All'indomani del voto del 24 e 25 febbraio, appare chiaro che tanto il
successo di Grillo quanto la rinascita di Berlusconi sono indice
soprattutto di un diffuso sentimento antiausterità. Per il momento, a
differenza di quanto accade in altri paesi, esso assume in Italia
coloriture destrorse. Eppure, lo spazio per una futura rinascita della
sinistra in realtà esiste, ma presuppone la messa al bando di
scorciatoie e tatticismi.
Sono giorni plumbei per la sinistra italiana. Il risultato elettorale ci consegna l'immagine di un paese egemonizzato dalla destra, che risorge come una fenice in forme diverse. Parlando con amici e conoscenti, leggendo alcune malinconiche analisi e scorrendo di tanto in tanto i numerosi post intrisi di rabbia e pessimismo su Facebook (questo luogo di dibattito virtuale che troppo spesso continua a sostituirsi maldestramente al confronto diretto e vis à vis) sottrarsi al clima di scoramento e frustrazione può sembrare impresa ardua. C'è chi è pronto a fare le valigie per espatriare, chi propone improvvisate analisi sull'essenza culturale della nazione e sulla psicologia di massa degli italiani, chi riversa palate di sarcasmo sul monitor del computer, chi se la prende con Bersani e rimpiange il “grande Partito Comunista” (come se le radici del moderatismo dei democratici non affondassero già nella storia del Pci di Togliatti e Berlinguer) chi, infine, cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno aprendo a Grillo, nuova “costola della sinistra”. Eppure, passato lo shock delle prime ore, è un'analisi a mente fredda quella che si impone, memori dello spinoziano nec ridere nec flere, sed intelligere (“non ridere né piangere: capire”).
Quello del 24 e 25 febbraio è stato soprattuto un voto contro la disoccupazione, l'impoverimento di massa e l'incertezza del futuro che incombono ormai da più di un anno sulla testa degli italiani. Un voto “contro lo spread”, come lo ha definito Giorgio Cremaschi (e tuttavia, a differenza dell'ex segretario nazionale della Fiom, non proviamo alcuna “soddisfazione” nell'esaminare le percentuali emerse dalle urne). I veri vincitori della consultazione, al di là della vittoria tutta “tecnica” del Pd alla Camera, sono il Movimento 5 Stelle e il redivivo Berlusconi, che ha saputo abilmente riproporsi agli elettori in versione nemico delle banche e strenuo difensore della sovranità nazionale contro Mario Monti e la perfida Angela Merkel. In entrambi i casi, a prevalere è un più o meno consapevole sentimento anti-austerità, un diffidare a pelle della promessa di “stabilità” e di “responsabilità” del gruppo dirigente piddino e del presidente del consiglio uscente, mentre anche il tentativo neobertinottiano proposto fuori tempo massimo da Nichi Vendola viene travolto dalla rabbia che si esprime nelle urne.
Se è vero che il buon risultato di Grillo e quello, nettamente al di sopra delle aspettative, del centro-destra inducono un certo pessimismo circa la possibilità di ricostruire una sinistra degna di questo nome nel nostro paese, va anche detto che la situazione oggettiva ci parla, oltre che di tante difficoltà, di alcune opportunità per il futuro. Che il sentimento antiausterità debba prendere necessariamente una coloritura destrorsa non è affatto detto, come mostrano paesi assimilabili all'Italia per collocazione geografica e, fatte salve le dovute differenze quantitative, per condizione macroeconomica. In Grecia, la dinamica che ha portato qualche mese fa alla spettacolare crescita elettorale di Syriza, la coalizione della sinistra radicale ellenica che secondo molti sondaggi è oggi il primo partito del paese, assomiglia non poco a quella che, da noi, ha consentito al Movimento 5 Stelle di crescere e di raggiungere percentuali a due cifre. Tenendo ben ferme le enormi differenze fra le due organizzazioni (non siamo fra coloro che ritengono l'exploit di Grillo un'opportunità per la sinistra italiana) va fatto notare che, in entrambi i casi, ad essere premiata è stata la capacità di intercettare il disagio sociale determinato dalle politiche di austerity e la voglia di cambiamento, soprattutto quella espressa dalle giovani generazioni. Quel che Tsipras e soci hanno saputo fare da sinistra, il Movimento 5 Stelle lo fa a partire dal suo programma “eclettico” in grado di far convivere elementi destrorsi con altri di tipo più “sociale” e tradizionalmente riconducibili nell'alveo delle sinistre.
