Governo dei mercati? O governo dei cittadini, membri della civitas:
cioè, oggi, tutti coloro che vivono nello stesso paese? Un concetto da
tener presente - senza impuntarsi sulle parole - quando si parla di
reddito di cittadinanza: una misura che "rende cittadini", consegnando a
tutti il diritto a una vita dignitosa. Il governo dei mercati, quello
di Monti (regista Napolitano), ha ricevuto dal voto una solenne
sconfessione. Come il progetto di sostituirlo con un centro-sinistra,
eletto e non nominato, che ne rilevasse i punti qualificanti del
programma. Che sono i vincoli finanziari - pareggio di bilancio e fiscal
compact - per garantire alla finanza internazionale la solvibilità del
debito pubblico e dei relativi interessi: a spese di salari, pensioni,
occupazione, giovani, piccole imprese, sanità, cultura, istruzione, e
tutto il resto. Si tratta di consegnare ogni anno alla finanza, per i
prossimi 20 anni, 130-150 miliardi, da ricavare interamente dalle
entrate fiscali estratte dal corpo vivo del lavoro e dalla compressione
continua della spesa pubblica: un salasso di proporzioni inimmaginabili,
che finora nessun governo aveva mai nemmeno tentato.
Quei vincoli restano, anche se forse verranno sottoposti a qualche rimodulazione che non ne attenuerà comunque le conseguenze. Ma non avranno più chi li amministri da Palazzo Chigi: e questo è un rischio mortale non solo per il nostro paese, ma anche per l'euro e per l'economia del mondo intero. Le cui classi dirigenti, soprattutto in Europa (ma il Fondo Monetario Internazionale non è stato da meno) hanno dimostrato di non avere alcuna strategia per affrontare la crisi che hanno provocato. Non avevano previsto il disastro umano e civile imposto alla Grecia che ha anticipato quello che sta travolgendo oggi i paesi balcanici e che sta per esplodere in Portogallo, Spagna e Italia. Ora comincia a tremare anche la Francia e non stanno molto bene nemmeno gli arroganti governi dell'Europa centro-settentrionale.
Nessuno ha finora prospettato delle soluzioni sensate per invertire la rotta: le politiche keynesiane, amministrate a livello statuale o di eurozona, non bastano più e le proposte che le sponsorizzano a colpi di Grandi Opere sono penose (e perdenti). Per questo navigano tutti a vista, preoccupati soltanto di ricavarne qualche tornaconto finanziario o politico immediato. Monti (il terzo clown, bocciato insieme al cagnolino che doveva renderlo simpatico e lo ha reso ridicolo) è tra loro: aveva salutato il primo e il secondo memorandum, che ha mandato in malora la Grecia, come la strada per metterla in salvo; e mentre si vanta di aver evitato all'Italia la stessa fine, ci ha imposto esattamente la stessa ricetta, con risultati che ogni giorno diventano più evidenti. Ma quanto potrà durare una prospettiva del genere se il fuoco comincia a dilagare per tutta la prateria europea?
Nessun partito in Italia, ma presto anche in molti altri paesi, è più in grado di garantire il rispetto di quei vincoli finanziari chiaramente insostenibili. Ma nessuno, oggi, è in grado di respingerli apertamente, imponendone - o anche solo lavorando per imporne - una drastica rinegoziazione. E' un'estenuante e micidiale pantomima in attesa che l'euro si dissolva da sé, trascinando nel caos un paese dietro l'altro, per l'incapacità di governarlo; o che i paesi più forti abbandonino la nave che affonda, lasciando affogare gli altri paesi-membri e sperando di mettere in salvo quanto resta del malloppo che hanno lucrato nei dieci anni di euro (non poco: sbocchi per le loro esportazioni e prestiti usurari delle loro banche, bassi tassi di cambio e di interesse sul loro debito pubblico e sui crediti alle loro imprese; pace sociale e altro ancora). Ma l'ingovernabilità si sta facendo endemica e ormai dilaga in tutto il continente.
