- Un bilancio provvisorio della "eurocrisi" con l'aiuto dei dati ufficiali - di Claus Peter Ortlieb
Benché
la Germania finora continui a contarsi fra i vincitori della crisi, e
la Grande Coalizione continui a godere della stessa popolarità dei
governi federali precedenti, e che, secondo un sondaggio condotto
nell'aprile 2014, l'80% dei tedeschi si dica "globalmente soddisfatto
dello stato del nostro paese", sono apparentemente numerosi quelli che,
malgrado tutto, pensano ci sia qualcosa di sospetto, e sentono che il
"paradiso tedesco" (secondo la Wirtschaftswoche del 19 aprile) è
minacciato, e che alla fine dei conti toccherà ancora al "contribuente
tedesco" pagare per i danni fatti dai paesi europei in crisi. Da qui,
l'appello pressante a mettere fine alla crisi senza indugi, e di
conseguenza l'avvertimento che rischia di durare ancora un po', fa sì
che troviamo nei media sempre più tentativi volti a produrre con la
maggior forza possibile degli annunci di fine della crisi - annunci, il
cui ottimismo, del resto, si limita spesso al solo titolo, mentre
l'articolo vero e proprio ragiona secondo un modo di vedere le cose ben
diverso.
"Die Welt", per esempio, intravvede la fine del tunnel il 3 aprile, e titola: "La Grecia si appresta ad effettuare una clamorosa rimonta". Lì per lì, si crede ad un pesce d'aprile in ritardo, ma velocemente si arriva a comprendere che l'articolo è del tutto serio, salvo che non concerne altro che un aspetto parziale - ed anche non particolarmente pertinente - della catastrofe greca: "Per evitare un terzo piano di salvataggio, Atene considera il suo ritorno sui mercati finanziari, solo due anni dopo il fallimento. Sarebbe un record", spiega l'occhiello.
Una settimana più tardi, lo Spiegel Online ci annuncia che è fatta: "Rimonta riuscita! La Grecia incassa 3 miliardi di euro dalla vendita di obbligazioni". Lo Stato greco è riuscito a rifilare dei buoni statali a cinque anni al 4,75%, dei quali nove decimi a degli investitori istituzionali stranieri. Solo due settimane più tardi, è seguito il Portogallo che si è disfatto di un totale di 750 milioni di euro di obbligazioni a dieci anni al tasso d'interesse del 3,58%, il più basso visto negli ultimi otto anni.
Quello che i nostri giornalisti celebrano come una rimonta, però, non assolutamente niente a che vedere con la situazione economica dei paesi in questione. Gli investitori comprano delle obbligazioni quando possono contare sul fatto che esse verranno pagate e rimborsate. Si tratta dei paesi europei in crisi, lo fanno non perché questi paesi improvvisamente vanno meglio, ma perché Mario Draghi, il presidente della BCE, ha annunciato nell'estate del 2012 che verrà fatto "tutto il necessario" per stabilizzare l'euro, cosa che include l'acquisto di titoli di Stato. La crisi dunque non è affatto finita; è semplicemente cambiato il modo di affrontarla. Immediatamente, i fautori di severa politica di austerità - come Thomas Mayer, "economista in capo" di Focus Online, il 20 aprile - si sono messi a gridare che si era sul punto di ripetere gli stessi errori che avevano portato alla crisi. Ciò che dimenticano, è che la politica d'austerità di questi ultimi anni non è stata visibilmente svolta per attenuare la crisi in Grecia, piuttosto il contrario. Anche se è lontano dall'aver eliminato il suo debito pubblico, difficilmente si potrà incolpare il governo greco - soprattutto in vista delle elezioni che si avvicinano - di aver tentato, vendendo delle obbligazioni di Stato, di evitare un terzo piano di salvataggio, con i tagli al bilancio che questo inevitabilmente implicherebbe.
