Se
perfino il più alto pastore della chiesa cattolica parla di terza
guerra mondiale in corso, «a pezzi», non ancora globale, e allerta il
suo gregge contro i lupi della guerra, gli spacciatori di armi, gli
speculatori finanziari, i politicanti corrotti, e cerca di svegliare le
sue pecore dal torpore servile e connivente, la situazione del mondo è
davvero grave.
Non bastano i disastri ambientali del «progresso»
capitalistico che stanno distruggendo il pianeta, non bastano le
tragedie delle migrazioni forzate di terra in terra in ogni direzione,
non bastano le mutazioni antropologiche indotte dal «mercato», a
trasformare in scimmie pseudotecnologiche gli esseri umani, a farne
macchine per il consumo; tutto questo non basta, servono guerre e grandi
devastazioni, per impadronirsi delle risorse energetiche e contenere la
sovrappopolazione. E bisogna fare in fretta.
Il quadro geopolitico è drammaticamente chiaro:
alla crisi strutturale del capitalismo finanziario, che da tempo ha
superato i suoi limiti di «sviluppo sostenibile», l’Occidente
statunitense ed europeo (ne fa parte anche Israele) risponde con
strategie di aggressione e dominio, disgregando stati, disarticolando
assetti istituzionali, intervenendo militarmente (direttamente o per
procura) e attraverso le armi delle campagne mediatiche: la distruzione
dell’Iraq, le «primavere» arabe per distruggere la Libia e la Siria, per
normalizzare l’Egitto, la «primavera» ucraina per allargare ad est la
Nato e l’area di «libero mercato» del trattato transatlantico, il
massacro di Gaza per fiaccare la resistenza all’occupazione, prevenire
gli accordi tra il governo palestinese e la Cina e sabotare
l’istituzione di uno stato palestinese.
Bisogna «fare in fretta» perché il terrorismo
occidentale sta incontrando crescenti reazioni, e la strategia del caos,
figlia del pragmatismo statunitense e ispirata al vecchio adagio divide et impera
declinato da un’oligarchia incolta e senza storia, ha il respiro corto e
rivela facilmente i suoi congegni: esemplare la vicenda dell’Isis,
organizzato e finanziato dagli Stati uniti contro la Siria nel disegno
di disgregare ogni assetto statuale nell’area Iraq-Siria-Iran e di
eliminare una retrovia storica dei palestinesi; oggi l’Isis, con il suo
sedicente stato islamico, è presentato dai media occidentali come la più
feroce minaccia all’Occidente, ma è davvero così? Con il pretesto di
salvare l’umanità dai crimini dell’Isis, nel suo ultimo discorso alla
nazione il premio Nobel per la pace Obama si è riservato una guerra di
lunga durata, a partire dai bombardamenti del territorio siriano e dal
sostegno agli «islamici moderati» contro l’esercito siriano. Anche i
combattenti dell’Isis erano stati definiti «moderati» all’inizio della
campagna americana contro la Siria, e la decisione di bombardare
l’esercito siriano era già stata presa da Obama nel 2013, costretto a
rinviarla per le reazioni internazionali. Ancora pretesti: l’assassinio
dei tre giovani israeliani in Cisgiordania fu immediatamente attribuito
ad Hamas e innescò l’attacco al ghetto di Gaza (2000 morti, di cui 500
bambini); quel delitto, al quale Hamas si è sempre dichiarata estranea,
si è rivelato un ottimo investimento per il governo israeliano, che
notoriamente infiltra propri agenti provocatori nella galassia delle
formazioni palestinesi.
La Siria resiste, i palestinesi resistono (e si
sono rafforzati i legami tra i palestinesi di Gaza e della
Cisgiordania), resistono gli ucraini russofoni della Crimea e dell’Est.
