Con questa intervista a Luciano Vasapollo arriviamo alla terza puntata del ciclo di interviste il fascino discreto della crisi economica.
Vasapollo è docente universitario di Metodi di Analisi dei Sistemi
Economici presso “La Sapienza” di Roma. Grande conoscitore dei paesi del
Centro e Sud America, Vasapollo è anche Professore all’Università
«Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba). Dirige il centro
studi CESTES e la rivista Proteo. Il suo ultimo libro è “Un sistema che
produce crisi. Metodi di analisi dei sistemi economici” (Jaca Book,
2013).
L’emergere
della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi
secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in
crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono.
Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della
rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente
meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un
abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è
stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio
della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo.
Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman,
ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella
distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite
l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta
improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?
V: Innanzi tutto non mi piace la definizione di
“eterodossi”, nel senso che è una definizione accademica dentro la quale
finiscono tutti coloro che, in una maniera o in un’altra, sono critici
rispetto al neoliberismo; quindi tra gli eterodossi possiamo trovare
posizioni fra loro molto diverse.
Io preferisco parlare, per quanto mi riguarda, della mia collocazione non tanto come economista, ma come militante marxista, che si occupa ovviamente di economia e di politica internazionale, e che lo fa in maniera militante, ossia intrattenendo relazioni nazionali ed internazionali con movimenti sociali e movimenti sindacali di base.
Io preferisco parlare, per quanto mi riguarda, della mia collocazione non tanto come economista, ma come militante marxista, che si occupa ovviamente di economia e di politica internazionale, e che lo fa in maniera militante, ossia intrattenendo relazioni nazionali ed internazionali con movimenti sociali e movimenti sindacali di base.
Movimenti a cui spero di aver dato, in oltre 40 anni di attività, un
piccolo contributo di analisi. Io penso di avere ricevuto molto da loro
perché, come dico sempre, se non si riesce a percepire il modificarsi,
il trasformarsi della realtà, si diventa un intellettuale da tavolino.
Quindi la cosa che posso dire con certezza è che sono e sono stato un
militante, se mi si possa considerare un intellettuale o meno è da
vedere, perché la mia è una concezione fortemente gramsciana da questo
punto di vista, ossia il problema centrale è quello dell’intellettuale
organico e dell’intellettuale collettivo. Volevo fare insomma questa
premessa come precisazione, ma anche come collocazione di pensiero
all’interno di un’area.
Quando parlo di area intendo un’area di compagni, intellettuali e
marxisti, che lavora insieme a livello internazionale da molti anni. Nel
2004 si è formalizzata la Rete in Difesa dell’Umanità: dentro questa
rete, molto viva in America Latina, oltre a me troviamo anche
intellettuali come James Petras e Atilio Boròn.
Purtroppo l’involuzione della sinistra anche radicale europea verso
l’eurocentrismo e il sostanziale abbandono dell’ipotesi di classe ha
fatto sì che gli europei con un punto di vista simile siano diventati
sempre di meno. Qui in Italia è l’area che gira intorno all’USB, in
particolare il centro studi che dirigo insieme a Rita Martufi, il
CESTES. Noi sulla questione della crisi abbiamo scritto molto, anche in
tempi non sospetti. Già negli anni 90 eravamo usciti con libri,
convegni, quaderni etc. in cui ponevamo due questioni: che la crisi
fosse di natura sistemica; che la costruzione dell’unione europea fosse
di carattere imperialista. Queste due idee negli anni ’90 ci provocarono
grossi scontri non solo con gli euro-liberisti e con i Keynesiani, ma
anche con i cosiddetti i “Keynesiani di sinistra” e anche con molti che
si definiscono ancora oggi marxisti, alcuni dei quali rientrano credo
nella vostra categoria di “eterodossi”, ma sulla cui impostazione
marxiana io ho molti dubbi.
Dal punto di vista dell’analisi marxiana c’è una specifica
caratterizzazione tra i modi di presentarsi e di essere delle crisi;
possiamo così ben distinguere differenziando la crisi congiunturale (o
ciclica), la crisi strutturale, e con modalità di crisi ancora diversa è
quella sistemica, in cui la crisi di sovrapproduzione e
sovraccumulazione non trova soluzione in termini di rilancio della
conveniente valorizzazione dell’intero ciclo che attende il modo di
produzione capitalistico. Da qualche anno tutti parlano di crisi
sistemica, ma secondo me utilizzano il termine in maniera scorretta, in
quanto in realtà molti intendono crisi globale, non crisi del sistema.