I risultati delle elezioni italiane, con la vittoria del non-partito del non-governo di Beppe Grillo riflette esattamente questo stallo, destinato a protrarsi nel tempo e a diffondersi nello spazio. Perché il fallimento del governo dei mercati non apre di per sé la strada a un governo dei cittadini: non saranno Beppe Grillo, né il partito-azienda di Casaleggio, né il Movimento cinque stelle, né il suo elettorato (che sono quattro cose distinte e differenti, e presto ce ne accorgeremo; e se ne accorgeranno anche gli interessati), non saranno loro a introdurre in Italia un governo dei cittadini: il loro programma, dove indicazioni generiche si mischiano a progetti sacrosanti e a prescrizioni perentorie, non lo prevede. Anzi, non prevede alcun governo. D'altronde un governo dei cittadini non si decide né si programma in parlamento, e meno che mai su un blog; se nasce, nasce dal basso, a pezzi e bocconi, quando si presentano congiuntamente le condizioni per realizzarlo, la volontà - o anche solo la necessità - di costituirlo e la capacità e le competenze per costruirlo. E' il governo indispensabile per promuovere un'autentica conversione ecologica; è fatto soprattutto di "corpi intermedi", di assemblee, di comitati, di gruppi di lavoro, di iniziative civiche; non può che essere incentrato su progetti e programmi locali di riconversione, circostanziati e promossi dai lavoratori e dai cittadini direttamente coinvolti dal "fermo-macchine" della produzione; deve essere animato dalla partecipazione diretta al governo dei servizi pubblici e alle decisioni delle amministrazioni locali. Sono tutte cose che si interpongono tra una leadership e la sua base, e che possono minare dal basso la compattezza della falange parlamentare delle cinque stelle. Non è detto che Beppe Grillo le contrasti: certo finora non le ha favorite, anche se si è molto avvantaggiato di quelle che sono cresciute per conto loro in questi anni. Ma è qui, ai "piani bassi", e non certo a livello di governo e di programmi nazionali, che si possono per ora inserire iniziative di convergenza, di collaborazione, senza escludere possibili conflitti: sia con la miriade di buone pratiche sociali e di lotte che in vario modo si sono coagulate nel voto alle cinque stelle; sia con milioni di cittadini e lavoratori, elettori di Grillo e non, che in questo clima di dissoluzione della rappresentanza possono ritrovare la strada di un loro nuovo o rinnovato impegno politico e civile. Tenendo conto che il tempo stringe.
E tenendo soprattutto conto che le misure, sensate e non, ma in gran parte propagandistiche, prospettate dai diversi schieramenti in campagna elettorale, dal reddito di cittadinanza (o di sussistenza) alla green economy, dal finanziamento di scuola e ricerca alla conversione energetica, dalla difesa dell'occupazione alla nazionalizzazione di banche e grandi utilities, dal microcredito alla salvaguardia dei suoli, per non parlare della restituzione o della riduzione dell'Imu, non sono praticabili nel quadro dei vincoli accettati e sottoscritti dal governo Monti e da chi l'ha sostenuto fino a ieri (addirittura con una riforma della costituzione sottratta alla verifica di un referendum). Dunque?
La vera discriminante politica - il risultato principale che emerge dall'esito, per altri versi confuso e indecifrabile, delle elezioni - è la necessità di una radicale rimessa in discussione dei vincoli di bilancio. Con una campagna promossa in modo coordinato a livello europeo (le forze non mancano), ma radicata nelle iniziative di base che costellano da tempo l'intero paese. Occorre collegarsi con i movimenti organizzati degli altri paesi-membri dell'Ue che si trovano in una situazione analoga - senza trascurare le intese con i movimenti dell'altra sponda del Mediterraneo - e unire le forze in una mobilitazione generale contro l'economia del debito: per la sua mutualizzazione, o la sua rinegoziazione, o il suo congelamento (l'Italia, peraltro, ha un debito gigantesco, ma anche un avanzo primario rilevante; congelando il debito potrebbe evitare il ricorso ai mercati finanziari per anni).
