È
ripartita, come prevedibile, la crociata contro le imprese partecipate
dallo Stato – quelle imprese, cioè, “normali”, o “private” da un punto
di vista del diritto, ma tra i cui azionisti figura lo Stato in una
delle sue declinazioni a livello locale (quando è l’azionista
prevalente, dovrebbero dirsi “controllate”). Del resto, per garantire
coperture impossibili alle sue goffe misure di politica economica, il
governo dimostra tutta la sua scarsa originalità e innovazione
promettendo ancora una volta di eliminare la “spesa pubblica
improduttiva”. Nel tentativo di dare un volto a questa creatura
mitologica (forse Renzi pensava di trovare nel bilancio dello Stato la
voce “spesa improduttiva”, da tagliare sic et simpliciter), torna buona
la bestia delle partecipate. Non solo – ci tiene a dirci Repubblica – esse sono tutte in perdita:ma la perdita sarebbe addirittura proporzionale alla presenza dello Stato!
Del resto, l’equazione è da prima elementare: se pubblico = brutto,
allora + pubblico = + brutto. Talmente vero che entra in 140 caratteri, e
se la metti su una slide lascia tanto spazio per le foto.
A prescindere dalla serietà di un governo che promette di coprire
spese certe con tagli tutti da definire, sembra necessario provare a
decostruire questa continua narrazione. Difficilmente otterremo
l’ascolto del governo, ma speriamo almeno di aiutare i lettori di
Repubblica a capire se dar retta o meno alla nuova editorialista,
l’economista italo-americana Mariana Mazzucato, che proprio dalle colonne di quel giornale tenta di sostenere opinioni ben diverse.
Non si tratta di difendere l'indifendibile, bensì di riaffermare
l'ovvio. In primo luogo, un’ovvietà economica che – nella teoria
neoclassica (volgarmente detta “liberista”) che considera lo Stato come
necessariamente inefficiente e/o corrotto a fronte di un privato fonte
di ogni santità – è alla base stessa dell’intervento dello Stato
nell’economia. Si tratta dei cosiddetti "fallimenti di mercato": così
come esistono mercati dove la struttura della domanda e dell’offerta
porta ai cosiddetti "monopoli naturali", e dove cioè la concorrenza non
c’è perché proprio non può esserci (ci torneremo…), vi sono altri
mercati in cui il privato non fornisce la quantità di beni necessaria
alla società. L’esempio da manuale è quello di un faro: nessun
imprenditore costruisce fari, visto che non si può imporre ad una nave
di pagarne il prezzo; ma senza fari la navigazione non sarebbe sicura, e
questo danneggerebbe molti altri imprenditori, oltre ai lavoratori e da
ultimo, i consumatori. Il faro è dunque quello che gli economisti
definiscono “bene pubblico”.
Un esempio meno da manuale è proprio quello che suggerisce Repubblica: la Cotral,
compagnia di trasporti regionali del Lazio. La Cotral non è certo amata
dai suoi clienti, ma c’è un motivo ben preciso per cui non la mollano:
non possono permettersi di andare in auto, e non esiste nessun privato
disposto a fornire i servizi di trasporto pubblico locale che Cotral
garantisce al prezzo sostenibile dai pendolari. La corriera serve a
tutti – ai pendolari e a chi li impiega – e ogni riduzione delle corse
comporta costi per la società. Se poi si considera l’unica alternativa
concreta – migliaia di automobili private in più sulle strade del Lazio –
sembra verosimile considerare anche il trasporto pubblico un bene
pubblico, nonostante qualche economista possa storcere il naso.
Ma il corollario di “bene pubblico”, anche se non viene espressamente
pronunciato, è che per lo Stato sia una perdita secca. Se è possibile
(attraverso i biglietti) rientrare di parte dei costi (o, direbbero i
neoclassici più puristi, assicurarsi che a prendere il pullman sia solo
chi ha più urgenza/bisogno), un servizio pubblico è per definizione
in perdita. Se così non fosse, ci dice la teoria neoclassica, avremmo
decine di compagnie private, e sui vecchi pullman blu della Cotral non
ci salirebbe più nessuno. Appuntamento domattina alle 7.00 alla stazione degli autobus Anagnina a Roma per la verifica empirica.
Questo non vuol dire rassegnarsi ad una gestione sconclusionata delle
aziende pubbliche: proprio il trasporto pubblico romano ne è l’esempio,
e in passato non siamo certo stati teneri nei suoi confronti.
Le aziende possono, in primo luogo, fornire servizi efficienti – e le
aziende di trasporto romane non lo fanno; possono ridurre i passivi
evitando di pagare – come fanno le aziende romane – stipendi milionari a
dirigenti dalle dubbie qualità; ma il fatto che un’azienda che opera
nell’interesse pubblico sia in perdita non può costituire una sorpresa.