Che i metodi preconizzati dagli "economisti in capo" del FMI ed altri non funzionano, questo è ciò che mostrano i dati ufficiali di Eurostat, l'agenzia europea di statistica che in data 23 aprile ha pubblicato le cifre attualizzate dei deficit pubblici nell'Unione Europea. I commentatori hanno visto in questo di nuovo un'occasione per provare - stavolta in maniera particolarmente forzata - a vedere la crisi sotto una luce positiva. Così lo Spiegel Online ha annunciato la pubblicazione dei dati di Eurostat titolando trionfalmente: "La Grecia realizza la sua prima eccedenza dopo dieci anni". Per "eccedenza" si intende qui quello che si chiama il saldo primario, il quale non tiene per niente conto degli enormi costi degli interessi. L'articolo propriamente detto, però, non è ingannevole e definisce quest'eccedenza primaria come una "grandezza puramente contabile", della quale le regole dell'FMI esigono certamente il rilevamento, ma che in realtà riveste un'importanza del tutto relativa poiché, eccedenza primaria o no, bisogna in tutti i modi continuare ad onorare gli interessi del debito. Il debito pubblico greco, in realtà, ha fatto un salto del +12,9% del PIL, un dato mai visto dopo l'introduzione della politica d'austerità; questo debito è ormai pari al 175,1% del PIL, anch'esso un record. Quale successo per la "troika" (FMI, BCE e Commissione europea) e le sue raccomandazioni di controllo della spesa pubblica! Da un'altra parte, non c'è niente da aspettarsi da questo vecchio metodo che torna oggi di moda e che consiste nel gettare delle obbligazioni di Stato sul mercato; esso è del tutto incapace di risolvere il problema dell'indebitamento crescente. Ci troviamo di fronte al dilemma ben noto: mentre la crescita economica è innegabilmente non più possibile se non tramite il debito, sottomettere le finanze pubbliche ad una cura dimagrante, però, ridurrebbe senza dubbio il PIL, ma in ogni caso anche il debito. Da questo non si uscirà, entro un futuro prevedibile.
Se il debito pubblico greco è un'eccezione in seno alla zona euro, questo è dovuto unicamente al suo ordine di grandezza, e non alla sua tendenza al rialzo. Dal 2011 al 2013, la Grecia ha visto il suo indebitamento passare dall'85,5% al 92,6% del PIL, l'intervallo che la separa dalla barra magica del 100% si è per conseguenza ridotto di metà. Da allora, cinque dei diciotto paesi della zona euro hanno allegramente superato questa barra: la Grecia, l'abbiamo detto; ma anche l'Italia, il Portogallo, l'Irlanda e, più recentemente, Cipro, il cui livello di indebitamento è passato, nello spazio di un anno, dall'86,6% al 111,7% del PIL. Da un lato all'altro della zona euro i debiti pubblici si impennano. Ad eccezione della Germania e della Lettonia, dove sono leggermente diminuiti in questi ultimi mesi, gli altri sedici paesi hanno visto il loro debito alzarsi, il livello raggiunto e la velocità di progressione varia da un paese all'altro.
La strana opinione per cui la crisi sarebbe oramai alle nostre spalle - un pio desiderio e nient'altro - si è vista confortata da un pronostico della Commissione Europea che prevede per il 2014, nella zona euro, una crescita del PIL dell'1,2%, pronostico che include anche i paesi in crisi, anche se viene promesso loro solo l'1%. Al momento, gli economisti ritengono che Irlanda, Spagna e Portogallo, almeno, siano "tornati in corsa" e che per loro, di conseguenza "il peggio è passato". Solo che - senza parlare del fatto che "è molto difficile fare previsioni, soprattutto quando riguardano l'avvenire" (Mark Twain) - questa crescita che ci viene annunciata è solo una mini-crescita, paragonata a quelle che conosciamo di prima del 2008. Secondo i dati pubblicati dall'Eurostat il 15 aprile, il PIL reale nel corso degli ultimi 5 anni si è abbassato del 2,2% nell'insieme della zona euro: del 23,5% in Grecia, del 9,4% in Slovenia, del 7,9% a Cipro, del 7,6% in Italia, del 6,8% in Portogallo, del 6,6% in Spagna - ed anche la Finlandia non sfugge dal momento che il suo PIL accusa una caduta del 5,1%. Un calcolo semplice ci permette di vedere che, anche se questi paesi ritrovassero una crescita durevole dell'ordine di quella che prevede la Commissione Europea, bisognerebbe attendere almeno il prossimo decennio - e per la Grecia oltre due decenni - perché tornino al loro livello del 2008, e ancora a condizione che non si verifichi un ulteriore collasso nel corso dell'intervallo.
Da un altro punto di vista, una crescita dell'ordine dell'1,2% sarebbe ancora troppo debole: data la crescente produttività del lavoro, essa non sarebbe sufficiente a ridurre la disoccupazione. Il tasso di crescita che questo esige potrebbe essere generato solo da un ulteriore indebitamento - e non solo in Europa, ma su scala mondiale. Con la loro politica fatta di bassi tassi d'interesse, le banche centrali fanno tutto il possibile per lottare contro la recessione e le tendenze deflazionistiche che l'accompagnano: inondano il mercato finanziario con "denaro meno caro". Salvo che, data la mancanza di prospettive di rendimenti interessanti, la più parte di questo denaro non serve a degli investimenti reali ma si accontenta di alimentare la formazione di bolle, tanto nel settore della finanza che in quello immobiliare e delle materie prime. Ultimamente, sembra che qualche economista alla fine abbia preso coscienza di questo fenomeno; solo che, come non vedono ancora nessuna alternativa al capitalismo, spiegano la fase attuale di stagnazione e di rischio di deflazione, sia in termini delle bolle simultanee sul mercato degli investimenti, sia parlando senza mezzi termini di "nuova normalità". Hanno un bel ripetere che si tratta solo di una fase transitoria, piuttosto che lo stadio terminale di un modo di produzione in declino, la cosa rimane da dimostrare. E per questo le statistiche ufficiali da sole non aiutano affatto.