Quali sono le differenze?
Quella che voi nella domanda chiamate “natura strutturale” dovrebbe
essere chiamata “natura ciclica” della crisi: ovvero, nell’analisi delle
crisi attraverso gli strumenti marxiani, la teoria del valore e la
lettura del Modo di Produzione Capitalistico, è sempre stato
sottolineata la necessità, da parte del capitale, di distruggere le
forze produttive in eccesso per ristabilire quell’equilibrio che viene
chiamato “equilibrio di valorizzazione del ciclo”. Quello che spiego
spesso ai miei studenti è che quando si parla di sovrapproduzione non si
intende che ci siano “troppe” merci in circolazione (loro giustamente
mi direbbero, come potrebbero esserci troppe merci se la gente muore
ancora di fame?), in quanto la sovrapproduzione non si misura un termini
di bisogni da soddisfare, ma in termini di mercificazione e di
profitto, ed è quindi un problema di ciclo di valorizzazione. Quindi
diciamo che di crisi congiunturali (o cicliche) ne abbiamo avute molte
dal 1850 ad oggi, c’è chi dice 110, chi dice 130.
In questa categoria di crisi l’unico elemento usato dal capitale è
quello di abbattere le rigidità, di ridurre le forze produttive in modo
da rilanciare il tasso di profitto (nota, non tanto la massa di
profitto), e questo significa distruggere capitali in eccesso, significa
concentrazione di capitale e quindi fusioni, acquisizioni, creazioni di
oligopoli, significa accorpamenti finanziari, e significa anche, cosa
più importate, l’abbattimento della rigidità del costo del lavoro, e
quindi disoccupazione strutturale, precarietà, le mille forme di
razzismo nel mondo del lavoro etc.
L’unica crisi che in termini marxiani probabilmente si può
evidenziare come crisi strutturale, e lo dicevamo anche negli anni ’90, è
quella del ’29. Quella crisi infatti passa da ciclica a strutturale, in
quanto oltre ai fenomeni normali della crisi ciclica presenta anche un
fenomeno importante di crisi di accumulazione: ovvero il modello di
accumulazione precedente non garantisce più la valorizzazione del ciclo.
Tant’è vero che la crisi del ’29 assomiglia molto alla crisi di oggi
anche nel fatto che si è presentata come crisi finanziaria (se guardiamo
i filmati dell’epoca vediamo la corsa agli sportelli delle banche),
quando invece era una crisi sui fondamentali macroeconomici. Come si è
usciti da quella crisi? In primo luogo, con la messa a produzione di
massa del fordismo e del taylorismo; in secondo luogo con la
massificazione di una nuova forma di energia, ossia con la sostituzione
dell’energia della seconda rivoluzione industriale, il carbone, con il
petrolio; infine con il Keynesismo termine con il quale non s’intende (e
questo è un errore che molti economisti fanno) il subentrare della
spesa sociale bensì il subentrare della spesa pubblica: lo stato diventa
interventista, entra nell’economia accrescendo la domanda aggregata
attraverso la spesa pubblica. Certo, una parte della spesa pubblica
diventa anche spesa sociale, grazie alla conflittualità che riesce ad
esprimere il movimento di classe e il movimento operaio. Là dove il
movimento di classe è capace di imporre attraverso le lotte una
redistribuzione, abbiamo la nascita al fianco del salario diretto di un
salario indiretto, ovvero la spesa sociale (ospedali, scuole etc). Ma
per la maggior parte il Keynesismo è spesa pubblica, e in particolare
spesa pubblica militare; tant’è che si esce dalla crisi del ’29, come da
tutte le grandi crisi, con la guerra. Gli Stati Uniti si preparano alla
guerra attraverso spesa pubblica militare, bombardano l’Europa senza
ricevere danni in patria e riescono così ad imporre la loro leadership.
Fanno poi partire il cosiddetto “Miracolo Economico”, la ripresa del
dopoguerra, attraverso un’altra forma di Keynesismo, quello della
ricostruzione, anch’esso militare nel senso di inserito nella logica “ti
distruggo per poi finanziare la tua ricostruzione”.
