Ho trascorso la settimana in Spagna, a Malaga,
a una Scuola estiva della Cattedra Unesco di quella Università. Il
tema della sezione a cui ho partecipato come relatore era “L’impegno
degli intellettuali”. Seguivo, naturalmente, la notizie sempre più angosciose
provenienti dalla terra martire di Palestina, constatando l’assoluta
“distrazione” del ceto politico, rispetto a quei fatti di sconvolgente
gravità, e il totale disinteresse, salvo pochissime eccezioni, del
“mondo della cultura”.
Ricordo altre stagioni, come
l’invasione del Libano e la guerra contro Hezbollah, del luglio 2006,
o il bombardamento di Gaza del dicembre 2008-gennaio 2009: stagioni
in cui fiorirono appelli, e la mobilitazione di professori, giornalisti,
letterati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denunciavano le
responsabilità di Israele, la sua proterva volontà di schiacciare
i palestinesi, invece di riconoscer loro il diritto non solo
a una patria, ma alla vita. Oggi, silenzio. La macchina schiacciasassi
di Matteo Renzi , nel suo micidiale combinato disposto con Giorgio Napolitano,
si sta rivelando un efficacissimo apparato egemonico.
L’intellettualità “democratica”, facente capo per il 90% al Pd, appare allineata e coperta. I grandi giornali, a cominciare dal “quotidiano progressista” di De Benedetti, sempre in prima linea a sostenere le nuove guerre, dal Golfo alla Jugoslavia, appaiono organismi perfettamente oliati di sostegno al governo da un canto, e di adeguamento alla politica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washington, Londra, Bruxelles e Berlino (Parigi, caro Hollande, ne prenda atto, non conta un fico). Della radiotelevisione non vale neppure la pena parlare; come per l’Ucraina, ora, nella ennesima micidiale aggressione israeliana a Gaza, si sono raggiunti vertici non di disinformazione, ma di semplice rovesciamento della verità. La categoria del “rovescismo”, che mi vanto di aver creato, per la storiografia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.
L’intellettualità “democratica”, facente capo per il 90% al Pd, appare allineata e coperta. I grandi giornali, a cominciare dal “quotidiano progressista” di De Benedetti, sempre in prima linea a sostenere le nuove guerre, dal Golfo alla Jugoslavia, appaiono organismi perfettamente oliati di sostegno al governo da un canto, e di adeguamento alla politica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washington, Londra, Bruxelles e Berlino (Parigi, caro Hollande, ne prenda atto, non conta un fico). Della radiotelevisione non vale neppure la pena parlare; come per l’Ucraina, ora, nella ennesima micidiale aggressione israeliana a Gaza, si sono raggiunti vertici non di disinformazione, ma di semplice rovesciamento della verità. La categoria del “rovescismo”, che mi vanto di aver creato, per la storiografia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.
E devo constatare che mai in passato
si erano raggiunti simili livelli: dove sono le zone franche? Fa impressione
sfogliare la balbettante Unità,
che un tempo non lontano, con tutti i suoi limiti, accanto a Liberazione (defunta) e al manifesto (che resiste!), era una delle poche
voci critiche nel deprimente panorama all’insegna del più esangue
conformismo.
Sulle pagine del manifesto (15 luglio)
Manlio Dinucci ha spiegato bene le ragioni reali del “conflitto” in corso,
e non ci tornerò. Qui mi preme piuttosto evidenziare, con sgomento,
che il “silenzio degli intellettuali” che qualche anno fa Alberto Asor Rosa
denunciava, deplorandolo fortemente, è divenuto non soltanto una
condizione di fatto, ma una posizione “teorica” che, accanto a quella
dell’equidistanza, sta trovando i suoi alfieri. Appunto, rientrando
dalla mia settimana spagnola, di intense discussioni sulla necessità di
impegnarsi, a cominciare dal mondo universitario, cado dalle nuvole
leggendo lacerti di pensiero che configurano la nascita di una sorta di
“Partito del silenzio”.
Il silenzio non viene soltanto
praticato, sia «perché dovrei espormi?», sia perché la pressione della
lobby sionista è fortissima e induce a tacere se proprio
non vuoi esprimere la tua gioiosa adesione alla “necessità” degli israeliani
“di difendersi”. Il silenzio, oggi, a quanto pare, è divenuto una
divisa, una bandiera, e una ideologia.
