Guai a pensare che i problemi siano risolti. Neanche gli
Stati Uniti, che sembravano aver imboccato la strada che porta fuori
della crisi, ne sono usciti davvero.
I dati sull'occupazione, resi noti ieri sera come da tradizione (il
primo venerdì del mese), hanno rivelato una creazione di nuovi posti di
lavoro del 50% inferiore rispetto alle attese: 126mila invece di
245mila. Peggio ancora. I dati di gennaio e febbraio sono stati rivisti
al ribasso, scendendo dunque rispettivamente da 239mila a 201mila e da
295mila a 264mila. Il tasso di disoccupazione è rimasto però al 5,5% e
quello di occupazione (la percentuale di persone in età da lavoro che
hanno un'occupazione) è sceso dal 62,8 al 62,7%.
C'è da sapere che gli Stati Uniti sono acora terra di immigrazione,
specie dal Messico e dal CentroAmerica, anche se non nelle dimensioni
del lontano passato. Quindi la creazione di nuovi posti di lavoro
dovrebbe essere intorno alle 200.000 unità al mese per tenere il passo
con la cescita della popolazione. Se si creano di meno, come a marzo, il
tasso di disoccupazione ufficiale tende alla lunga ad aumentare.
Altro elemento costante nella creazione di nuova occupazione negli
Usa è il fatto che si tratta quasi sempre di posti temporanei, precari, a
bassa qualificazione (ristorazione, grande distribuzione, sanità, ecc).
In questo frangente, oltretutto, anche il settore pubblico ha smesso di
assumere (dopo il breve rimbalzo dovuto all'introduzione
dell'Obamacare, che aveva portato a un'espansione dei servizi sanitari).
Anzi, ha messo fuori circa 3.000 persone in marzo.
Il dato che balza però agli occhi – utile a illuminare sulle menzogne
statistiche – è il divario mostruoso tra popolazione in età da lavoro
(fatta uguale a 100), il tasso di occupazione (62,7) e quellodi
disoccupazione (5,5). In pratica, quasi 32 persone su 100, negli Stati
Uniti, non hanno un lavoro e neanche più lo cercano. In realtà sono un
po' di meno, visto che i dati (non farm payrolls) non tengono conto del settore agricolo (farm);
ma, come in tutti i paesi avanzati, il “settore primario” è altamente
meccanizzato e suscettibile di occupazione su base stagionale, comunque
non molto rilevante a livello statistico (meno dell'1%, secondo il
Dipartimento dell'agricoltura) e in costante diminuzione.
Dunque, calcolando che la popolazione totale degli States sfiora
i 320 milioni, che la popolazione in età da lavoro rappresenta i due
terzi del totale (210 milioni circa), si può tranquillamente stimare in
circa 70 milioni la quantità di disoccupati negli Stati Uniti (31% di
“scoraggiati” più il bugiardissimo 5,5% della disoccupazione ufficiale).
E meno male che sono la punta di lancia del capitalismo globale...
Ma gli “scoraggiati”, per i mercati
finanziari, non esistono, non sono interessanti, sono “carne morta”.
Per loro i dati diffusi ieri significano soltanto una cosa: che la
Federal Reserve non partirà immediatamente con un rialzo dei tassi di
interesse (fermi a zero dal 2008, il periodo più lungo della storia), in
attesa di avere conferme o smentite rispetto all'evoluzione della
disoccupazione “ufficiale”, quella censita tramite le iscrizioni agli
uffici di collocamento.
Perciò il dollaro ha perso un po'
di valore rispetto alle altre monete (l'euro è tornato sopra l'1,10, per
esempio) e sono tornati gli investimento in buoni del Tesoro
statunitense.
Ricordiamo infine che questi dati definiti universalmente come
“deludenti” arrivano pochi mesi dopo che la stessa Federal Reserve ha
interrotto il proprio lunghissimo (tre anni) programma di quantitative easing.
Non sappaimo dire se c'è effettivamente un legame diretto tra
interruzione dei flussi di moneta sui mercati e “frenata” nella
creazione di posti di lavoro. Ma se fossimo al posto di Mario Draghi –
che ha da poche settimane dato inizio a un programmma del tutto simile –
cominceremmeo a preoccuparci. “I mercati” si comportano come bambini
viziati, o adolescenti tossicomani: come viene a mancare la droga della
“liquidità regalata”... diventano catatonici.
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