Ma la vera fine della crisi arriva soltanto con gli accordi di
Bretton Woods nel 1944, che prevedevano un sistema internazionale di
cambi fissi in cui ogni valuta del mondo era convertibile in dollari, ed
i dollari erano convertibili, presso la banca centrale statunitense, la
FED, in oro. Dopo la guerra si apre una fase che è stata tutt’altro che
pacifica, dove i momenti critici sono stati risolti pur sempre
attraverso il Keynesismo militare (se ne potrebbero nominare molti, ad
esempio la guerra di Corea e la guerra del Vietnam). Ma dopo qualche
decennio la leadership degli Stati Uniti comincia a entrare in crisi –
ed è questa la lettura che noi diamo della crisi sistemica.
Secondo me il momento critico è la rottura degli accordi di Bretton
Woods del 1971. La Federal Reserve si accorge all’epoca che la quantità
di dollari (o titoli denominati in dollari) in circolazione
corrispondeva a più di sei sette volte il valore delle sue riserve
aurifere, e che di conseguenza non era più in grado di garantire la
convertibilità in oro. Gli Stati Uniti dichiarano quindi unilateralmente
la fine del sistema di Bretton Woods. Tuttavia a questo punto
un’economia fortemente importatrice come quella degli Stati Uniti per
sostenersi si trova costretta ad accrescere il proprio indebitamento,
sia interno che internazionale, ma questo significa che ci deve essere
qualcuno che acquista questi titoli di debito. E come fanno gli USA a
garantirsi ciò? Per prima cosa con la potenza militare; in secondo luogo
con la potenza del dollaro, ovvero imponendo il dollaro come riserva
valutaria internazionale. In particolare, con la dollarizzazione
completa, diciamo così, del mercato del petrolio, e con il ricatto
dell’esclusione del commercio di quella che è l’area maggiormente
importatrice del mondo, ovvero l’area statunitense. Come rispondono le
altre potenze a questo? Giappone e Germania, i due paesi usciti
sconfitti dalla Seconda Guerra Mondiale, si attrezzano per rispondere.
Ecco perché parliamo da anni di competizione globale, ossia di scontro
inter-imperialistico, un termine che preferisco rispetto a
“globalizzazione”.
Germania e Giappone si organizzano in maniera diversa, tant’è che si
inizia a parlare di forme diverse di capitalismo. Mi spiego: il modo di
produzione capitalista è uno, ma ci sono diverse forme di capitalismi.
In contrapposizione al capitalismo anglosassone aggressivo e selvaggio,
tipico di USA e UK, si forma e si attiva un capitalismo
Renano-Nipponico, cioè un modello basato di più sulla compartecipazione,
sul consociativismo, sulla concertazione, cioè uno scambio con le
organizzazioni dei lavoratori: salari più alti in cambio di pace
sociale. Quindi, possiamo dire, un capitalismo con senso sociale.
Dall’altra parte, ci si attrezza con l’industria qualificata,
un’industrializzazione di alto livello tecnologico; con un ruolo forte
dell’economia pubblica, statale; e con modelli basati sull’esportazione,
e non sull’importazione come quella statunitense.
Il Giappone viene piegato all’inizio degli anni ’90 dalla
speculazione finanziaria, che vedeva in esso un nemico – tant’è vero che
guardando all’andamento del PIL (un criterio inappropriato per misurare
la crescita, ma con cui purtroppo dobbiamo avere sempre a che fare)
negli ultimi 30-35 anni si può vedere come il Giappone sia rimasto
praticamente sempre in stagnazione, se non in recessione. Il Giappone è
stato quindi sconfitto, anche per la prepotente entrata nel mercato
asiatico della Cina.
I conti con la Germania però non vengono fatti, e la Germania
continua ad avere questo modello esportatore, con la sua industria
forte, di qualità. Da sempre, per affermarsi, una potenza ha bisogno di
mercati, e I primi mercati sono i mercati interni. Infatti lo sviluppo
degli Stati Uniti è avvenuto in quello che chiamavano il cortile di
casa, cioè nell’America Latina, da cui estrae risorse e con cui sviluppa
relazioni di natura neocoloniale.
