Mille giorni. L'elogio
del renzismo pronunciato da Renzi medesimo in parlamento è la retorica
distillata dei luoghi comuni della destra. Ma la rendita elettorale del
segretario del Pd potrebbe anche finire e la realtà infine bucare la
retorica. Certo, le elezioni anticipate potrebbe anche vincerle, finché
l'opposizione è rappresentata da Brunetta e l'informazione continua ad
accanirsi sulla verità
Non sempre la retorica è l’arte dell’occultamento della
verità, né l’abilità oratoria è sempre lo strumento di chi è a corto
di contenuti. Lo diventa però quando per 200 giorni il presidente
del consiglio continua a cantare la stessa canzone, o me o il
diluvio, aggiornandola con il refrain dei mille giorni che
cambieranno l’Italia e l’Europa. E se l’onorevole Renato Brunetta
polemizza con «l’aria fritta» del premier, questa volta bisogna
credergli essendo uno dei massimi esperti del ramo.
È la retorica distillata dei luoghi comuni della destra. Chi si
spacca la schiena e chi mangia tartine ai convegni. I manager
valorosi che mandano avanti l’industria, i magistrati che non
trovano di meglio che indagarli e i giornali che ne riferiscono.
Fino all’intramontabile slogan «questo è il paese che amo» da
contrapporre al lamento del “benaltrismo”.
Nel suo appassionato elogio del renzismo, Renzi si è rivolto
alla «sinistra più dura» un paio di volte, nel tentativo di mostrare
che quella vera siede a palazzo Chigi e ha le sue stelle polari nella
ministra Boschi e nel collega Poletti. La riduzione della
rappresentanza e la precarietà a vita costituirebbero i due
principali pilastri della costruzione della città futura. Come se
l’abolizione delle province e il declassamento del senato fossero
davvero «la più grande riduzione di ceto politico della storia».
I consiglieri provinciali, al contrario, sono sempre li, seppure
eletti dai politici locali (produzione di ceto politico a mezzo di
ceto politico) e così pure i senatori, dimezzati è vero, ma con
i poveri “gufi” della «sinistra più dura» che proponevano di
dimezzare anche i deputati senza tuttavia toccare il diritto di
eleggere il parlamento.
L’occultamento della verità prosegue nel secondo capitolo della
rivoluzione renziana, quando, nel passaggio che riguarda la
«riforma» del lavoro, il premier non esita e minaccia «misure
d’urgenza» per cambiare lo statuto dei lavoratori, cioè per abolire
l’articolo 18, spacciando la campagna estiva della destra di Alfano
e Sacconi, e l’obbedienza ai diktat di Draghi e Merkel, come una
«battaglia contro l’ingiustizia».
In questo caso la figura retorica che avvolge la linea d’attacco ai
diritti acquisiti è quella della giovane madre precaria che non ha
quelle tutele che invece possiede la giovane lavoratrice
dipendente. E allora togliamo i diritti a chi ce l’ha e finalmente
trionferà la giustizia sociale.
È vero, la rendita di posizione è finita per tutti, come avverte il
presidente-segretario. Gli indicatori economici che ogni giorno
suonano la campana a morto non mancano di ricordarcelo: o tagliate
i diritti e il costo del lavoro o sarete commissariati. Ma la
rendita elettorale (quei 10 milioni di elettori beneficiati dagli
80 euro) potrebbe finire anche per questo governo. «Non ho paura di
andare alle elezioni» ha esordito Renzi nel suo discorso e «sono
disposto a rischiare il consenso per attuare il mio programma».
In verità si tratta di un pericolo remoto in ogni caso, ove cedesse
alla tentazione delle urne, se l’opposizione è rappresentata da
Brunetta e se l’informazione continuerà ad accanirsi (il Tg7 di metà
mattina: «Il premier ha parlato in un clima di non pieno consenso
del parlamento»), in effetti le elezioni potrebbe anche vincerle.
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