Sono misure che possono venir combinate in diversi mix; ma che costituiscono comunque l'altra faccia, indispensabile, di quel processo di costruzione di un governo dei cittadini che l'attuale vacanza politica mette all'ordine del giorno. La mancanza di questa dimensione è il limite principale contro cui si stanno scontrando, da un lato, la giunta Pizzarotti, che avrebbe dovuto fornire a tutto il paese la prova della capacità di governo del movimento cinque stelle; dall'altro, la giunta De Magistris, che dovrebbe fornire a tutti un modello da generalizzare per una gestione partecipata dei beni comuni. Ma dentro il patto di stabilità, senza una mobilitazione generale per azzerarlo, l'iniziativa locale soffoca. E per rimuovere quel patto bisogna smuovere l'intera Europa. Un solo Golia, ma tanti David.
Quei vincoli restano, anche se forse verranno sottoposti a qualche rimodulazione che non ne attenuerà comunque le conseguenze. Ma non avranno più chi li amministri da Palazzo Chigi: e questo è un rischio mortale non solo per il nostro paese, ma anche per l'euro e per l'economia del mondo intero. Le cui classi dirigenti, soprattutto in Europa (ma il Fondo Monetario Internazionale non è stato da meno) hanno dimostrato di non avere alcuna strategia per affrontare la crisi che hanno provocato. Non avevano previsto il disastro umano e civile imposto alla Grecia che ha anticipato quello che sta travolgendo oggi i paesi balcanici e che sta per esplodere in Portogallo, Spagna e Italia. Ora comincia a tremare anche la Francia e non stanno molto bene nemmeno gli arroganti governi dell'Europa centro-settentrionale.
Nessuno ha finora prospettato delle soluzioni sensate per invertire la rotta: le politiche keynesiane, amministrate a livello statuale o di eurozona, non bastano più e le proposte che le sponsorizzano a colpi di Grandi Opere sono penose (e perdenti). Per questo navigano tutti a vista, preoccupati soltanto di ricavarne qualche tornaconto finanziario o politico immediato. Monti (il terzo clown, bocciato insieme al cagnolino che doveva renderlo simpatico e lo ha reso ridicolo) è tra loro: aveva salutato il primo e il secondo memorandum, che ha mandato in malora la Grecia, come la strada per metterla in salvo; e mentre si vanta di aver evitato all'Italia la stessa fine, ci ha imposto esattamente la stessa ricetta, con risultati che ogni giorno diventano più evidenti. Ma quanto potrà durare una prospettiva del genere se il fuoco comincia a dilagare per tutta la prateria europea?
Nessun partito in Italia, ma presto anche in molti altri paesi, è più in grado di garantire il rispetto di quei vincoli finanziari chiaramente insostenibili. Ma nessuno, oggi, è in grado di respingerli apertamente, imponendone - o anche solo lavorando per imporne - una drastica rinegoziazione. E' un'estenuante e micidiale pantomima in attesa che l'euro si dissolva da sé, trascinando nel caos un paese dietro l'altro, per l'incapacità di governarlo; o che i paesi più forti abbandonino la nave che affonda, lasciando affogare gli altri paesi-membri e sperando di mettere in salvo quanto resta del malloppo che hanno lucrato nei dieci anni di euro (non poco: sbocchi per le loro esportazioni e prestiti usurari delle loro banche, bassi tassi di cambio e di interesse sul loro debito pubblico e sui crediti alle loro imprese; pace sociale e altro ancora). Ma l'ingovernabilità si sta facendo endemica e ormai dilaga in tutto il continente.