La Germania, per imporre il proprio modello di industrializzazione,
deve deindustrializzare, ovvero deve far sì che si deindustrializzino i
paesi a lei vicina: per cui, già negli anni Ottanta cominciano I grossi
processi di delocalizzazione produttiva e di deindustrializzazione per
esempio nei c.d. PIGS (questo volgarissimo nome che è l’acronimo di
Portogallo Grecia Italia e Spagna che poi significa “i maiali”).
Parallelamente a questo, ha senso riflettere su cosa ci guadagna l’imprenditore, diciamo quello italiano, dalla delocalizzazione, ad esempio in paesi dell’Est Europa.
Parallelamente a questo, ha senso riflettere su cosa ci guadagna l’imprenditore, diciamo quello italiano, dalla delocalizzazione, ad esempio in paesi dell’Est Europa.
Lì può trovare forze produttive, in particolare forza lavoro
specializzata ma non sindacalizzata e a basso salario, e guadagnarci
così in termini di competitività, ricavando qualche briciola nel mercato
internazionale. Parallelamente a questo, mentre in Germania e Francia
l’economia statale continua a mantenere un ruolo importante, qui da noi
vengono imposte le privatizzazioni, che portano ovviamente a
licenziamenti di massa e a forti tagli del costo del lavoro, e in
generale ad un abbattimento di quello che era il modello italiano di
economia mista.
Ecco da dove nasce la crisi sistemica: la crisi è sistemica perché,
mentre la Germania si attrezza nel modo descritto sopra, la competizione
si fa più aspra in quanto entra in crisi la seconda rivoluzione
industriale, ovvero il modello Fordista non risponde più ai criteri di
accumulazione. Si noti bene: questo non significa che sparisca, si
sposta semplicemente in aree differenti. La questione è che non esiste,
ad oggi, un nuovo modello di accumulazione che valorizzi completamente
il ciclo.
Voglio dire semplicemente che non è vero che in questo periodo di
crisi (dicono che parta dal 2007, ma il 2007 è un epifenomeno, la crisi
parte dagli anni Settanta, è un ciclo lungo) sia diminuita la domanda
mondiale – e dicendo questo quindi contrasto le tesi di chi dice, e sono
molti purtroppo tra marxisti e keynesiani, che questa “è una crisi di
sottoconsumo”. La crisi di sottoconsumo è indotta, questa è una crisi di
sovrapproduzione e di sovraccumulazione, dove cresce la domanda a
livello globale, cresce la massa del profitto (se consideriamo come
massa del profitto l’insieme delle rendite immobiliari, finanziarie e di
profitto) ma diminuisce il tasso di profitto. Cosa significa questo?
Che si necessitano sempre più investimenti per realizzare la stessa
massa di profitto: per chiarire la questione con un semplice esempio, se
prima realizzavo 10 investendo 100, e quindi avevo un tasso di profitto
del 10%, oggi per realizzare quel 10 devo investire 200 e quindi il mio
tasso di profitto è del 5%. Quindi la, appena illustrata, caduta
tendenziale del saggio di profitto comporta la necessità di un
investimento sempre crescente, e questo si può realizzare solamente
attraverso un nuovo sistema di produzione che sappia valorizzare il
ciclo in modo da rilanciare un conveniente piano di accumulazione per il
capitale, come avvenne per la crisi del ’29, con la messa a produzione
di massa del fordismo-taylorismo, dell’interventismo produttivo statele
con la spesa pubblica e la possibilità dell’uso massificato della nuova
energia da petrolio.
Oggi la cosiddetta economia informatica, telematica ecc, non mette a
vantaggio in termini di tasso di profitto un nuovo modello. Questo
significa che la crisi è sistemica perché è di sovraccumulazione, e il
capitalismo da questa crisi non ne esce.
Detto questo, dire che a causa di ciò domani sorge il socialismo e
meccanicamente nasce il sol dell’avvenire significa non considerare,
davanti all’oggettività dei problemi, la questione della soggettività
rivoluzionaria, che oggi non c’è, e ciò che c’è non è assolutamente
adeguato ai duri compiti della rottura per la transizione.
Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che
l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in
ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É
quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione
Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi.
Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più
in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un
potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di
classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è
il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea?
