Di
questo non c’è traccia nel testo varato dalla Direzione del Pd. Né le
parole dette successivamente in conferenza stampa da Bersani aggiungono
granché. E’ vero, il primo degli otto punti suona in modo differente
dalla carta di intenti sulla quale il Pd aveva costruito la coalizione
elettorale con Sel e il Psi di Nencini. Infatti quest’ultima si chiudeva
con un impegno al rispetto integrale dei trattati, salvo “eventuali”
modificazioni, che però non venivano previste né tantomeno invocate. Il
che se non altro dimostra quanto fossero ipocrite le dichiarazioni di
impossibilità di mettere per iscritto qualche cosa di diverso dai
dettati della Ue. Nasce però il più che legittimo sospetto che questa
modificazione sia più formale che sostanziale, oppure che si fondi
semplicemente sulla speranza di allentare i vincoli grazie ai nuovi
presunti spazi che sarebbero stati aperti dalla lunga lettera inviata
due settimane fa dal Commissario Olli Rehn ai ministri dell’Ecofin,
nonché a Draghi e alla Lagarde, ovvero ai presidenti della Bce e del
Fmi. Ma se si legge con attenzione quel documento ci si accorge che le
speranze sullo stesso sono del tutto infondateSe la pressione sullo spread si è un poco
allentata il fronte dell’economia reale si presenta come un vero
disastro. Per questo la proposta del Pd contenuta nei famosi 8 punti da
presentare al Movimento 5 Stelle appare totalmente inadeguata. Non basta
una golden rule in miniatura a rilanciare la crescita.
“Il Governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità”: questo è l’incipit degli otto punti che Bersani intende presentare in particolare al Movimento cinque stelle per ottenere il via libera verso la difficile formazione di un governo. Sempre che Napolitano gli conferisca l’incarico. Leggendo le aride righe successive si scopre che in realtà questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.
Un po’ poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata – ma questo non è dovuto all’azione del governo Monti, quanto all’iniziativa assunta dalla Bce nell’acquisto dei titoli del debito italiano –, il fronte dell’economia reale si presenta come un vero disastro. L’Italia è in recessione, la peggiore da venti anni a questa parte, cioè dal ’92-’93 quando ci fu la svalutazione della lira e la famigerata manovra “lacrime e sangue” di 92mila miliardi fatta da Giuliano Amato. Lo è da sei trimestri, ma quello che è peggio è che la tendenza non promette niente di buono. Se guardiamo al quadro dell’Eurozona vediamo che l’ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un calo maggiore del Pil rispetto all’anno intero, -0,9%. Ovviamente il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l’Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che possiamo chiamare infelice, per non fare arrabbiare i seguaci di Serge Latouche.
Infatti nel quarto trimestre del 2012 l’Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare. Vedremo i dati del primo trimestre 2013 a fine marzo, ma tutto lascia prevedere un anno tendenzialmente peggiore del precedente.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (seguendo le parole di solito contenute dello stesso Mario Draghi) e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient’affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% (definita “agghiacciante” dallo stesso Squinzi, presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c’è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all’esatto contrario. Il bilancio europeo viene ridotto per la prima volta nella storia della Ue di ben tre punti e mezzo; i settori che sono tagliati sono quelli che più di altri potrebbero fornire fiato per una ripresa di tipo diverso, sia dal punto di vista economico generale che da quello occupazionale; il tutto viene ulteriormente blindato dalla decisione degli organi europei di intervenire direttamente nella formulazione dei bilanci nazionali affinché non sforino rispetto ai trattati, provocando quindi un’ulteriore spoliazione della sovranità nazionale. Per questo Mario Draghi può persino minimizzare le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un “pilota automatico” che guida senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Se quindi si vuole realmente correggere le politiche europee di stabilità, bisognerebbe in primo luogo rimettere in discussione tutta la governance europea e i suoi atti concreti.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che di riforma hanno solo il nome, poiché in realtà si tratta di cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell’intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l’implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Del resto l’esperienza storica ci ricorda che solo i paesi più forti nel quadro europeo possono impunemente violare i vincoli imposti dai trattati. Successe con la Germania e la Francia nel 2003 che andarono ben oltre il vincolo del 3% di deficit su Pil, impedendo alla Commissione europea di fare scattare le previste sanzioni. L’Italia, come si sa, non è nella stessa condizione, quanto a rapporti di forza, benché il nostro deficit sia già inferiore a quello francese, che dovrebbe invece beneficiare della “tolleranza” della Commissione europea ( l’1,4% contro il 2,1%) e soprattutto se si sommasse il debito pubblico con quello privato, come si dovrebbe fare, la nostra condizione risulterebbe niente affatto peggiore di quella della Francia e molto migliore di altri paesi come la Spagna. Inoltre l’Italia ha il migliore avanzo primario (ovvero la differenza fra entrate e uscite su base annua al netto del servizio al debito) in Eurolandia.
La certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, quella che da queste ha fin qui tratto i maggiori vantaggi. Infatti La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l'opposizione rosso-verde al governo della Cancelliera, ha bloccato l'intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall’esecutivo centrale. Non è niente di più di un “incidente” nella vita politico-parlamentare della Germania, una conseguenza dei nuovi equilibri determinatisi nella Camera alta dopo le recenti sconfitte elettorali della Cdu. Ma naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo in Germania nasce “Alternativa per la Germania” un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un’unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti.
In un quadro di questo genere fa persino tenerezza pensare che la recente campagna elettorale è stata condotta dalla coalizione bersaniana all’insegna del discrimine tra europeisti e antieuropeisti. Appare chiaro che chi vuole l’implosione dell’Europa non ha che da perseverare nelle politiche di austerità, anche nella versione appena formalmente annacquata della “austerità espansiva”, che appunto prevedrebbe la fuoriuscita delle spese per investimenti dal calcolo che determina gli obiettivi del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico complessivo. Il primo punto della proposta di Bersani appare quindi non solo del tutto indeterminato, ma privato delle volontà politiche e degli strumenti per divenire operativo. Queste ultime passano necessariamente da un’opposizione netta al fiscal compact e alle sue ulteriori implementazioni, pareggio di bilancio in Costituzione compreso. Ma di questo non vi è traccia nella proposta del Pd.
Intanto in ciò che resta della sinistra radicale ci si divide tra chi vorrebbe un piano B per l’uscita dall’Euro e chi sostiene che invece il punto è la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. Rimandando ad ulteriori approfondimenti il confronto fra le ragioni dell’uno e quelle dell’altro, si potrebbe già osservare che visto che chi chiede l’uscita dell’Italia dall’Euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa Indicizzazione dei salari, controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un’azione di governo per compierla, ovvero una forza capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo l’ipotesi di condurre un’azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell’Eurozona per la modifica dei trattati richiede anch’essa una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi.
Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, possono nella sostanza coincidere o che quantomeno non vi è motivo per vedere ragioni di divisioni così aspre tra l’uno e l’altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.
“Il Governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità”: questo è l’incipit degli otto punti che Bersani intende presentare in particolare al Movimento cinque stelle per ottenere il via libera verso la difficile formazione di un governo. Sempre che Napolitano gli conferisca l’incarico. Leggendo le aride righe successive si scopre che in realtà questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.
Un po’ poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata – ma questo non è dovuto all’azione del governo Monti, quanto all’iniziativa assunta dalla Bce nell’acquisto dei titoli del debito italiano –, il fronte dell’economia reale si presenta come un vero disastro. L’Italia è in recessione, la peggiore da venti anni a questa parte, cioè dal ’92-’93 quando ci fu la svalutazione della lira e la famigerata manovra “lacrime e sangue” di 92mila miliardi fatta da Giuliano Amato. Lo è da sei trimestri, ma quello che è peggio è che la tendenza non promette niente di buono. Se guardiamo al quadro dell’Eurozona vediamo che l’ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un calo maggiore del Pil rispetto all’anno intero, -0,9%. Ovviamente il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l’Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che possiamo chiamare infelice, per non fare arrabbiare i seguaci di Serge Latouche.