In Ucraina il colpo di stato organizzato dalla Nato ha provocato un duro
confronto con la Russia e un rafforzamento delle relazioni economiche e
militari tra Russia e Cina, e ancora una volta la strategia geopolitica
americano-europea è rimasta prigioniera della propria miopia: dietro il
potere oligarchico della Russia di Putin è viva e profonda l’esperienza
dell’Unione sovietica, sotterranea e carsica dopo il 1989 e i disastri
liberisti che ne sono seguiti; contro i «fascisti» di Kiev, contro i
bombardamenti su Donetsk, l’antifascismo popolare è riemerso con tutta
la sua forza. Sullo sfondo di questo scenario agisce la vera
contraddizione principale della guerra economica tra Stati Uniti e Cina,
e contro il trattato transatlantico di libero scambio (l’area del
mercato di 800 milioni di consumatori che dovrebbe costituire la
retrovia strategica degli Stati Uniti e dell’Europa) si sta rafforzando
l’asse dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al quale si
sta collegando la Turchia e che esercita un’influenza crescente in
America latina, Asia e Africa; il governo irakeno di Al Maliki è stato
abbattuto alla vigilia di relazioni economiche con la Cina, e tra le
vere cause dell’operazione militare israeliana contro il ghetto di Gaza
c’è stato il tentativo di bloccare un accordo tra il governo palestinese
e la Cina per lo sfruttamento di un importante giacimento petrolifero
marino.
Lo sviluppo del capitalismo finanziario
occidentale ha ormai superato i suoi limiti strutturali, l’impero
americano è in crisi e non basterà incrementare il fatturato
dell’industria militare; la moltiplicazione dei fronti di guerra
comporterà costi insostenibili, e c’è un limite anche a questo. Il modo
di produzione capitalistico sta entrando nella fase dell’autofagia
distruttiva. Si apre una fase di necessaria trasformazione di quel modo
di produzione ed è e sarà questo il terreno di confronto e conflitto a
livello internazionale. Il mondo (il pianeta) dovrà seguire altre
strade, di altra economia, di altre modalità sociali e statuali,
ripensando profondamente la sua storia, le esperienze economiche e
sociali del passato, a partire dai tentativi abortiti del socialismo
sovietico e dalla loro diaspora ereticale negli anni trenta del
Novecento. Altre esperienze importanti sono quelle tentate negli anni
sessanta dai movimenti di liberazione in Africa, Asia e America latina,
con i loro esiti attuali. Bisogna tornare a scuola di progettualità
politica, rimettere al centro dell’elaborazione teorica l’analisi
storica ed economica in funzione dell’organizzazione politica
rivoluzionaria, socialista e internazionalista. Questo sta accadendo in
ogni area del mondo. Servono collegamenti, informazioni, iniziative
comuni in funzione di una nuova internazionale dell’egualitarismo, della
democrazia (democrazia diretta e controllo dal basso dei poteri
delegati) e del socialismo (massimo socialismo, massima libertà).
Parlare dell’Italia in questo quadro geopolitico e
di potenzialità di cambiamento può sembrare perfino imbarazzante. Il
paese è in recessione, totalmente subalterno alle strategie americane e
dell’Europa del nord, commissariato dall’Unione europea a guida tedesca.
La struttura industriale basata su imprese piccole e medie non permette
operazioni di «innovazione competitiva», l’enorme e incontrollabile
debito pubblico non permette politiche di investimento, il rapporto con
gli investitori stranieri può avvenire solo sul terreno della svendita
dei beni pubblici. La Grecia è vicina, il modello sperimentato
dall’Unione europea in Grecia è di fatto già applicato anche all’Italia:
precarizzazione del lavoro e abbattimento del suo costo,
definanziamento della macchina della pubblica amministrazione e dei
servizi pubblici (scuola, sanità), privatizzazioni, concentrazione di
risorse in grandi opere speculative, collusione con i grandi evasori
fiscali e con le reti economiche della criminalità (l’economia illegale
che costituisce comunque una voce importante del Pil, da far valere a
Bruxelles). Il processo, iniziato negli anni ottanta, sviluppato nel
ventennio berlusconiano e dai successivi governi «europei» di Monti e
Letta, è oggi portato avanti dai teppisti dell’attuale governo
decisamente «americano». La fretta del garzone di Pontassieve nel
manomettere la Costituzione per concentrare il potere nell’oligarchia
stracciona del paese e ridurre i controlli istituzionali sulla base del
«patto del Lazzarone» e sulla linea della P2 di Gelli, l’attacco
sistematico alla scuola pubblica, alla pubblica amministrazione, il
ruolo attivo nel coinvolgimento dell’Italia nelle operazioni di guerra
del padrone americano e dei suoi complici (i caccia israeliani si
addestrano in Sardegna), sono tutte operazioni di tradimento della
Costituzione e degli interessi del paese.
