Riforme . Dal
senato alla pubblica amministrazione, passando per la legge elettorale,
Renzi stringe le maglie dell’assetto democratico per un controllo
autoritario del malessere sociale
Da Bologna Renzi ci ha servito l’usuale mix di battute
e frasi a effetto. Risultato elettorale da brividi, la salvezza del
paese è nelle nostre mani e non in quelle dell’Europa, gli 80 euro in
busta paga sono un fatto di equità sociale, eguaglianza e non
egualitarismo, no a modelli cinesi del lavoro, niente lezioni dai
tecnici della I Repubblica, riforme a ogni costo, basta gufi e così
via. L’appuntamento è al 2017. In politica – per non scadere nella
pubblicità ingannevole — sarebbe buona cosa non discostarsi troppo
dal già detto e dall’evidenza.
Berlusconi è stato maestro nell’inosservanza di questa regola,
che in paesi più seri del nostro è parametro
per la valutazione dell’agire
politico di chiunque. Renzi merita un dottorato. L’elenco delle
parole e degli annunci smentiti dai fatti o da lui stesso è lungo.
L’unica realtà certa è che i parametri europei rimangono fermi,
e che per rientrarvi si rendono necessarie misure pesanti, come
l’ulteriore blocco degli stipendi degli statali. Non basta
a giustificarlo la battuta – offensiva per tanti – che nella
pubblica amministrazione c’è grasso che cola.
E la tanto auspicata flessibilità? Al momento, l’unica che si
vede in concreto è quella che si vuole calare sul lavoro. La prova
è nei discorsi di Draghi, di Visco, e nelle ripetute indicazioni che
vengono dal mondo della finanza e degli affari. Lo stesso Renzi ha
lodato il modello tedesco, dimenticandone il piatto forte: milioni
di similcinesi mini-jobs precari e a salari da fame. La
disoccupazione scende nelle statistiche, il costo sociale sale.
Padoan ci dice da Cernobbio che ci vorranno almeno tre anni – non
più due – per vedere i primi effetti delle riforme. Ma di quali riforme
si parla? Quelle concretamente messe in campo fin qui sono volte
a ristrutturare l’architettura dei poteri piuttosto che a riportare
il paese in un ciclo economico virtuoso uscendo dalla tenaglia
deflazione-recessione. Perché? Più che contrastare la crisi, sembra
che si voglia disegnare il paese del post-crisi.
Si coglie un disegno negli interventi già in discussione. Con la
riforma costituzionale la rappresentatività del parlamento si
indebolisce, con l’azzeramento politico-istituzionale del senato. Si
attribuiscono al governo poteri sull’agenda dei lavori
parlamentari, inclusa una sorta di ghigliottina permanente. Gli
istituti di democrazia diretta sono resi ancor meno accessibili.
Con la legge elettorale iper-maggioritaria si colpisce la
rappresentatività della camera, puntando tutto sul partito che ha
più voti e sullo schiacciamento delle opposizioni, oltre che
sull’esclusione dalla rappresentanza dei soggetti politici minori.
La maggioranza parlamentare è rimessa nelle mani del leader,
attraverso liste bloccate. Con la riforma della PA una delega legislativa vuole tra l’altro rafforzare
il primo ministro nell’ambito dell’esecutivo. Hanno infine un ruolo in
questo scenario generale primarie aperte che marginalizzano il
ruolo delle organizzazioni di partito e degli iscritti, mentre le
organizzazioni sindacali sono messe nell’angolo escludendo ogni
forma di concertazione.
Può darsi che qualcosa cambi, ma al momento è così. Nessuno dei
punti menzionati sarebbe decisivo di per sé. Ma è cruciale coglierne
la sinergia, che definisce l’effetto ultimo di una forte
concentrazione del potere sul governo, e in particolare sul
leader. È il disegno di un populismo fondato sul circuito diretto
tra leader e popolo, senza intermediazioni. Il leader diventa il
paterno custode dei diritti e delle libertà di tutti.
È autoritarismo soft? In fondo, è questione di parole. Di certo,
è un disegno che ci viene direttamente dalla I Repubblica. Se ne
coglie l’eco in Craxi negli anni ’80, in Gelli, in Cossiga, e infine in
Berlusconi. Sono questi gli antenati del Renzi-pensiero in tema di
istituzioni.
Questo disegno i tecnici della I Repubblica malmenati da Renzi –
o almeno alcuni – l’avevano ben colto. Lo contrastavano perché non
democratico, e certamente incostituzionale nella sua essenza. La
Costituzione si fonda sul concetto che il potere politico deve
essere distribuito, contendibile e responsabile in ogni momento
e in ogni sede, non certo iper-personalizzato e assoggettato
a verifiche periodiche su base pluriennale, prima delle quali il
principio di fondo è mani libere per chi lo detiene.
È questo il modello istituzionale che si ritiene necessario
e utile per affrontare la crisi? Concentrare il potere e ridurre la
partecipazione per evitare che un popolo troppo sovrano possa
sottoporre la barchetta dell’esecutivo a scossoni troppo
pericolosi? Non saremo mai d’accordo. Rimaniamo dell’idea che il
miglior modo per affrontare difficoltà e sacrifici con soluzioni
non precarie sia quello della discussione, del confronto e se
necessario della mediazione e del compromesso. In una parola, la
democrazia.
E se il disegno fallisse? Padoan vorrebbe ora dall’Europa
parametri per misurare la propensione alle riforme di ogni paese.
Ma non ci avevano detto che siamo padroni del nostro destino? Suvvia,
non è come essere commissariati d’autorità. Noi decidiamo
liberamente di essere commissariati.
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