Infatti nel quarto trimestre del 2012 l’Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare. Vedremo i dati del primo trimestre 2013 a fine marzo, ma tutto lascia prevedere un anno tendenzialmente peggiore del precedente.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (seguendo le parole di solito contenute dello stesso Mario Draghi) e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient’affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% (definita “agghiacciante” dallo stesso Squinzi, presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c’è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all’esatto contrario. Il bilancio europeo viene ridotto per la prima volta nella storia della Ue di ben tre punti e mezzo; i settori che sono tagliati sono quelli che più di altri potrebbero fornire fiato per una ripresa di tipo diverso, sia dal punto di vista economico generale che da quello occupazionale; il tutto viene ulteriormente blindato dalla decisione degli organi europei di intervenire direttamente nella formulazione dei bilanci nazionali affinché non sforino rispetto ai trattati, provocando quindi un’ulteriore spoliazione della sovranità nazionale. Per questo Mario Draghi può persino minimizzare le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un “pilota automatico” che guida senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Se quindi si vuole realmente correggere le politiche europee di stabilità, bisognerebbe in primo luogo rimettere in discussione tutta la governance europea e i suoi atti concreti.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che di riforma hanno solo il nome, poiché in realtà si tratta di cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell’intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l’implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Del resto l’esperienza storica ci ricorda che solo i paesi più forti nel quadro europeo possono impunemente violare i vincoli imposti dai trattati. Successe con la Germania e la Francia nel 2003 che andarono ben oltre il vincolo del 3% di deficit su Pil, impedendo alla Commissione europea di fare scattare le previste sanzioni. L’Italia, come si sa, non è nella stessa condizione, quanto a rapporti di forza, benché il nostro deficit sia già inferiore a quello francese, che dovrebbe invece beneficiare della “tolleranza” della Commissione europea ( l’1,4% contro il 2,1%) e soprattutto se si sommasse il debito pubblico con quello privato, come si dovrebbe fare, la nostra condizione risulterebbe niente affatto peggiore di quella della Francia e molto migliore di altri paesi come la Spagna. Inoltre l’Italia ha il migliore avanzo primario (ovvero la differenza fra entrate e uscite su base annua al netto del servizio al debito) in Eurolandia.
La certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, quella che da queste ha fin qui tratto i maggiori vantaggi. Infatti La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l'opposizione rosso-verde al governo della Cancelliera, ha bloccato l'intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall’esecutivo centrale. Non è niente di più di un “incidente” nella vita politico-parlamentare della Germania, una conseguenza dei nuovi equilibri determinatisi nella Camera alta dopo le recenti sconfitte elettorali della Cdu. Ma naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo in Germania nasce “Alternativa per la Germania” un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un’unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti.
In un quadro di questo genere fa persino tenerezza pensare che la recente campagna elettorale è stata condotta dalla coalizione bersaniana all’insegna del discrimine tra europeisti e antieuropeisti. Appare chiaro che chi vuole l’implosione dell’Europa non ha che da perseverare nelle politiche di austerità, anche nella versione appena formalmente annacquata della “austerità espansiva”, che appunto prevedrebbe la fuoriuscita delle spese per investimenti dal calcolo che determina gli obiettivi del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico complessivo. Il primo punto della proposta di Bersani appare quindi non solo del tutto indeterminato, ma privato delle volontà politiche e degli strumenti per divenire operativo. Queste ultime passano necessariamente da un’opposizione netta al fiscal compact e alle sue ulteriori implementazioni, pareggio di bilancio in Costituzione compreso. Ma di questo non vi è traccia nella proposta del Pd.
Intanto in ciò che resta della sinistra radicale ci si divide tra chi vorrebbe un piano B per l’uscita dall’Euro e chi sostiene che invece il punto è la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. Rimandando ad ulteriori approfondimenti il confronto fra le ragioni dell’uno e quelle dell’altro, si potrebbe già osservare che visto che chi chiede l’uscita dell’Italia dall’Euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa Indicizzazione dei salari, controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un’azione di governo per compierla, ovvero una forza capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo l’ipotesi di condurre un’azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell’Eurozona per la modifica dei trattati richiede anch’essa una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi.
Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, possono nella sostanza coincidere o che quantomeno non vi è motivo per vedere ragioni di divisioni così aspre tra l’uno e l’altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.
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