Non ci soffermeremo in questa sede ad analizzare il fenomeno Grillo. Basti dire che concordiamo, nella sostanza, con l'analisi che del grillismo, della sua autorappresentazione e della sua genesi sociale ha proposto di recente il collettivo Wu Ming. Qui ci interessa soprattutto capire quali sono le lezioni che la sinistra italiana può trarre dal successo del Movimento 5 Stelle. Lo faremo a partire da un'accezione larga del termine “sinistra”, includendo cioè all'interno del suo recinto semantico anche una forza come il Partito Democratico che, per sua stessa volontà e ammissione, non è catalogabile come un partito di sinistra tout court, avendo reciso da tempo ogni legame con la stessa famiglia socialdemocratica europea.
Partiamo da un paradosso apparente, quello per cui abbiamo assistito ad una campagna elettorale in cui due miliardari sono riusciti, almeno in parte, ad apparire come i nemici dei poteri forti, mentre il figlio del benzinaio di Bettola non ha perso occasione per tranquillizzare i mercati. Paradosso solo apparente, perché non è un mistero che Pier Luigi Bersani fosse, di fatto, il candidato dei settori più concentrati del capitalismo italiano, l'uomo a cui si affidavano tanto i grandi istituti di credito quanto l'Unione Europea perché garantisse la stabilità dell'Italia e della moneta unica. Paradosso apparente, soprattutto, perché il moderatismo del gruppo dirigente del Pd non è certo una novità, e affonda le sue radici nella decennale tendenza, di derivazione pciista, a ritenere possibile un cambiamento radicale della società italiana procedendo sulla via del compromesso con i grandi poteri economici, con i loro referenti politici e con il Vaticano.
A qualcuno potrà sembrare sacrilego stabilire una linea di continuità fra i Togliatti e i Berlinguer, da un lato, e i D'Alema, Veltroni e Bersani dall'altro, ma l'ossessione di mostrarsi “responsabili” (agli occhi di chi conta) nell'ansia di accreditarsi come “classe dirigente”, non è un qualcosa che nasce con il Partito Democratico. Certo, il contesto, tanto italiano quanto internazionale, è per molti aspetti cambiato, la fraseologia usata dai dirigenti comunisti poteva essere a tratti ben più radicale di quella usata da un Bersani e il Pci era un partito con una solida base militante, fortemente radicato nella società e fra i lavoratori, ben diverso quindi dal partito “liquido” e d'opinione che per anni è stato teorizzato dagli epigoni di Occhetto. Eppure, tutto ciò non toglie che, allora come oggi, vi sia una sostanziale subalternità, un'incapacità di pensarsi alla guida di un progetto di cambiamento che possa camminare sulle proprie gambe, pur con tutte le difficoltà del caso. L'esempio più estremo e paradigmatico di questo tipo di atteggiamento è ovviamente fornito da quella che fu la corrente “migliorista” e dalla biografia politica di Giorgio Napolitano, ma l'educazione al moderatismo e al mantenimento dello status quo spacciata per realismo politico è una costante nella storia dei gruppi dirigenti del Pci-Pds-Ds-Pd.
Una tipica obiezione fa in genere capolino a questo punto: se è vero che la rincorsa al centro non paga, come spiegare il pessimo risultato di una lista come Rivoluzione Civile e, al suo interno, di ciò che rimane della cosiddetta “sinistra radicale”? Non hanno queste forze puntato esattamente su uno smarcamento dal Pd e su un'interpretazione “di sinistra” della battaglia contro l'austerità? E non se ne deve pertanto concludere che l'Italia, come disse Massimo D'Alema qualche anno fa, è un paese irrimediabilmente di destra?