Certo, ci sono esempi di società di servizi pubblici in attivo:
laddove non si consideri il pubblico come male assoluto, e si promuovano
nel contempo le capacità imprenditoriali dei dipendenti, le aziende
pubbliche possono operare anche in mercati “normali”, sfruttando le loro
competenze, per recuperare altrove i costi dei servizi pubblici da
garantire. È il caso dell’Alta Velocità, che permette alle Ferrovie
dello Stato di restare in attivo nonostante ciò che resta del servizio regionale.
Proprio questo ci porta alla seconda ovvietà. Non ci vuole grande
coraggio intellettuale a dire che il pubblico italiano nel suo complesso
è inefficiente. Grandi economisti legati al movimento operaio come Augusto Graziani, del resto, hanno denunciato da tempo l'uso che del pubblico si è fatto nel dopoguerra italiano,
come valvola di sfogo per la disoccupazione e strumento di alleviamento
delle tensioni sociali in alternativa ad interventi risoluti e diretti
volti ad eliminare le cause profonde del dualismo economico italiano. È
dunque possibile sostenere il ruolo del pubblico nell’economia e
condannare l’esperienza storica del clientelismo democristiano, senza
alcuna contraddizione logica, almeno quanto è possibile sostenere la
superiorità del privato nel Paese delle Parmalat, delle mafie, dei
biocidi e del CEPU.
Ciononostante, sarebbe folle pensare che tutto l’intervento pubblico
italiano sia stato improduttivo, a meno di ignorare che è per larga
parte merito di quell’intervento se l’economia italiana è passata
nell’arco di pochi decenni, come ha sintetizzato la storica Vera
Zamagni, “dalla periferia al centro” del sistema economico mondiale.
Proprio negli ultimi vent’anni di declino, con operazioni frettolose,
ideologiche e prive di visione complessiva, si è svenduto tutto il
possibile. Si è cominciato con le “privatizzazioni senza
liberalizzazioni”, che hanno consegnato al privato i monopolisti
pubblici (Telecom, Autostrade), senza che questo generasse grandi
vantaggi per i consumatori. Quando poi si è tentato di difendere
l’«italianità» delle partecipate – capita che, se si rinnega l’idea di
conflitto sociale, si confonda l’interesse pubblico con quello nazionale
– si sono prodotte perdite ben maggiori (Alitalia). I comuni hanno
seguito l’esempio privatizzando le municipalizzate – con effetti tali da
spingere 26 milioni di italiani a votare per farle tornare in mano
pubblica. Addirittura, si è permesso ai privati di soffiare alle
partecipate le poche attività redditizie, come l’alta velocità di cui
sopra: come se fosse “concorrenziale” un mercato in cui lo Stato paga le
ferrovie, le stazioni e il trasporto regionale, e uno dei più ricchi
industriali italiani può provare a rubargli l’unica fonte di profitto
(per di più con treni della francese Alstom che, beffa delle beffe, è stata nazionalizzata a giugno dall’ex ministro dell’Economia Montebourg).
Del resto, come scrivevamo sopra, ci sono settori in cui la concorrenza
non può esserci, e se c’è fa danni: nel Regno Unito, uno dei pochi e
celebri casi in cui si è provato a privatizzare le ferrovie, se ne sono
dolorosamente accorti (1) (2) – e pare che anche Montezemolo non se la passi molto bene. In ogni caso, resta tutto da verificare se si sia realizzato almeno l’obiettivo (ribadito al Financial Times) di fare cassa,
e viene il sospetto, anzi, che queste operazioni – sottraendo risorse
ai cittadini in via diretta (più tasse) e indiretta (meno servizi) e
regalandone ai privati – abbiano contribuito ad aumentare la
disuguaglianza.
Dagli anni ’90 a oggi, volendo farla molto semplice, si è tentato di
cedere ai privati tutto o gran parte di ciò che era in attivo e/o che
poteva costituire una fonte di rendita. La correlazione sottolineata da
Repubblica è dunque da leggere al contrario: il rapace e parassitario
ceto imprenditoriale italiano si è spartito quel che c’era di buono,
lasciandoci solo ciò che non poteva esser messo a profitto. Sicuramente
la questione dell’efficienza della pubblica amministrazione è
fondamentale – soprattutto per chi crede sia necessario proporre
alternative politiche e culturali al mantra dello Stato minimo – e il
mondo delle partecipazioni pubbliche è tutt’altro che esente dalla
pervasività degli interessi dei partiti. Ma questo è purtroppo vero per
tutta la società e l’economia italiana – e un evento che apparentemente
riguardava il solo ambito sportivo, come l’elezione del Presidente della
Lega Calcio, ce lo ha ricordato, portando alla ribalta persino il
vintage DC di Carraro, Matarrese e dello stesso Tavecchio.
In questo senso, l’attacco alle partecipate va letto per quello che
è: l’ennesima offensiva a qualsiasi tentativo dello Stato di intervenire
nell’economia, orientando l’economia in direzione della crescita e
soprattutto dello sviluppo, e riducendo le disuguaglianze e le storture
sociali prodotte da un settore privato tutt’altro che concorrenziale
come quello italiano.
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