I risultati delle elezioni italiane, con la vittoria del non-partito del non-governo di Beppe Grillo riflette esattamente questo stallo, destinato a protrarsi nel tempo e a diffondersi nello spazio. Perché il fallimento del governo dei mercati non apre di per sé la strada a un governo dei cittadini: non saranno Beppe Grillo, né il partito-azienda di Casaleggio, né il Movimento cinque stelle, né il suo elettorato (che sono quattro cose distinte e differenti, e presto ce ne accorgeremo; e se ne accorgeranno anche gli interessati), non saranno loro a introdurre in Italia un governo dei cittadini: il loro programma, dove indicazioni generiche si mischiano a progetti sacrosanti e a prescrizioni perentorie, non lo prevede. Anzi, non prevede alcun governo. D'altronde un governo dei cittadini non si decide né si programma in parlamento, e meno che mai su un blog; se nasce, nasce dal basso, a pezzi e bocconi, quando si presentano congiuntamente le condizioni per realizzarlo, la volontà - o anche solo la necessità - di costituirlo e la capacità e le competenze per costruirlo. E' il governo indispensabile per promuovere un'autentica conversione ecologica; è fatto soprattutto di "corpi intermedi", di assemblee, di comitati, di gruppi di lavoro, di iniziative civiche; non può che essere incentrato su progetti e programmi locali di riconversione, circostanziati e promossi dai lavoratori e dai cittadini direttamente coinvolti dal "fermo-macchine" della produzione; deve essere animato dalla partecipazione diretta al governo dei servizi pubblici e alle decisioni delle amministrazioni locali. Sono tutte cose che si interpongono tra una leadership e la sua base, e che possono minare dal basso la compattezza della falange parlamentare delle cinque stelle. Non è detto che Beppe Grillo le contrasti: certo finora non le ha favorite, anche se si è molto avvantaggiato di quelle che sono cresciute per conto loro in questi anni. Ma è qui, ai "piani bassi", e non certo a livello di governo e di programmi nazionali, che si possono per ora inserire iniziative di convergenza, di collaborazione, senza escludere possibili conflitti: sia con la miriade di buone pratiche sociali e di lotte che in vario modo si sono coagulate nel voto alle cinque stelle; sia con milioni di cittadini e lavoratori, elettori di Grillo e non, che in questo clima di dissoluzione della rappresentanza possono ritrovare la strada di un loro nuovo o rinnovato impegno politico e civile. Tenendo conto che il tempo stringe.
E tenendo soprattutto conto che le misure, sensate e non, ma in gran parte propagandistiche, prospettate dai diversi schieramenti in campagna elettorale, dal reddito di cittadinanza (o di sussistenza) alla green economy, dal finanziamento di scuola e ricerca alla conversione energetica, dalla difesa dell'occupazione alla nazionalizzazione di banche e grandi utilities, dal microcredito alla salvaguardia dei suoli, per non parlare della restituzione o della riduzione dell'Imu, non sono praticabili nel quadro dei vincoli accettati e sottoscritti dal governo Monti e da chi l'ha sostenuto fino a ieri (addirittura con una riforma della costituzione sottratta alla verifica di un referendum). Dunque?
La vera discriminante politica - il risultato principale che emerge dall'esito, per altri versi confuso e indecifrabile, delle elezioni - è la necessità di una radicale rimessa in discussione dei vincoli di bilancio. Con una campagna promossa in modo coordinato a livello europeo (le forze non mancano), ma radicata nelle iniziative di base che costellano da tempo l'intero paese. Occorre collegarsi con i movimenti organizzati degli altri paesi-membri dell'Ue che si trovano in una situazione analoga - senza trascurare le intese con i movimenti dell'altra sponda del Mediterraneo - e unire le forze in una mobilitazione generale contro l'economia del debito: per la sua mutualizzazione, o la sua rinegoziazione, o il suo congelamento (l'Italia, peraltro, ha un debito gigantesco, ma anche un avanzo primario rilevante; congelando il debito potrebbe evitare il ricorso ai mercati finanziari per anni).
Sono misure che possono venir combinate in diversi mix; ma che costituiscono comunque l'altra faccia, indispensabile, di quel processo di costruzione di un governo dei cittadini che l'attuale vacanza politica mette all'ordine del giorno. La mancanza di questa dimensione è il limite principale contro cui si stanno scontrando, da un lato, la giunta Pizzarotti, che avrebbe dovuto fornire a tutto il paese la prova della capacità di governo del movimento cinque stelle; dall'altro, la giunta De Magistris, che dovrebbe fornire a tutti un modello da generalizzare per una gestione partecipata dei beni comuni. Ma dentro il patto di stabilità, senza una mobilitazione generale per azzerarlo, l'iniziativa locale soffoca. E per rimuovere quel patto bisogna smuovere l'intera Europa. Un solo Golia, ma tanti David.
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