Per rispondere a queste domande può forse essere utile tornare un momento al paragone fra il Movimento 5 Stelle e Syriza. Oltre alla capacità di farsi interpreti della domanda di cambiamento e della sofferenza sociale che ne è all'origine, le due forze politiche hanno in comune anche un'altra caratteristica: sono entrambe realtà che hanno saputo aspettare, vale a dire che hanno seminato e costruito nel tempo, mantenendo come propria stella polare quella di un profilo autonomo e indipendente, capace di occupare, in presenza di condizioni oggettive radicalmente mutate, un preciso spazio politico. Sono dieci anni che Syriza esiste, e per lungo tempo è stata una forza decisamente marginale nella vita politica greca. Nata nel 2004 come forma di coordinamento permanente fra diverse realtà della sinistra radicale, la coalizione guidata da Alexis Tsipras ha attraversato diversi momenti di crisi, determinati anche da un aspro dibattito interno fra la componente, sempre risultata maggioritaria, che rifiutava ogni alleanza con il Pasok e una corrente di destra che premeva per un'accordo tattico con i socialisti. Se, in presenza di una situazione sicuramente drammatica, Syriza ha potuto prima triplicare e poi quintuplicare i propri consensi, è anche perché i suoi dirigenti non hanno fatto passi falsi negli anni immediatamente precedenti. Si pensi quale sarebbe oggi la situazione, in Grecia, con un partito neonazista che sfiora il 12%, se Tsipras e soci si fossero prestati in passato a governare insieme allo screditatissimo Pasok...
Analogamente, Grillo non ha avuto fretta nel costruire il proprio movimento, concentrandosi innanzitutto sulla definizione della propria agenda, lavorando alla propria riconoscibilità pubblica e puntando a creare una comunità coesa e motivata. Ha sviluppato nel tempo un profilo radicalmente autonomo e indipendente dai due schieramenti avvicendatisi al governo negli ultimi anni e, se non è stupido (e non lo è) eviterà ora di stringere accordi organici con chicchessia, di proporre ad altri la propria agenda in una condizione che rimane comunque, nella aule parlamentari, di subalternità numerica. Punterà piuttosto a sviluppare ulteriormente i propri consensi e l'egemonia delle proprie parole d'ordine nella società, per passare all'incasso al momento debito. Attualmente, stando sotto i riflettori e disponendo di un nutrito drappello di deputati e senatori, può dedicarsi a quest'opera di ampliamento delle proprie basi di consenso con tanta più facilità e rapidità. La fase “eroica” della costruzione molecolare dell'organizzazione, per lui, si è definitivamente conclusa.
Ora, è del tutto evidente che una lista come Rivoluzione Civile è quanto di più lontano dal modello che abbiamo appena delineato. La creatura di Ingroia è nata in fretta e furia all'ultimo momento, quando era ormai chiaro che non c'erano più i margini per un'alleanza col Pd, scimmiottando l'impostazione legalitaria dei grillini sin dalla scelta del candidato premier e poi tentando di riempirla goffamente di contenuti “sociali”. Nel complesso si è trattato di un progetto raffazzonato e improvvisato, subalterno da un lato all'asse Pd-Sel (col quale la rottura è stata tardiva e costantemente rimessa in discussione durante la campagna elettorale dalle dichiarazioni di alcuni candidati eccellenti) e, dall'altro, proprio al Movimento 5 Stelle.
Date tali caratteristiche, rimane da capire cosa abbia spinto il gruppo dirigente di un partito come Rifondazione Comunista a imbarcarsi in un simile progetto, se non lo spauracchio di una nuova esclusione dal Parlamento (che è poi puntualmente arrivata). E dire che il Prc, nel periodo immediatamente successivo alla catastrofica esperienza dell'Arcobaleno e dopo la scelta unilaterale dell'ex maggioranza bertinottiana di abbandonare il partito, sembrava aver capito che il lavoro da fare per ricostruire la sinistra non poteva che essere di lunga lena, lavorando innanzitutto all'edificazione delle fondamenta del proprio radicamento sociale e della propria indipendenza reale dai poteri forti (nonché dalle loro cinghie di trasmissione politica). Propositi che, tuttavia, si sono rapidamente sciolti come neve al sole per via degli ulteriori errori accumulatisi negli anni successivi, segnati dal ritorno in grande stile della logica del “condizionamento a sinistra” del Pd (stavolta in forma di farsa, visto il risicatissimo potere contrattuale di una forza politica ormai ridotta al lumicino), dal sostanziale abbandono dell'opera paziente di radicamento nei luoghi del conflitto e, da ultimo, da un'unità d'azione posticcia con forze e personalità delle quali il minimo che si possa dire è che sono estranee alla tradizione del movimento operaio.