Si considera generalmente il tasso di disoccupazione, o d'inattività, come l'indicatore più pertinente dell'ampiezza della crisi; giustamente, perché descrive non solo un aspetto essenziale delle conseguenze sociali della crisi, ma mostra inoltre a quale punto questa incontra la fine della ragion d'essere di tutte le attività economiche capitaliste, vale a dire la produzione di plusvalore. Il plusvalore, come si sa - quello che la dottrina politico economica dominante si rifiuta di ammettere - si ottiene per mezzo dello sfruttamento del lavoro vivente; quindi, la disoccupazione di massa diventa un problema anche per il capitale, poiché riduce le possibilità di creazione di plusvalore.
Le difficoltà insorgono quando si vuole calcolare il tasso di disoccupazione. Secondo le indicazioni metodologiche fornite da Eurostat, una persona fra i quindici e i settantaquattro anni di età viene giudicata inattiva se non ha lavorato nel corso della settimana di riferimento, se ha occupato un impiego nel corso delle due settimane precedenti ed ha cercato attivamente un impiego durante le quattro settimane precedenti. L'ultimo punto, in particolare, permette di far sparire dalle statistiche un certo numero di disoccupati: chi per esempio viene inviato ad uno stage di qualificazione o mandato in prepensionamento, diventa indisponibile per il mercato del lavoro. Non vengono presi più in considerazione i disoccupati che si ritirano da questo sistema o che non vedono per sé alcuna opportunità. Bisogna perciò partire dal principio che le cifre ufficiali sottostimano largamente il tasso reale di inattività, e tutti quelli che si sforzano di interpretare i dati ufficiali dovrebbero tenerlo a mente.
"Die Welt", per esempio, intravvede la fine del tunnel il 3 aprile, e titola: "La Grecia si appresta ad effettuare una clamorosa rimonta". Lì per lì, si crede ad un pesce d'aprile in ritardo, ma velocemente si arriva a comprendere che l'articolo è del tutto serio, salvo che non concerne altro che un aspetto parziale - ed anche non particolarmente pertinente - della catastrofe greca: "Per evitare un terzo piano di salvataggio, Atene considera il suo ritorno sui mercati finanziari, solo due anni dopo il fallimento. Sarebbe un record", spiega l'occhiello.
Una settimana più tardi, lo Spiegel Online ci annuncia che è fatta: "Rimonta riuscita! La Grecia incassa 3 miliardi di euro dalla vendita di obbligazioni". Lo Stato greco è riuscito a rifilare dei buoni statali a cinque anni al 4,75%, dei quali nove decimi a degli investitori istituzionali stranieri. Solo due settimane più tardi, è seguito il Portogallo che si è disfatto di un totale di 750 milioni di euro di obbligazioni a dieci anni al tasso d'interesse del 3,58%, il più basso visto negli ultimi otto anni.
Quello che i nostri giornalisti celebrano come una rimonta, però, non assolutamente niente a che vedere con la situazione economica dei paesi in questione. Gli investitori comprano delle obbligazioni quando possono contare sul fatto che esse verranno pagate e rimborsate. Si tratta dei paesi europei in crisi, lo fanno non perché questi paesi improvvisamente vanno meglio, ma perché Mario Draghi, il presidente della BCE, ha annunciato nell'estate del 2012 che verrà fatto "tutto il necessario" per stabilizzare l'euro, cosa che include l'acquisto di titoli di Stato. La crisi dunque non è affatto finita; è semplicemente cambiato il modo di affrontarla. Immediatamente, i fautori di severa politica di austerità - come Thomas Mayer, "economista in capo" di Focus Online, il 20 aprile - si sono messi a gridare che si era sul punto di ripetere gli stessi errori che avevano portato alla crisi. Ciò che dimenticano, è che la politica d'austerità di questi ultimi anni non è stata visibilmente svolta per attenuare la crisi in Grecia, piuttosto il contrario. Anche se è lontano dall'aver eliminato il suo debito pubblico, difficilmente si potrà incolpare il governo greco - soprattutto in vista delle elezioni che si avvicinano - di aver tentato, vendendo delle obbligazioni di Stato, di evitare un terzo piano di salvataggio, con i tagli al bilancio che questo inevitabilmente implicherebbe.
