Forse è vero che quello che non riuscì 70 anni anni fa alla Germania con i tanks sta riuscendo ora con le banks, passate da imputate per la crisi a istituzioni da salvare pena il disastro finanziario. Tutto ciò avviene mentre assistiamo agli ultimi rantoli di un’ideologia neoliberista che, seppur smentita dalla matematica e dai fatti, continua a imporre l’austerità a tutta l’Europa. Ma se si vogliono salvare le banche senza toccare i deficit pubblici non esiste altra via se non quella di lasciare le banche in mano ai privati, trasferendo ai proprietari le risorse per tappare i buchi finanziari, togliendole a tutti gli altri.
Detto altrimenti: si è preferito mettere a rischio povertà milioni di europei piuttosto che nazionalizzare anche per pochi anni la parte meno sana del sistema finanziario. E i pessimi conti dell’economia ci danno solo una visione parziale della gravità della crisi, che fa cadere sì il Pil, ma soprattutto fa crollare il benessere e la qualità della vita.
Quella che si profila, se la politica (non solo economica) non cambia direzione in fretta, è una lunga depressione, un «decennio perduto», come lo chiama Joseph Stiglitz qui accanto. A sette anni dall’inizio della crisi, l’Italia e la «periferia» dell’Europa potrebbero aspettarsi altri anni di economia stagnante, imprese che non investono, fabbriche chiuse (la produzione industriale è del 25% inferiore al 2008), disoccupazione record, povertà che si allarga, mentre il 5% degli italiani più ricchi resta al riparo dei propri privilegi e i precari di oggi saranno i nuovi poveri di domani.
Ma il vero rischio è che non si colga la possibilità di un cambio di paradigma, di un nuovo modo di vivere e di produrre. Dobbiamo inventarci il futuro, certi che l’economia di domani sarà diversa da quella di oggi.
Quella chesi profila è un’«età ella depressione», un modello che mescola declino economico e speculazioni della finanza, una produzione ridotta all’osso e sempre più controllata dalle grandi imprese straniere, vecchi risparmi familiari che finanziano consumi impoveriti, in una società più disuguale, frammentata, disorientata. Una miscela esplosiva. Ma il futuro non è scritto. Se saremo capaci di redistribuire i redditi e i lavori, promuovere una società della conoscenza, produrre beni e non merci, insomma creare le condizioni per una società sostenibile, potremo avere un futuro diverso.
È il caso di iniziare a chiedersi se una costruzione politica come l’euro potrà reggersi solo sulla finanza, e che cosa accadrà in caso di crollo. E ad agire, prima di iniziare a contare i sopravvissuti (economici, spero). È urgente dunque riportare l’attenzione sui problemi reali dell’Europa e dell’Italia. A questo è servito l’incontro alla Camera dei deputati con Joseph Stiglitz di martedi scorso e a questo serve la conferenza di EuroMemorandum a Roma che si chiude oggi: cento economisti di quindici paesi diversi che ogni anno preparano un rapporto sulle alternative possibili alle politiche europee.
Purtroppo di tutto questo non pare esista traccia nel dibattito politico italiano o, se c’è, è molto ben nascosta. Se le priorità del governo di Matteo Renzi non fossero l’obbedienza alle politiche di austerità, le riforme liberiste e la cancellazione dei diritti del lavoro, sarebbe il momento di ascoltare le voci fuori dal coro. Le idee e le proposte su come cambiare rotta in Europa non mancano. Manca ancora la politica che voglia realizzarle.
Nessun commento:
Posta un commento