V: Nel rispondere mi collego all’ultima parte della prima
risposta. L’Unione Europea nasce proprio intorno a quella locomotiva
tedesca di cui parlavo prima. Si deve sviluppare un’area e si deve dar
voce, potere economico e potere politico, ad una borghesia
transnazionale europea, che non è solo borghesia tedesca, ma all’interno
della quale la struttura produttiva tedesca ha un ruolo prioritario.
Come dicevamo prima, ogni volta che si crea, per così dire, un “blocco”,
ovvero un’area politica, commerciale ed economica, c’è bisogno di una
forma di colonialismo interno, e in quest’ottica abbiamo parlato dei
processi di deindustrializzazione, e di come per favorire l’export
tedesco si siano trasformati dei paesi da industrializzati, per esempio
l’Italia, a paesi importatori. La questione è che c’è la necessità di
una compensazione nelle bilance dei pagamenti: qualcuno deve chiudere la
bilancia dei pagamenti in rosso in modo che qualcun altro possa
chiuderla in avanzo. La Germania ha bisogno di questo, ma bisogna
considerare che nella bilancia dei pagamenti ci sono tre saldi: il saldo
che possiamo chiamare economico, il saldo dei movimenti di capitale e
il saldo monetario.
Il saldo monetario fa sì che, perché un blocco possa diventare
competitivo a livello internazionale, si debba dotare oltre che di
strutture economiche adeguate, anche di un’area monetaria. Ecco perché
distinguiamo, per dire, l’area economica produttiva statunitense
dall’area del Dollaro. Questa costruzione, questo modello esportatore
tedesco, necessita un’area produttiva, che è quella europea. Ma
necessita anche di una moneta che possa competere col Dollaro persino
come riserva di valore internazionale ed il Marco non poteva in alcun
modo svolgere questo ruolo. Ecco il perché della nascita dell’Euro. Ma
come viene costruita questa moneta? L’Euro non nasce come paniere tra
monete, in cui cioè ogni paese partecipa alla costruzione della nuova
moneta in funzione della propria capacità produttiva. Al contrario, ogni
paese partecipa come se avesse la stessa capacità produttiva ed
economica della Germania. Tanto è vero che – anche qui vi cito un
esempio che faccio spesso con i miei studenti – i nostri migliori
economisti dell’epoca erano probabilmente le persone che andavano al
mercato e si accorgevano che riuscivano a comprare con un euro più o
meno quello che prima riuscivano a comprare con 1000 lire, mentre il
cambio ufficiale era intorno alle 1900 lire. Questo ha significato
ovviamente un incredibile attacco alle condizioni di vita dei lavoratori
dell’Italia e di tutta l’area mediterranea, con un abbattimento enorme
del potere d’acquisto.
Come ho già detto, ma ci tengo a sottolinearlo ancora, questa
costruzione dell’Unione Europea ha caratteri imperialisti. Il fatto che
non sia un processo compiuto è un altro discorso: non esiste ancora
effettivamente uno stato sovranazionale europeo, non c’è un esercito
comune, etc. Ma una cosa è certa: questa non è l’Europa dei popoli, non è
l’Europa riformabile, non è l’Europa a carattere sociale. Chi propone
queste tesi o è ignorante – io vado molto pesante – o non capisce che
cosa sia in termini Leniniani l’imperialismo. O non capisce che questa è
una crisi sistemica, oppure è in malafede: questo perché potrei pensare
ad una riformabilità dell’Unione Europea in primo luogo se non avesse
caratteri imperialistici, e in secondo luogo se ci trovassimo in una
fase di crescita.
La questione che la domanda sembra sollevare è se ci sia un’economia
più forte che è quella statunitense e una più debole che è quella
dell’Europa. Secondo me è più sensato riflettere su quali siano le
contraddizioni in questi due poli imperialisti.
Bisogna guardare alle caratteristiche interne. Come si fa a dire che
oggi gli Stati Uniti vadano meglio, se la più grande crisi,
l’epifenomeno di cui parlavo prima, cioè la crisi dei subprime ecc.
viene dagli Stati Uniti e le prossime bolle speculative scoppieranno
proprio a partire da questo polo imperialista?
