I dati drammatici sull’Italia . Lo stato del mercato del lavoro italiano è critico. Lo dice l’Ocse nel rapporto annuale 2014. 6 milioni di persone senza lavoro né reddito
Lo
stato del mercato del lavoro italiano è drammatico. Lo dice l’Ocse
nel rapporto annuale 2014. Le condizioni dei giovani sul mercato
peggiorano, aumenta la disoccupazione e chi sta fuori dal mercato
sta persino peggio.
Il lavoro subordinato svolto dalle finte attività autonome rimane elevatissimo. Il numero dei Neet
aumenta: giovani senza lavoro, non studiano, non sono in
formazione, e neppure cercano lavoro. Il sistema di protezione
sociale è inefficiente ed iniquo. Pure gli occupati pseudo
«garantiti» peggiorano le loro condizioni perché dopo sette anni
di crisi economica le imprese chiudono. Il lavoro non standard con
basse tutele sostituisce quello standard, le retribuzioni si
abbassano e così pure la produttività, le motivazioni
e soddisfazioni a lavorare bene e meglio, mentre aumenta stress,
pressione, insicurezza. Le persone con formazione, istruite
e qualificate, svolgono spesso funzioni e compiti al di sotto
delle competenze acquisite, perché l’impresa italiana domanda
lavoro a bassa produttività e con basse competenze.
Sono più di 6 milioni gli italiani involontariamente privati di lavoro e di reddito
Stima l’Ocse che la «disoccupazione
strutturale» è aumentata e difficilmente verrà riassorbita con
il ritorno alla crescita. Ci dovremmo abituare a convivere con una
disoccupazione del 10–12%. Uno scenario da incubo: se aggiungiamo
i Neets, gli inattivi perché scoraggiati, gli inoccupabili
perché fuori mercato e i «rottamati» come gli «esodati» e gli
«esondanti», superiamo i 6 milioni di persone involontariamente
private di lavoro e reddito.
L’aumento della disoccupazione
strutturale ha effetti di non poco conto sugli Obiettivi di Medio
Termine per il consolidamento fiscale e Fiscal Compact:
il gap tra tasso di disoccupazione strutturale disoccupazione
effettiva si riduce e quindi diminuiscono i margini della politica
economica, degli strumenti keynesiani, della domanda pubblica che
implica minore spazio per fare politiche di struttura per
l’industria.
Se si tolgono questi strumenti dal
lato della domanda pubblica, rimangono sul tavolo solo le ricette di
meno tasse con tagli della spesa, per soddisfare i vincoli di
bilancio, e quindi di riforme strutturali del lavoro per introdurre
più flessibilità. La politica economica si risolve tutto qui:
flessibilità del lavoro alla massima velocità. Non c’è spazio né
per Keynes né per Schumpeter.
E infatti l’Ocse propone una unica
ricetta salvifica: più flessibilità di mercato, meno regole per
assunzioni e licenziamenti. Torna il «tempo delle mele»: ulteriore
revisione dell’art. 18 dopo la legge Monti-Fornero del 2012. Chi viene
ingiustamente licenziato non deve più godere di alcun diritto
a essere reintegrato, ma solo un indennizzo automatico in funzione
dell’anzianità lavorativa, senza appello perché i giudici del
lavoro tutelano la parte debole, il lavoratore, e fanno crescere
i costi per l’impresa. Limitare il diritto di reintegro al
licenziamento discriminatorio significa la cancellazione di
quel diritto tout court: solo un imprenditore stupido licenzierebbe
con motivazione esplicitamente sindacale, politica, razziale,
di genere. Scambio «diritti contro denaro», questa è la ricetta
occupazionale dell’Ocse.
Che la flessibilità abbia prodotto
più precarietà e incertezza sulle condizioni lavorative, meno
motivazioni sul lavoro, poco importa. Non aiuta l’occupazione ma la
sostituzione di lavoro stabile e di certa retribuzione con lavoro
instabile a poco prezzo che sono «trappola» della precarietà. La
facile licenziabilità in tempo di crisi produce un aumento della
disoccupazione, mancando il lavoro perché manca la domanda.
Che ciò accresca la «trappola della
bassa produttività», altro male tipicamente italiano causato non
da troppe regole e tutele ma da poca innovazione nei luoghi di lavoro
e nell’organizzazione del lavoro, innovazione soprattutto di
prodotto, anzi produca un incentivo a non investire, ad usare lavoro
a basso costo e scarsa produttività, è una delle incoerenze di
quanto ci viene propinato da lungo tempo. Una ricetta miope
e perniciosa.
Si chiede che il Jobs Act
riveda le norme sul lavoro, renda ancora più flessibili gli ingressi
e le uscite, semplifichi le norme, abbassi il prezzo del lavoro,
riduca il dualismo tra protetti e non protetti portando le tutele
dei primi al livello delle non-tutele dei secondi.
È una narrazione già letta e provata: non ha generato nulla di buono, solo effetti negativi su equità e efficienza.
Perché allora perseverare? Chi ci
guadagna da questa politica senza principi economici fondanti?
Quali sono quegli «interessi costituiti» di cui parlava Keynes che
disegnano la politica economica contro la «progressiva
estensione delle idee»? Ha forse ragione Krugman quando afferma che
«quando i miti economici persistono, di solito la spiegazione
risiede nella politica, ed in particolare negli interessi di
classe».
Paolo Pini - il manifesto
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