Detto questo, è evidente che la situazione è oggi piuttosto complessa, e che nessuno ha la soluzione in tasca. Ripartire dal rifiuto di ogni ipotesi di alleanza con il centro (che oggi comprende anche il Pd, vista l'eterogeneità di quel partito), lavorare alla costruzione di un profilo programmatico e organizzativo indipendente e investire, prima ancora che sul momento elettorale, sul necessario insediamento sociale sono tutte cose essenziali ma, allo stato attuale, verosimilmente insufficienti. I rimasugli della gauche de la gauche italiana sono ormai ben poca cosa, tanto in termini di peso elettorale quanto relativamente alle energie militanti che riescono a mobilitare. Non può non essere fonte di riflessione, allo stesso tempo, il fatto che un sindacato come la Cgil e in particolare, al suo interno, la Fiom, rimangano le uniche strutture organizzative di massa in cui, pur fra mille ambiguità e difficoltà, si riconoscono centinaia di migliaia di lavoratori italiani.
Intendiamoci: non vogliamo qui reiterare il solito appello a Landini perché “scenda in politica”: un altro vizio che la sinistra italiana si è portata appresso per troppo tempo è proprio quello del liderismo e dell'attesa messianica di una figura salvifica. Vogliamo semplicemente far notare che, mentre la sinistra politica si dibatte in una crisi gravissima, quella sindacale, metalmeccanici della Cgil in primis, tutto sommato tiene. È stata la Fiom ad animare tutta una serie di lotte degli ultimi anni, a partire da quella, fondamentale per il suo valore simbolico, di Pomigliano. Il ruolo di supplenza politica ricoperto dal sindacato di Maurizio Landini in assenza di una sinistra forte e unita è già da tempo un fatto oggettivo e, del resto, di frangenti storici che hanno visto nascere nuove organizzazioni politiche a partire da un ciclo di lotte sindacali se ne potrebbero citare diversi. La Fiom, così come alcune componenti del sindacalismo di base, rappresenta un incubatore di energie militanti e di cultura organizzativa dal quale qualsiasi tentativo futuro di far uscire la sinistra italiana dalle secche in cui si è incagliata non potrà prescindere. Ma un eventuale partito del lavoro che nasca su queste basi non vedrà mai la luce se prima non si comprende che l'attuale radicalizzazione del quadro politico ha definitivamente sancito la fine dell'epoca dei tatticismi e delle alleanze a perdere.
Sono giorni plumbei per la sinistra italiana. Il risultato elettorale ci consegna l'immagine di un paese egemonizzato dalla destra, che risorge come una fenice in forme diverse. Parlando con amici e conoscenti, leggendo alcune malinconiche analisi e scorrendo di tanto in tanto i numerosi post intrisi di rabbia e pessimismo su Facebook (questo luogo di dibattito virtuale che troppo spesso continua a sostituirsi maldestramente al confronto diretto e vis à vis) sottrarsi al clima di scoramento e frustrazione può sembrare impresa ardua. C'è chi è pronto a fare le valigie per espatriare, chi propone improvvisate analisi sull'essenza culturale della nazione e sulla psicologia di massa degli italiani, chi riversa palate di sarcasmo sul monitor del computer, chi se la prende con Bersani e rimpiange il “grande Partito Comunista” (come se le radici del moderatismo dei democratici non affondassero già nella storia del Pci di Togliatti e Berlinguer) chi, infine, cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno aprendo a Grillo, nuova “costola della sinistra”. Eppure, passato lo shock delle prime ore, è un'analisi a mente fredda quella che si impone, memori dello spinoziano nec ridere nec flere, sed intelligere (“non ridere né piangere: capire”).
Quello del 24 e 25 febbraio è stato soprattuto un voto contro la disoccupazione, l'impoverimento di massa e l'incertezza del futuro che incombono ormai da più di un anno sulla testa degli italiani. Un voto “contro lo spread”, come lo ha definito Giorgio Cremaschi (e tuttavia, a differenza dell'ex segretario nazionale della Fiom, non proviamo alcuna “soddisfazione” nell'esaminare le percentuali emerse dalle urne). I veri vincitori della consultazione, al di là della vittoria tutta “tecnica” del Pd alla Camera, sono il Movimento 5 Stelle e il redivivo Berlusconi, che ha saputo abilmente riproporsi agli elettori in versione nemico delle banche e strenuo difensore della sovranità nazionale contro Mario Monti e la perfida Angela Merkel. In entrambi i casi, a prevalere è un più o meno consapevole sentimento anti-austerità, un diffidare a pelle della promessa di “stabilità” e di “responsabilità” del gruppo dirigente piddino e del presidente del consiglio uscente, mentre anche il tentativo neobertinottiano proposto fuori tempo massimo da Nichi Vendola viene travolto dalla rabbia che si esprime nelle urne.