Che i metodi preconizzati dagli "economisti in capo" del FMI ed altri non funzionano, questo è ciò che mostrano i dati ufficiali di Eurostat, l'agenzia europea di statistica che in data 23 aprile ha pubblicato le cifre attualizzate dei deficit pubblici nell'Unione Europea. I commentatori hanno visto in questo di nuovo un'occasione per provare - stavolta in maniera particolarmente forzata - a vedere la crisi sotto una luce positiva. Così lo Spiegel Online ha annunciato la pubblicazione dei dati di Eurostat titolando trionfalmente: "La Grecia realizza la sua prima eccedenza dopo dieci anni". Per "eccedenza" si intende qui quello che si chiama il saldo primario, il quale non tiene per niente conto degli enormi costi degli interessi. L'articolo propriamente detto, però, non è ingannevole e definisce quest'eccedenza primaria come una "grandezza puramente contabile", della quale le regole dell'FMI esigono certamente il rilevamento, ma che in realtà riveste un'importanza del tutto relativa poiché, eccedenza primaria o no, bisogna in tutti i modi continuare ad onorare gli interessi del debito. Il debito pubblico greco, in realtà, ha fatto un salto del +12,9% del PIL, un dato mai visto dopo l'introduzione della politica d'austerità; questo debito è ormai pari al 175,1% del PIL, anch'esso un record. Quale successo per la "troika" (FMI, BCE e Commissione europea) e le sue raccomandazioni di controllo della spesa pubblica! Da un'altra parte, non c'è niente da aspettarsi da questo vecchio metodo che torna oggi di moda e che consiste nel gettare delle obbligazioni di Stato sul mercato; esso è del tutto incapace di risolvere il problema dell'indebitamento crescente. Ci troviamo di fronte al dilemma ben noto: mentre la crescita economica è innegabilmente non più possibile se non tramite il debito, sottomettere le finanze pubbliche ad una cura dimagrante, però, ridurrebbe senza dubbio il PIL, ma in ogni caso anche il debito. Da questo non si uscirà, entro un futuro prevedibile.
Se il debito pubblico greco è un'eccezione in seno alla zona euro, questo è dovuto unicamente al suo ordine di grandezza, e non alla sua tendenza al rialzo. Dal 2011 al 2013, la Grecia ha visto il suo indebitamento passare dall'85,5% al 92,6% del PIL, l'intervallo che la separa dalla barra magica del 100% si è per conseguenza ridotto di metà. Da allora, cinque dei diciotto paesi della zona euro hanno allegramente superato questa barra: la Grecia, l'abbiamo detto; ma anche l'Italia, il Portogallo, l'Irlanda e, più recentemente, Cipro, il cui livello di indebitamento è passato, nello spazio di un anno, dall'86,6% al 111,7% del PIL. Da un lato all'altro della zona euro i debiti pubblici si impennano. Ad eccezione della Germania e della Lettonia, dove sono leggermente diminuiti in questi ultimi mesi, gli altri sedici paesi hanno visto il loro debito alzarsi, il livello raggiunto e la velocità di progressione varia da un paese all'altro.
La strana opinione per cui la crisi sarebbe oramai alle nostre spalle - un pio desiderio e nient'altro - si è vista confortata da un pronostico della Commissione Europea che prevede per il 2014, nella zona euro, una crescita del PIL dell'1,2%, pronostico che include anche i paesi in crisi, anche se viene promesso loro solo l'1%. Al momento, gli economisti ritengono che Irlanda, Spagna e Portogallo, almeno, siano "tornati in corsa" e che per loro, di conseguenza "il peggio è passato". Solo che - senza parlare del fatto che "è molto difficile fare previsioni, soprattutto quando riguardano l'avvenire" (Mark Twain) - questa crescita che ci viene annunciata è solo una mini-crescita, paragonata a quelle che conosciamo di prima del 2008. Secondo i dati pubblicati dall'Eurostat il 15 aprile, il PIL reale nel corso degli ultimi 5 anni si è abbassato del 2,2% nell'insieme della zona euro: del 23,5% in Grecia, del 9,4% in Slovenia, del 7,9% a Cipro, del 7,6% in Italia, del 6,8% in Portogallo, del 6,6% in Spagna - ed anche la Finlandia non sfugge dal momento che il suo PIL accusa una caduta del 5,1%. Un calcolo semplice ci permette di vedere che, anche se questi paesi ritrovassero una crescita durevole dell'ordine di quella che prevede la Commissione Europea, bisognerebbe attendere almeno il prossimo decennio - e per la Grecia oltre due decenni - perché tornino al loro livello del 2008, e ancora a condizione che non si verifichi un ulteriore collasso nel corso dell'intervallo.