Quei pochi che parlano, che osano
aprire bocca, premettono il riconoscimento delle ragioni di Israele
e condannano in primo luogo rapimento e uccisione dei tre ragazzi
ebrei, poi uccisi (si tralascia di dire che si tratta di tre giovani coloni,
ossia occupanti, con la violenza dell’esercito, terra palestinese),
e il lancio di razzi Kassam contro le città del Sud di Israele,
e cercano poi di cavarsela con un colpo al cerchio e una alla
botte. Ma attenzione, se il colpo alla botte israeliana appare troppo sonoro,
ecco che si scatena l’inferno, non di fuoco come su Gaza, ma di parole.
Molto praticato il genere “commenti”
agli articoli on
line, per esempio: sono tutti uguali, anche se variamente dosati
nel tasso di violenza verbale. Mentre un gran lavorio di informazione al
contrario, di diretta provenienza da fonti israeliane, viene dispiegato
dagli innumerevoli piccoli dispensatori di verità nostrani. Per esempio
un pur prudente articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera (17 luglio) che si permetteva di
accennare alle ragioni dei palestinesi, ha ricevuto la sua buona dose di
ingiurie. Non c’è che dire, il sistema funziona. E finisce per indurre
al silenzio, o quanto meno alla prudenza. Che è l’altro nome del
silenzio.
Ma non è questo silenzio,
il silenzio del ricatto, che mi preoccupa di più. È, invece, il silenzio
della scelta. Il silenzio teorizzato come terza via, tra coloro che incondizionatamente
sono con Israele, e gli altri, quelli che sostengono la causa palestinese.
Il silenzio come rispetto del dolore, o come via della ragionevolezza:
contro gli opposti estremismi. Esemplare in tal senso Roberto Saviano,
che, quasi commettendo autogol, cita Euromaidan per denunciare il tardivo
schierarsi anche italiano dalla parte giusta, che per lui, ovviamente,
è quella dei golpisti nazisti di Kiev. E ora, a suo dire,
occorre schierarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della
pace»: i “terroristi” di Hamas sono indicati come il primo nemico della
pace, ovviamente.
È la linea (solita) di Adriano
Sofri (la
Repubblica, 17 luglio), altro guerriero democratico, che ripartisce
torti e ragioni, equiparando i razzi di Hamas alle bombe israeliane,
e invoca implicitamente silenzio, discrezione, rispetto: mette sullo
stesso piano tutti. Tutte le vittime innocenti. Ma si può confondere la
pietà umana, doverosa, col giudizio politico? Si può trasformare
l’opinione in saggezza?
Sul medesimo giornale, Michele
Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbassare la voce e gli
occhi, davanti alla “tragedia” della guerra, lo stesso termine usato da
Magris. Ma quale tragedia? Qui abbiamo la politica, e la politica ha
degli attori, dei responsabili: come in passato la divisione tra vittime
e carnefici è netta ed evidente (so che qualche anima bella mi
accuserà di semplificare: la cosa è più complessa, non si può dividere
così nettamente, ciascuna delle due parti ha un pezzo di responsabilità
e via di seguito). Serra scrive: «Evidentemente il ‘ciclo
dell’indignazione’ è un meccanismo logoro».
Dal ceto intellettuale mi
aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se
non in perfetta malafede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di
Primo Levi: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci
fatto diventare come loro».
Quanto bisogno avremo di sentire
la sua voce risuonare, pacata e ferma, scandendo le parole, a voce
bassa, ma chiarissima: «La tragedia è di vedere oggi le vittime diventate
carnefici». E se questo era evidente a lui negli anni Ottanta del
Novecento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi straziati
di bimbi, alla vita cancellata in tutta la Striscia di Gaza, davanti
a quelle macerie che occupano, quartiere dopo quartiere, isolato dopo
isolato, di ora in ora, lo spazio affollato di case e persone?
Se non denunciamo le menzogne
dei media, le complicità dei governi occidentali, con quello di Tel Aviv,
in particolare l’oscena serie di accordi (militari, innanzi tutto)
dell’Italia con Israele… Se ci consegniamo al silenzio, oggi, davanti
a una ingiustizia così grave,così palese, così drammatica, quando parleremo?
Insomma, non intendo tacere, e ricorrendo proprio alle parole di quel
grande uomo, gridare: «Se non ora, quando?».
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