Se è vero che il buon risultato di Grillo e quello, nettamente al di sopra delle aspettative, del centro-destra inducono un certo pessimismo circa la possibilità di ricostruire una sinistra degna di questo nome nel nostro paese, va anche detto che la situazione oggettiva ci parla, oltre che di tante difficoltà, di alcune opportunità per il futuro. Che il sentimento antiausterità debba prendere necessariamente una coloritura destrorsa non è affatto detto, come mostrano paesi assimilabili all'Italia per collocazione geografica e, fatte salve le dovute differenze quantitative, per condizione macroeconomica. In Grecia, la dinamica che ha portato qualche mese fa alla spettacolare crescita elettorale di Syriza, la coalizione della sinistra radicale ellenica che secondo molti sondaggi è oggi il primo partito del paese, assomiglia non poco a quella che, da noi, ha consentito al Movimento 5 Stelle di crescere e di raggiungere percentuali a due cifre. Tenendo ben ferme le enormi differenze fra le due organizzazioni (non siamo fra coloro che ritengono l'exploit di Grillo un'opportunità per la sinistra italiana) va fatto notare che, in entrambi i casi, ad essere premiata è stata la capacità di intercettare il disagio sociale determinato dalle politiche di austerity e la voglia di cambiamento, soprattutto quella espressa dalle giovani generazioni. Quel che Tsipras e soci hanno saputo fare da sinistra, il Movimento 5 Stelle lo fa a partire dal suo programma “eclettico” in grado di far convivere elementi destrorsi con altri di tipo più “sociale” e tradizionalmente riconducibili nell'alveo delle sinistre.
Non ci soffermeremo in questa sede ad analizzare il fenomeno Grillo. Basti dire che concordiamo, nella sostanza, con l'analisi che del grillismo, della sua autorappresentazione e della sua genesi sociale ha proposto di recente il collettivo Wu Ming. Qui ci interessa soprattutto capire quali sono le lezioni che la sinistra italiana può trarre dal successo del Movimento 5 Stelle. Lo faremo a partire da un'accezione larga del termine “sinistra”, includendo cioè all'interno del suo recinto semantico anche una forza come il Partito Democratico che, per sua stessa volontà e ammissione, non è catalogabile come un partito di sinistra tout court, avendo reciso da tempo ogni legame con la stessa famiglia socialdemocratica europea.
Partiamo da un paradosso apparente, quello per cui abbiamo assistito ad una campagna elettorale in cui due miliardari sono riusciti, almeno in parte, ad apparire come i nemici dei poteri forti, mentre il figlio del benzinaio di Bettola non ha perso occasione per tranquillizzare i mercati. Paradosso solo apparente, perché non è un mistero che Pier Luigi Bersani fosse, di fatto, il candidato dei settori più concentrati del capitalismo italiano, l'uomo a cui si affidavano tanto i grandi istituti di credito quanto l'Unione Europea perché garantisse la stabilità dell'Italia e della moneta unica. Paradosso apparente, soprattutto, perché il moderatismo del gruppo dirigente del Pd non è certo una novità, e affonda le sue radici nella decennale tendenza, di derivazione pciista, a ritenere possibile un cambiamento radicale della società italiana procedendo sulla via del compromesso con i grandi poteri economici, con i loro referenti politici e con il Vaticano.