Da un altro punto di vista, una crescita dell'ordine dell'1,2% sarebbe ancora troppo debole: data la crescente produttività del lavoro, essa non sarebbe sufficiente a ridurre la disoccupazione. Il tasso di crescita che questo esige potrebbe essere generato solo da un ulteriore indebitamento - e non solo in Europa, ma su scala mondiale. Con la loro politica fatta di bassi tassi d'interesse, le banche centrali fanno tutto il possibile per lottare contro la recessione e le tendenze deflazionistiche che l'accompagnano: inondano il mercato finanziario con "denaro meno caro". Salvo che, data la mancanza di prospettive di rendimenti interessanti, la più parte di questo denaro non serve a degli investimenti reali ma si accontenta di alimentare la formazione di bolle, tanto nel settore della finanza che in quello immobiliare e delle materie prime. Ultimamente, sembra che qualche economista alla fine abbia preso coscienza di questo fenomeno; solo che, come non vedono ancora nessuna alternativa al capitalismo, spiegano la fase attuale di stagnazione e di rischio di deflazione, sia in termini delle bolle simultanee sul mercato degli investimenti, sia parlando senza mezzi termini di "nuova normalità". Hanno un bel ripetere che si tratta solo di una fase transitoria, piuttosto che lo stadio terminale di un modo di produzione in declino, la cosa rimane da dimostrare. E per questo le statistiche ufficiali da sole non aiutano affatto.
Si considera generalmente il tasso di disoccupazione, o d'inattività, come l'indicatore più pertinente dell'ampiezza della crisi; giustamente, perché descrive non solo un aspetto essenziale delle conseguenze sociali della crisi, ma mostra inoltre a quale punto questa incontra la fine della ragion d'essere di tutte le attività economiche capitaliste, vale a dire la produzione di plusvalore. Il plusvalore, come si sa - quello che la dottrina politico economica dominante si rifiuta di ammettere - si ottiene per mezzo dello sfruttamento del lavoro vivente; quindi, la disoccupazione di massa diventa un problema anche per il capitale, poiché riduce le possibilità di creazione di plusvalore.
Le difficoltà insorgono quando si vuole calcolare il tasso di disoccupazione. Secondo le indicazioni metodologiche fornite da Eurostat, una persona fra i quindici e i settantaquattro anni di età viene giudicata inattiva se non ha lavorato nel corso della settimana di riferimento, se ha occupato un impiego nel corso delle due settimane precedenti ed ha cercato attivamente un impiego durante le quattro settimane precedenti. L'ultimo punto, in particolare, permette di far sparire dalle statistiche un certo numero di disoccupati: chi per esempio viene inviato ad uno stage di qualificazione o mandato in prepensionamento, diventa indisponibile per il mercato del lavoro. Non vengono presi più in considerazione i disoccupati che si ritirano da questo sistema o che non vedono per sé alcuna opportunità. Bisogna perciò partire dal principio che le cifre ufficiali sottostimano largamente il tasso reale di inattività, e tutti quelli che si sforzano di interpretare i dati ufficiali dovrebbero tenerlo a mente.
La
tabella qui sopra mostra, a partire dal 2008, un aumento continuo del
tasso di disoccupazione nella zona euro, il quale passa, per l'insieme
della zona, dal 7,6% al 12%. La sola ed unica eccezione è la Germania,
dove questo tasso è più basso nel 2013 di quanto lo fosse nel 2008.
Inoltre la tendenza generale al rialzo dà pochi segni di cedimento, dal
momento che nel corso dell'ultimo anno la disoccupazione è diminuita
solo in quattro paesi: Germania, Irlanda, Estonia e Lettonia.
Ancora più impressionante il tasso di disoccupazione globale di quelli che sono fra i 15 ed i 24 anni d'età (colonna a destra). Qui, per ragioni metodologiche, non abbiamo la cifra corrispondente all'insieme della zona euro, poiché la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro varia fortemente da un paese all'altro e rende le cifre difficilmente comparabili. In solamente sette del diciotto paesi, troviamo un tasso di disoccupazione dei giovani inferiore al 20%; in sei paesi, più di un terzo dei giovani sono senza impiego, e sono più della metà in Grecia ed in Spagna.
Come segnala Eurostat nel suo comunicato del 15 aprile, il tasso di disoccupazione non varia solamente da un paese all'altro; si rivelano anche degli scarti considerevoli anche all'interno stesso di ciascun paese. Se in Spagna, per esempio, il tasso medio è del 26,4%, nel nord del paese si trova al di sotto del 20% ma si innalza fino al 35% nel sud, dove il tasso di disoccupazione dei giovani schizza al 72,7%. Si osserva la stessa cosa, mutatis mutandis, negli altri paesi della zona euro. Si ripete qui, sul piano regionale, quello che si sapeva già del pianeta nel suo insieme: se il capitalismo funziona ancora bene o male in una manciata di centri, alcune regioni periferiche invece si sono ormai "sganciate " a tal punto dalla locomotiva dello sviluppo che diventa difficile solo immaginare come fare a ristabilire il contatto.