È vero che gli Stati Uniti oggi appaiono in ripresa, ma questo è
dovuto alla gigantesca immissione di liquidità ad opera della FED.
Questo però porterà senza dubbio a nuove bolle speculative, e questo lo
dico non perché faccio il mago delle previsioni (non credo alle
previsioni in economia), ma perché ci sono tutti i presupposti perché
ciò avvenga: l’immissione di liquidità ha stimolato nuovamente la
speculazione immobiliare, e ci sono anche serie basi per una nuova crisi
finanziaria, questa volta però non sui titoli obbligazionari ma su
quelli azionari. Ci sono una serie di imprese multinazionali che vengono
incredibilmente sopravvalutate in modo tale da attirare liquidità e poi
reimmettere questa liquidità nel sistema finanziario. Ma la prima
regola del capitalismo è che prima o poi la bolla scoppia.
Faccio questo discorso perché ora la BCE sembra intenzionata a
seguire le orme degli USA, solo con un enorme ritardo, e inondare il
mercato di liquidità. Ora, i signori della BCE dovrebbero studiare i
loro manuali, non i miei, e capire per esempio che cos’è la trappola di
liquidità. Ma aldilà di questo, la questione è che questa è sicuramente
una fase di deflazione, però è una deflazione che proviene da una crisi
di sovrapproduzione: è la sovrapproduzione che ha generato
successivamente il sottoconsumo, non il contrario. È chiaro che se non
ci sono redditi da redistribuire, quando dicono in televisione:
“consumate, consumate”, l’unica risposta sensata è: “con che cosa?”.
Tuttavia, in quella che viene chiamata la tesi delle aspettative,
quando siamo in fase deflattiva (ovvero con attese di cali di prezzi e
di tassi di interessi), ognuno aspetta: aspetta la banca, perché tassi
di interessi minori favoriscono la speculazione; aspetta l’impresa
perché se i tassi di interesse calano può finanziare i propri
investimenti ad un costo minore; infine il consumatore aspetta che i
prezzi calino, siccome preferisce comprare ad 80 euro domani piuttosto
che oggi a 100 euro. Ora, perché questo non sta succedendo oggi? Intanto
perché tassi bancari più bassi di quelli attuali non possono esserci:
arriveremmo un tasso negativo, il che è economicamente insensato.
In secondo luogo, che cosa dovrebbe aspettare l’imprenditore? È vero
che a tassi più bassi c’è possibilità di un investimento maggiore, ma se
questa è una crisi di accumulazione, quale investimento potrebbe mai
garantirmi tassi di profitto adeguati se non addirittura crescenti? Se
abbiamo ragione nell’analisi, e ad una crisi di accumulazione si
accompagna la caduta tendenziale del saggio di profitto, questo non è
possibile.
Infine, il consumatore cosa deve aspettare? Di avere un salario
ancora più basso? Se oggi i salari medi sono quelli dei precari a
400-500 euro, tu puoi anche regalarmelo il denaro (nel senso di
prestarmelo a tassi di interesse zero), ma io ho una capacità d’acquisto
talmente bassa che al massimo mi ci potrei comprare qualche bene di
prima necessità in più ma contraendo in ogni caso la capacità d’acquisto
complessiva del mio nuovo salario.
Ecco, tutto questo ci fa capire che non esiste compatibilità con la
crisi, non esiste un area “buona” ed una “cattiva”. Ci sono solo due
aree imperialiste che tra loro perseguono fini imperialisti divergenti.
Si noti che quando dico divergenti non intendo diversi in maniera
sostanziale, ma solo che in periodo di crisi il conflitto
inter-imperialistico si fa più aspro. E infatti bisogna guardare anche
al di fuori dell’Occidente, per esempio ai c.d. BRICS.
Ora, per rispondere alla seconda parte della domanda, se l’analisi
della crisi è questa, la questione europea può essere risolta con il
ritocco dei trattati? Può essere risolta attraverso un’ipotetica
redistribuzione? Leggendo la realtà con questi strumenti, non possono
ovviamente essere queste le soluzioni. Noi pensiamo, e lo diciamo da
anni, che il polo imperialista europeo vada distrutto. La nostra ipotesi
è quella della costruzione delle condizioni per cui sia possibile
rompere con l’Unione Euroea, attraverso l’accumulo di forze dei
movimenti di lotta e la costruzione di una nuova soggettività di classe.