E gli «italiani»? La nazionale arte di
arrangiarsi e di sopravvivere concede ancora qualche margine di manovra;
si può ancora seguire con disincanto e rassegnazione lo spettacolo
miserabile di una politica ridotta a «cosa nostra», rimbambiti dalle
armi di distrazione di massa di un’informazione ridotta a spazzatura
(dalla cronaca nera all’eroismo dei due marò), prigionieri
dell’ignoranza e dell’incultura. I drammi avvengono sempre altrove e non
ci riguardano.
Siamo nell’occhio del ciclone, qui c’è pace, per ora. Ma
non sarà così.
I senza voce (nelle periferie urbane, nell’immensa e
dispersa provincia italiana) tacciono, ma è il silenzio di chi non ha
più nessuna rappresentanza politica, in una sorta di terra di nessuno.
Tra le vite dei singoli e un potere ostile, indifferente alla sorte dei
giovani precari, degli operai schiavizzati, dei dipendenti pubblici
criminalizzati, dei disoccupati cronici, non ci sono più mediazioni
credibili. Durerà poco il preteso consenso plebiscitario del 41% alle
elezioni europee (poco più del 20% dei voti degli aventi diritto, un
italiano su cinque), durerà poco la trovata (voto di scambio) degli 80
euro alla base elettorale di riferimento.
Le «riforme» del piazzista di Pontassieve sono
parole al vento, imbrogli per chi vuole farsi imbrogliare, non ci sarà
«crescita», i poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più
ricchi, protetti e garantiti. Tornerà presto il tempo della barbarie,
anche nell’occhio del ciclone. E sarà drammaticamente attuale
l’alternativa luxemborghiana «socialismo o barbarie».
Da questa crisi,
non riformabile, crisi di sistema, si potrà uscire in due sole
direzioni: la militarizzazione del territorio italiano, il fascismo e la
guerra civile, o una democrazia ricostruita dal basso, socialista e
internazionalista: è questa l’anima, sotterranea e profonda, carsica,
dell’Italia migliore, che riemerge più o meno spontaneamente in tante
esperienze di base, locali e frammentarie ma importanti,
dell’opposizione sociale ai disegni di un potere criminale. L’ultimo
segnale, in questi giorni, viene dalla Sardegna: contro le basi
militari, contro le «servitù» di guerra, erano tanti in piazza a Capo
Frasca, il 13 settembre, a dire NO. E dal 15 settembre sono riaperte le
scuole pubbliche, i nostri laboratori più importanti per la formazione
di soggettività consapevoli e autonome. In questi stessi giorni il
trombone di Pontassieve comincia a essere fischiato ovunque si esibisca:
la caccia è aperta.
Un altro segnale, del tutto diverso, viene
dall’area tra Siria, Libano, Iraq e Kurdistan: il 13 settembre, su
iniziativa del Fronte al-Nusra di ispirazione quaedista, l’Isis e le
formazioni islamiste «moderate» tra cui il Fronte rivoluzionario siriano
collegato all’Esercito libero, braccio armato di quella Coalizione
nazionale che dal 2012 è considerata dall’Occidente la legittima
rappresentante del popolo siriano, e per questo sostenuta e armata dagli
Stati uniti e dall’Europa, hanno firmato un patto di non aggressione,
per concentrare l’attività militare sull’esercito di Assad che ha
ripreso il controllo su buona parte del nord del paese. Così i
«tagliagole» dell’Isis diventano alleati degli Stati uniti nella vera
partita sul campo: la disarticolazione dello stato siriano (ma la
partita è ancora tutta da giocare sia sul campo che a livello
internazionale, dove ancora una volta Russia e Cina sono in conflitto
con gli Stati Uniti e l’Europa) e il controllo dell’intera area in
funzione antiraniana.
E l’Italia del partito unico di
Napolitano-Berlusconi-Renzi? L’invio simbolico di armi ai kurdi perché
si facciano ammazzare per gli interessi occidentali e la dichiarata
volontà di partecipazione alla coalizione anti-Isis ma in realtà
antisiriana, una politica filoisraeliana, le bellicose dichiarazioni
antirusse del grande stratega di Pontassieve (da cui si dissocia
Berlusconi perché pensa ai propri affari), sono certamente il ruggito di
un topo, ma coinvolgono tutto il paese nel duro e irresponsabile
confronto militare tra Occidente e mondo islamico. La quiete nell’occhio
del ciclone si sta facendo sempre più improbabile.
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