Le aride cifre delle statistiche ufficiali presentano evidentemente delle gravi difficoltà al fine di misurare le fratture sociali provocate dalla crisi, soprattutto quando ad uno sganciamento dello sviluppo economico corrispone uno sganciamento dalla civiltà acquisita, cosa che, da qualche anno, sembra evidente. Laddove, come in Grecia, l'assistenza medica si ottiene solo per mezzo del pagamento in contanti, di modo che milioni di persone ne sono di fatto private o devono rinunciare a mangiare per potersela pagare, si può parlare a buon diritto di "Stato fallito". Anche se bisogna andare per gradi, perché dal punto di vista della periferia mondiale, in particolare in Africa, i nostri problemi non sono altro che delle piccole preoccupazioni da europei ricchi.
Nello Spiegel Online del 22 aprile è apparso un articolo intitolato "L'Italia in declino" e che comincia così: "La Spagna si riprende, il Portogallo e l'Irlanda pure - solo l'Italia rimane profondamente impantanata nella crisi". Per l'autore dell'articolo, questo sarebbe dovuto ad un'insufficiente competitività... unita ad una mancanza di volontà. Viene preso il caso di una fabbrica di Bologna acquistata nel 2012 dal costruttore tedesco di automobili Audi. Questa fabbrica costruisce le moto Ducati, le cui vendite sono sempre più esitanti. Audi ha perciò proposto al personale il seguente accordo: "La produzione verrà estesa a tre squadre, sette giorni su sette, in modo da ridurre i costi di produzione, cosa che aumenterà la competitività e dunque senza dubbio anche le vendite. Audi-Ducati promette che questa ristrutturazione darà luogo a numerosi nuovi posti di lavoro e a premi sostanziali per i risultati ottenuti."
Rilanciare così drasticamente la produzione in un contesto di caduta delle vendite, passando dalle precedenti 10/12 rotazioni di personale a quasi ventuno per settimana, sembra più che temerario. Ciò malgrado, l'autore dell'articolo non dubita nemmeno per un istante che questa cosa possa funzionare, e critica fortemente l'Italia per essere riluttante a stabilire presso di sé le condizioni della concorrenza globale: "Lavorare il fine settimana, questo non è certamente molto piacevole, solo che è qualcosa di quasi normale oggigiorno nella lotta concorrenziale mondiale sul mercato del lavoro. In Spagna, Renault ha creato 1.300 posti di lavoro con un simile combinazione. Bayer, il gigante della chimica, ha delocalizzato il suo sito di Leverkusen, in Germania, per poter concentrare l'insieme della produzione mondiale di aspirine nelle Asturie, nel nord della Spagna. In Italia, non si vede niente di simile." Nel caso della Ducati, in effetti, la proposta del lavoro domenicale si è scontrata con un "fronte unito degli operai e del clero", un'alleanza tra il dirigente del sindacato locale dei metalmeccanici, "noto per il suo parlar franco e per il suo fermo posizionamento a sinistra", e l'arcivescovo di Bologna.
Così abbiamo un articolo molto rivelatore: è l'esempio perfetto del modo in cui abbiamo diffuso l'idea che alcuni - la Germania in testa - avrebbero una ricetta infallibile da prescrivere ai paesi in crisi, e allo stesso tempo mette involontariamente in luce la ragione per cui questa ricetta non può funzionare. Il modello di riuscita tedesca riposa, ricordiamolo, su una combinazione di alta tecnologia e di (relativo) dumping salariale (N.d.T.: un processo attraverso il quale viene esercitata una pressione verso il basso del livello generale dei salari); in altre parole, su un'industria sempre più produttiva, in seno alla quale tuttavia i salari reali stagnano da vent'anni, addirittura in calo per quelli più modesti. A causa dell'orientamento verso l'esportazione che necessariamente implica, un tale modello esporta anche la disoccupazione e scarica così sugli altri le conseguenze della crisi. I paesi interessati non hanno mancato di criticare ripetutamente questa correlazione, ma Berlino ha sempre negato. Non abbiamo forse preso anche a casa nostra le misure che abbiamo imposto? Sta agli altri, ora, prendere esempio da noi che abbiamo avuto successo, e non il contrario, prego.