A qualcuno potrà sembrare sacrilego stabilire una linea di continuità fra i Togliatti e i Berlinguer, da un lato, e i D'Alema, Veltroni e Bersani dall'altro, ma l'ossessione di mostrarsi “responsabili” (agli occhi di chi conta) nell'ansia di accreditarsi come “classe dirigente”, non è un qualcosa che nasce con il Partito Democratico. Certo, il contesto, tanto italiano quanto internazionale, è per molti aspetti cambiato, la fraseologia usata dai dirigenti comunisti poteva essere a tratti ben più radicale di quella usata da un Bersani e il Pci era un partito con una solida base militante, fortemente radicato nella società e fra i lavoratori, ben diverso quindi dal partito “liquido” e d'opinione che per anni è stato teorizzato dagli epigoni di Occhetto. Eppure, tutto ciò non toglie che, allora come oggi, vi sia una sostanziale subalternità, un'incapacità di pensarsi alla guida di un progetto di cambiamento che possa camminare sulle proprie gambe, pur con tutte le difficoltà del caso. L'esempio più estremo e paradigmatico di questo tipo di atteggiamento è ovviamente fornito da quella che fu la corrente “migliorista” e dalla biografia politica di Giorgio Napolitano, ma l'educazione al moderatismo e al mantenimento dello status quo spacciata per realismo politico è una costante nella storia dei gruppi dirigenti del Pci-Pds-Ds-Pd.
Una tipica obiezione fa in genere capolino a questo punto: se è vero che la rincorsa al centro non paga, come spiegare il pessimo risultato di una lista come Rivoluzione Civile e, al suo interno, di ciò che rimane della cosiddetta “sinistra radicale”? Non hanno queste forze puntato esattamente su uno smarcamento dal Pd e su un'interpretazione “di sinistra” della battaglia contro l'austerità? E non se ne deve pertanto concludere che l'Italia, come disse Massimo D'Alema qualche anno fa, è un paese irrimediabilmente di destra?
Per rispondere a queste domande può forse essere utile tornare un momento al paragone fra il Movimento 5 Stelle e Syriza. Oltre alla capacità di farsi interpreti della domanda di cambiamento e della sofferenza sociale che ne è all'origine, le due forze politiche hanno in comune anche un'altra caratteristica: sono entrambe realtà che hanno saputo aspettare, vale a dire che hanno seminato e costruito nel tempo, mantenendo come propria stella polare quella di un profilo autonomo e indipendente, capace di occupare, in presenza di condizioni oggettive radicalmente mutate, un preciso spazio politico. Sono dieci anni che Syriza esiste, e per lungo tempo è stata una forza decisamente marginale nella vita politica greca. Nata nel 2004 come forma di coordinamento permanente fra diverse realtà della sinistra radicale, la coalizione guidata da Alexis Tsipras ha attraversato diversi momenti di crisi, determinati anche da un aspro dibattito interno fra la componente, sempre risultata maggioritaria, che rifiutava ogni alleanza con il Pasok e una corrente di destra che premeva per un'accordo tattico con i socialisti. Se, in presenza di una situazione sicuramente drammatica, Syriza ha potuto prima triplicare e poi quintuplicare i propri consensi, è anche perché i suoi dirigenti non hanno fatto passi falsi negli anni immediatamente precedenti. Si pensi quale sarebbe oggi la situazione, in Grecia, con un partito neonazista che sfiora il 12%, se Tsipras e soci si fossero prestati in passato a governare insieme allo screditatissimo Pasok...
Analogamente, Grillo non ha avuto fretta nel costruire il proprio movimento, concentrandosi innanzitutto sulla definizione della propria agenda, lavorando alla propria riconoscibilità pubblica e puntando a creare una comunità coesa e motivata. Ha sviluppato nel tempo un profilo radicalmente autonomo e indipendente dai due schieramenti avvicendatisi al governo negli ultimi anni e, se non è stupido (e non lo è) eviterà ora di stringere accordi organici con chicchessia, di proporre ad altri la propria agenda in una condizione che rimane comunque, nella aule parlamentari, di subalternità numerica. Punterà piuttosto a sviluppare ulteriormente i propri consensi e l'egemonia delle proprie parole d'ordine nella società, per passare all'incasso al momento debito. Attualmente, stando sotto i riflettori e disponendo di un nutrito drappello di deputati e senatori, può dedicarsi a quest'opera di ampliamento delle proprie basi di consenso con tanta più facilità e rapidità. La fase “eroica” della costruzione molecolare dell'organizzazione, per lui, si è definitivamente conclusa.
