Pil nel 1993, mentre negli
altri Paesi quel valore si attestava molto più in basso, mediamente intorno al
3%. Solo dopo il 1993 il peso degli interessi sul Pil cominciava a declinare,
ma è sempre rimasto – come si evince dal Grafico 5 – significativamente più
alto di quello degli altri paesi europei.
Tutto ciò significa che la
montagna di debito pubblico che ci portiamo sul groppone non è dipesa tanto dalla
presenza di uno Stato spendaccione, come spesso si ritiene, quanto dal fenomeno
della evasione fiscale e dalla scarsa competitività delle nostro sistema
produttivo.
5. Come conseguenza
della crescita del debito e del lievitare degli interessi – e, lo ripetiamo,
nonostante una componente di scopo contenuta – la
spesa pubblica italiana totale espressa come quota del Pil si
poneva sino ai primissimi anni ’90 al di sopra della media europea. Dopo di
allora – come si evidenzia nel Grafico 6 – il valore della spesa totale
italiana veniva superato dalla Francia nel 1993,
dal 1995 si allineava a quello della Germania e della zona euro, per tornare ad
essere superiore a quella della Germania ma in
linea con quello della zona euro dal 2004 in poi. Soprattutto, risulta
evidente all’esame del grafico che, come conseguenza delle politiche di
austerità, il valore della spesa pubblica totale italiana
rispetto al Pil si è già contratto di ben sei punti rispetto ai primi anni ’90.
Ciò permette di capire
come mai l’Italia costituisca una eccezione nel quadro Ocse, in quanto mostra un valore della spesa pubblica complessiva
reale per cittadino che non è cresciuto ma è rimasto sostanzialmente costante rispetto ai
primi anni ’90. La spesa pubblica reale per cittadino si ottiene
partendo dal valore della spesa pubblica totale – comprensiva quindi anche
della rilevante quota di interessi – in termini reali e rapportando questo
valore alla popolazione. Ebbene, l’Italia, come mostra il Grafico 7, ha una
spesa reale per cittadino largamente inferiore alla Francia e alla Germania, ma
anche largamente inferiore alla media dei paesi dell’eurozona. Una differenza
che si è ampliata sempre più con le politiche di austerità imposte
principalmente ai Paesi periferici dell’Unione monetaria.
6. Quanto appena
osservato dovrebbe aiutare a chiarire che le condizioni difficili della nostra
finanza pubblica – anche per ciò che riguarda i rapporti deficit PIL e debito
PIL – non stanno certo nella dimensione della spesa, che è stata oggetto di tagli
che ne hanno ridotto consistentemente il peso sul Pil, congelandola dal punto
di vista del valore reale.
A questo proposito,
proviamo a capire cosa si è verificato con le politiche di austerità
varate dai primissimi anni ’90, successivamente alla adesione al Trattato di
Maastricht. Per apprezzare correttamente il peso di queste politiche bisogna
concentrarsi sull’andamento del bilancio primario dello Stato, cioè la
differenza tra entrate e spese al netto degli interessi sul debito. Come
illustrato nel Grafico 8, dal 1992 l’Italia ha segnato
il record europeo in fatto di avanzi primari di bilancio, tenendoli
stabilmente in terreno positivo, con l’eccezione del 2009, mentre la virtuosa
Germania sperimentava saldi negativi per ben sette anni in quello stesso
periodo.
Anche la dimensione
degli avanzi primari messi a segno dall’Italia dai primi anni ‘90 è risultata
ben maggiore di quella registrata dalla Germania, dalla Francia e dalla media
dei paesi dell’eurozona, come conferma il Grafico 9. Dunque, dal 1991 la
politica fiscale italiana è stata restrittiva. Ma ciò – come era stato
ampiamente previsto dalla letteratura di impostazione keynesiana – non ha
generato gli effetti annunciati dai teorici dell’austerità
espansiva. Infatti, l’austerity ha
vistosamente compresso la domanda interna di merci e servizi, facendo
rallentare la crescita del Pil e finendo per influenzare negativamente lo
stesso rapporto tra debito e Pil. Rispetto ai primi anni ’90, infatti, il Pil
italiano è cresciuto la metà del resto dell’eurozona, mentre il rapporto tra
debito e Pil è aumentato di circa 35 punti.
7. In conclusione,
diversamente da quanto spesso si afferma, i problemi delle finanza
pubblica italiana e dell’economia italiana non stanno in un eccesso di spesa
statale. Per ciò, continuare con la vecchia ricetta dei tagli alla
spesa pubblica rischia di lasciare pericolosamente
nell’ombra le cause di fondo dei problemi italiani, che riposano nelle
distorsioni del meccanismo delle entrate, nella scarsa competitività del nostro
apparato produttivo, nell’insufficienza della domanda aggregata.
Anche i recenti buoni
propositi, di diminuire il cuneo fiscale sul lavoro al fine di rilanciare la
domanda, rischiano di innescare ulteriori problemi, almeno se si pensa di
finanziarli completamente attraverso tagli della spesa pubblica. Come mostrato
infatti da diversi studi, almeno nel breve periodo, il moltiplicatore fiscale
della spesa è ben maggiore rispetto al moltiplicatore delle tasse. E ciò
significa che ulteriori tagli alla spesa pubblica rischiano di avere un effetto
negativo sul Pil maggiore di quanto sia l’effetto espansivo dovuto
all’abbassamento della pressione fiscale. Insomma, la
spesa pubblica italiana non è elevata. In una grave crisi come quella che
stiamo affrontando, bisognerebbe andare ben oltre i vincoli europei sulla
finanza pubblica ed espandere la spesa. Essa andrebbe poi ampiamente
riqualificata. Di certo, non tagliata.
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