La ricetta, per risolvere la crisi, consiste nell'innalzare dappertutto la competitività, sostenendo che potremmo tutti diventare simultaneamente più competitivi. Ma, solo che da un punto di vista puramente logico, è una cosa impossibile poiché "competitivo" significa fare meglio degli altri. Nel concetto di competizione c'è in effetti l'idea che il miglioramento della situazione di uno viene fatto necessariamente a spese dei suoi concorrenti. Anche nell'esempio fornito dallo Spiegel, è del tutto chiaro: quando Renault, col suo modello di lavoro domenicale, crea in Spagna 1.300 posti di lavoro che gli devono permettere di produrre ad un costo inferiore rispetto a prima negli altri siti, si può star sicuri che questo si accompagna ad un dimagrimento su quegli altri siti. E se Bayer concentra la produzione mondiale di aspirina nelle Asturie, questo significa evidentemente che la detta produzione non si trova più altrove. In Germania, nonostante l'autosoddisfazione quasi generale, sembra ci sia sempre più paura che lo status di "grande vincitore della crisi" non sia affatto una conquista duratura: non dimentichiamo che la concorrenza non dorme, e perciò lavoriamo senza tregua con la nostra competitività. Le raccomandazioni che la Wirtschaftswoche ha fatto il 19 aprile al "paradiso tedesco" sono minacciose in tal senso: c'è urgenza di restringere i "benefici" dello stato sociale in tutti i settori che non apportano nessun contributo alla competitività locale. Ma in questo caso, perché non si fanno gli stessi passi che ha fatto la Grecia?
Le cause profonde della crisi globale, che allo stesso tempo sono anche le stesse della "eurocrisi", risiedono nel fatto che ci vuole sempre meno lavoro per produrre tutto, e che di conseguenza sempre più esseri umani diventano superflui dal punto di vista del capitalismo. Se appare indispensabile, agli occhi di un'impresa, di una regione o di un paese intero, ricadere in una tale situazione, per mantenere o migliorare la propria competitività, è certo che, quando tutti gli sforzi, dappertutto, sono andati in tale direzione, non ne può risultare altro che un aggravio della crisi. Quello che continua ad essere chiamato "crisi" diventa allora uno stato permanente. Senza che se ne veda la più piccola via d'uscita.
Ancora più impressionante il tasso di disoccupazione globale di quelli che sono fra i 15 ed i 24 anni d'età (colonna a destra). Qui, per ragioni metodologiche, non abbiamo la cifra corrispondente all'insieme della zona euro, poiché la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro varia fortemente da un paese all'altro e rende le cifre difficilmente comparabili. In solamente sette del diciotto paesi, troviamo un tasso di disoccupazione dei giovani inferiore al 20%; in sei paesi, più di un terzo dei giovani sono senza impiego, e sono più della metà in Grecia ed in Spagna.
Come segnala Eurostat nel suo comunicato del 15 aprile, il tasso di disoccupazione non varia solamente da un paese all'altro; si rivelano anche degli scarti considerevoli anche all'interno stesso di ciascun paese. Se in Spagna, per esempio, il tasso medio è del 26,4%, nel nord del paese si trova al di sotto del 20% ma si innalza fino al 35% nel sud, dove il tasso di disoccupazione dei giovani schizza al 72,7%. Si osserva la stessa cosa, mutatis mutandis, negli altri paesi della zona euro. Si ripete qui, sul piano regionale, quello che si sapeva già del pianeta nel suo insieme: se il capitalismo funziona ancora bene o male in una manciata di centri, alcune regioni periferiche invece si sono ormai "sganciate " a tal punto dalla locomotiva dello sviluppo che diventa difficile solo immaginare come fare a ristabilire il contatto.
Le aride cifre delle statistiche ufficiali presentano evidentemente delle gravi difficoltà al fine di misurare le fratture sociali provocate dalla crisi, soprattutto quando ad uno sganciamento dello sviluppo economico corrispone uno sganciamento dalla civiltà acquisita, cosa che, da qualche anno, sembra evidente. Laddove, come in Grecia, l'assistenza medica si ottiene solo per mezzo del pagamento in contanti, di modo che milioni di persone ne sono di fatto private o devono rinunciare a mangiare per potersela pagare, si può parlare a buon diritto di "Stato fallito". Anche se bisogna andare per gradi, perché dal punto di vista della periferia mondiale, in particolare in Africa, i nostri problemi non sono altro che delle piccole preoccupazioni da europei ricchi.
Nello Spiegel Online del 22 aprile è apparso un articolo intitolato "L'Italia in declino" e che comincia così: "La Spagna si riprende, il Portogallo e l'Irlanda pure - solo l'Italia rimane profondamente impantanata nella crisi". Per l'autore dell'articolo, questo sarebbe dovuto ad un'insufficiente competitività... unita ad una mancanza di volontà. Viene preso il caso di una fabbrica di Bologna acquistata nel 2012 dal costruttore tedesco di automobili Audi. Questa fabbrica costruisce le moto Ducati, le cui vendite sono sempre più esitanti. Audi ha perciò proposto al personale il seguente accordo: "La produzione verrà estesa a tre squadre, sette giorni su sette, in modo da ridurre i costi di produzione, cosa che aumenterà la competitività e dunque senza dubbio anche le vendite. Audi-Ducati promette che questa ristrutturazione darà luogo a numerosi nuovi posti di lavoro e a premi sostanziali per i risultati ottenuti."