Ora, è del tutto evidente che una lista come Rivoluzione Civile è quanto di più lontano dal modello che abbiamo appena delineato. La creatura di Ingroia è nata in fretta e furia all'ultimo momento, quando era ormai chiaro che non c'erano più i margini per un'alleanza col Pd, scimmiottando l'impostazione legalitaria dei grillini sin dalla scelta del candidato premier e poi tentando di riempirla goffamente di contenuti “sociali”. Nel complesso si è trattato di un progetto raffazzonato e improvvisato, subalterno da un lato all'asse Pd-Sel (col quale la rottura è stata tardiva e costantemente rimessa in discussione durante la campagna elettorale dalle dichiarazioni di alcuni candidati eccellenti) e, dall'altro, proprio al Movimento 5 Stelle.
Date tali caratteristiche, rimane da capire cosa abbia spinto il gruppo dirigente di un partito come Rifondazione Comunista a imbarcarsi in un simile progetto, se non lo spauracchio di una nuova esclusione dal Parlamento (che è poi puntualmente arrivata). E dire che il Prc, nel periodo immediatamente successivo alla catastrofica esperienza dell'Arcobaleno e dopo la scelta unilaterale dell'ex maggioranza bertinottiana di abbandonare il partito, sembrava aver capito che il lavoro da fare per ricostruire la sinistra non poteva che essere di lunga lena, lavorando innanzitutto all'edificazione delle fondamenta del proprio radicamento sociale e della propria indipendenza reale dai poteri forti (nonché dalle loro cinghie di trasmissione politica). Propositi che, tuttavia, si sono rapidamente sciolti come neve al sole per via degli ulteriori errori accumulatisi negli anni successivi, segnati dal ritorno in grande stile della logica del “condizionamento a sinistra” del Pd (stavolta in forma di farsa, visto il risicatissimo potere contrattuale di una forza politica ormai ridotta al lumicino), dal sostanziale abbandono dell'opera paziente di radicamento nei luoghi del conflitto e, da ultimo, da un'unità d'azione posticcia con forze e personalità delle quali il minimo che si possa dire è che sono estranee alla tradizione del movimento operaio.
Detto questo, è evidente che la situazione è oggi piuttosto complessa, e che nessuno ha la soluzione in tasca. Ripartire dal rifiuto di ogni ipotesi di alleanza con il centro (che oggi comprende anche il Pd, vista l'eterogeneità di quel partito), lavorare alla costruzione di un profilo programmatico e organizzativo indipendente e investire, prima ancora che sul momento elettorale, sul necessario insediamento sociale sono tutte cose essenziali ma, allo stato attuale, verosimilmente insufficienti. I rimasugli della gauche de la gauche italiana sono ormai ben poca cosa, tanto in termini di peso elettorale quanto relativamente alle energie militanti che riescono a mobilitare. Non può non essere fonte di riflessione, allo stesso tempo, il fatto che un sindacato come la Cgil e in particolare, al suo interno, la Fiom, rimangano le uniche strutture organizzative di massa in cui, pur fra mille ambiguità e difficoltà, si riconoscono centinaia di migliaia di lavoratori italiani.
Intendiamoci: non vogliamo qui reiterare il solito appello a Landini perché “scenda in politica”: un altro vizio che la sinistra italiana si è portata appresso per troppo tempo è proprio quello del liderismo e dell'attesa messianica di una figura salvifica. Vogliamo semplicemente far notare che, mentre la sinistra politica si dibatte in una crisi gravissima, quella sindacale, metalmeccanici della Cgil in primis, tutto sommato tiene. È stata la Fiom ad animare tutta una serie di lotte degli ultimi anni, a partire da quella, fondamentale per il suo valore simbolico, di Pomigliano. Il ruolo di supplenza politica ricoperto dal sindacato di Maurizio Landini in assenza di una sinistra forte e unita è già da tempo un fatto oggettivo e, del resto, di frangenti storici che hanno visto nascere nuove organizzazioni politiche a partire da un ciclo di lotte sindacali se ne potrebbero citare diversi. La Fiom, così come alcune componenti del sindacalismo di base, rappresenta un incubatore di energie militanti e di cultura organizzativa dal quale qualsiasi tentativo futuro di far uscire la sinistra italiana dalle secche in cui si è incagliata non potrà prescindere. Ma un eventuale partito del lavoro che nasca su queste basi non vedrà mai la luce se prima non si comprende che l'attuale radicalizzazione del quadro politico ha definitivamente sancito la fine dell'epoca dei tatticismi e delle alleanze a perdere.
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