Rilanciare così drasticamente la produzione in un contesto di caduta delle vendite, passando dalle precedenti 10/12 rotazioni di personale a quasi ventuno per settimana, sembra più che temerario. Ciò malgrado, l'autore dell'articolo non dubita nemmeno per un istante che questa cosa possa funzionare, e critica fortemente l'Italia per essere riluttante a stabilire presso di sé le condizioni della concorrenza globale: "Lavorare il fine settimana, questo non è certamente molto piacevole, solo che è qualcosa di quasi normale oggigiorno nella lotta concorrenziale mondiale sul mercato del lavoro. In Spagna, Renault ha creato 1.300 posti di lavoro con un simile combinazione. Bayer, il gigante della chimica, ha delocalizzato il suo sito di Leverkusen, in Germania, per poter concentrare l'insieme della produzione mondiale di aspirine nelle Asturie, nel nord della Spagna. In Italia, non si vede niente di simile." Nel caso della Ducati, in effetti, la proposta del lavoro domenicale si è scontrata con un "fronte unito degli operai e del clero", un'alleanza tra il dirigente del sindacato locale dei metalmeccanici, "noto per il suo parlar franco e per il suo fermo posizionamento a sinistra", e l'arcivescovo di Bologna.
Così abbiamo un articolo molto rivelatore: è l'esempio perfetto del modo in cui abbiamo diffuso l'idea che alcuni - la Germania in testa - avrebbero una ricetta infallibile da prescrivere ai paesi in crisi, e allo stesso tempo mette involontariamente in luce la ragione per cui questa ricetta non può funzionare. Il modello di riuscita tedesca riposa, ricordiamolo, su una combinazione di alta tecnologia e di (relativo) dumping salariale (N.d.T.: un processo attraverso il quale viene esercitata una pressione verso il basso del livello generale dei salari); in altre parole, su un'industria sempre più produttiva, in seno alla quale tuttavia i salari reali stagnano da vent'anni, addirittura in calo per quelli più modesti. A causa dell'orientamento verso l'esportazione che necessariamente implica, un tale modello esporta anche la disoccupazione e scarica così sugli altri le conseguenze della crisi. I paesi interessati non hanno mancato di criticare ripetutamente questa correlazione, ma Berlino ha sempre negato. Non abbiamo forse preso anche a casa nostra le misure che abbiamo imposto? Sta agli altri, ora, prendere esempio da noi che abbiamo avuto successo, e non il contrario, prego.
La ricetta, per risolvere la crisi, consiste nell'innalzare dappertutto la competitività, sostenendo che potremmo tutti diventare simultaneamente più competitivi. Ma, solo che da un punto di vista puramente logico, è una cosa impossibile poiché "competitivo" significa fare meglio degli altri. Nel concetto di competizione c'è in effetti l'idea che il miglioramento della situazione di uno viene fatto necessariamente a spese dei suoi concorrenti. Anche nell'esempio fornito dallo Spiegel, è del tutto chiaro: quando Renault, col suo modello di lavoro domenicale, crea in Spagna 1.300 posti di lavoro che gli devono permettere di produrre ad un costo inferiore rispetto a prima negli altri siti, si può star sicuri che questo si accompagna ad un dimagrimento su quegli altri siti. E se Bayer concentra la produzione mondiale di aspirina nelle Asturie, questo significa evidentemente che la detta produzione non si trova più altrove. In Germania, nonostante l'autosoddisfazione quasi generale, sembra ci sia sempre più paura che lo status di "grande vincitore della crisi" non sia affatto una conquista duratura: non dimentichiamo che la concorrenza non dorme, e perciò lavoriamo senza tregua con la nostra competitività. Le raccomandazioni che la Wirtschaftswoche ha fatto il 19 aprile al "paradiso tedesco" sono minacciose in tal senso: c'è urgenza di restringere i "benefici" dello stato sociale in tutti i settori che non apportano nessun contributo alla competitività locale. Ma in questo caso, perché non si fanno gli stessi passi che ha fatto la Grecia?
Le cause profonde della crisi globale, che allo stesso tempo sono anche le stesse della "eurocrisi", risiedono nel fatto che ci vuole sempre meno lavoro per produrre tutto, e che di conseguenza sempre più esseri umani diventano superflui dal punto di vista del capitalismo. Se appare indispensabile, agli occhi di un'impresa, di una regione o di un paese intero, ricadere in una tale situazione, per mantenere o migliorare la propria competitività, è certo che, quando tutti gli sforzi, dappertutto, sono andati in tale direzione, non ne può risultare altro che un aggravio della crisi. Quello che continua ad essere chiamato "crisi" diventa allora uno stato permanente. Senza che se ne veda la più piccola via d'uscita.
- Claus Peter Ortlieb - Apparso su Konkret - Giugno 2014 -
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