Un’uscita dall’Unione Europea, bada bene, non in termini
nazionalistici, ma attraverso un nuovo internazionalismo di classe, che
altro non vuol dire che lottare insieme a chi vive le proprie condizioni
di vita, di lavoro, di sopravvivenza, allo stesso modo. Che le
condizioni siano più simili tra un lavoratore italiano e uno, diciamo,
spagnolo, portoghese o greco, non preclude che anche al centro del
sistema, penso alla Germania ad esempio, vi siano condizioni di
precarietà incredibili.
Per concludere rispondendo in maniera netta alla domanda, noi
crediamo che liste elettorali come quella di Tsipras, pur essendosi
presentata alle elezioni con analisi anche corrette, non abbiano avuto
il coraggio di mettere all’ordine del giorno il fatto che la soluzione è
la rottura con questa Unione Europea, e per questo hanno fallito nel
loro intento, anche a prescindere dalle questioni di percentuali
elettorali, di cui non mi interesso. Se questa Europa è l’Europa del
massacro sociale, non esiste alcuna possibilità di convivenza al suo
interno.
Nell’occidente, la dottrina economica neoclassica è a livello
accademico da più di trent’anni a questa parte completamente dominante;
in maniera analoga anche le visioni sulla politica economica e sulla
crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un
teorico eterodosso oggi, ovvero ha senso una guerra di posizione
all’interno dell’accademia? Ha senso intervenire sulle modalità di
gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su
ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In
sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne
alla gestione magari in maniera più egualitaria, oppure no?
V: La risposta a questa domanda potrebbe concludersi in un
secondo. Il capitalismo non è riformabile, di conseguenza non ci sono
assolutamente le condizioni per una battaglia per la trasformazione
interna alle istituzioni. Il luogo di un intellettuale militante è la
strada: “Vamos por la calle” come dicono in America Latina. Mi spiego:
il nostro ruolo è studiare, però interloquiamo con movimenti sociali,
movimenti di base, le assemblee a democrazia partecipativa e i sindacati
conflittuali, cioè quelli non concertativi.
Usciamo dall’eurocentrismo, non pensiamo che nonostante non ci siano
le condizioni qui non ci possano essere da un’altra parte. Ricreiamo una
condizione di relazioni internazionaliste di classe dentro a quello che
è il conflitto chiave, ovvero il conflitto capitale-lavoro. Possono
esserci infatti vari tipi di conflitti,come il conflitto
capitale-ambiente, oppure quello capitale -democrazia, per carità, ma
sono tutti leggibili all’interno del conflitto capitale-lavoro.
Chiaramente questa domanda tocca delle corde personali, nel senso che
io sono un accademico e la domanda chiede “e allora in questa accademia
che fai?”. La risposta è che faccio il marxista, non faccio differenza
fra dentro l’accademia e fuori dall’accademia. I miei libri di testo
sono i libri che scrivo e di cui discuto nell’ USB, come con i contadini
senza terra, con i campesindios, con i rivoluzionari cubani, i
venezuelani, boliviani o dentro un centro sociale, un’assemblea dei
lavoratori di altre strutture di base e conflittuali, eccetera. Quello
che intendo è che non c’è differenza tra il mio curriculum, diciamo,
accademico e il mio curriculum, per dire, di militante.
Questa domanda non mi sorprende affatto, e fate bene a pormela, ma
cosa significa dire accademia, classici, neoclassici, neoliberismo? Che
cos’è l’informazione, la comunicazione, e quindi la cultura se non la
sovrastruttura di un qualcosa che è determinato dalle leggi del
capitale? Potremmo mai aspettarci un’accademia sociale, socialista e
aperta alle istanze del mondo del lavoro in un mondo capitalistico?
Sarebbe insensato dal loro punto di vista: la prima cosa necessaria al
capitale è il controllo delle menti. E come si fa? Attraverso le idiozie
della televisione, le idiozie dei romanzi, le idiozie dei libri di
testo.
È perfettamente accettabile e compatibile con questo sistema che la
nuova classe dirigente si formi assaggiando un po’ di critica, per
questo all’inizio dell’intervista ho criticato la nozione stessa di
“eterodossia”. Un sistema capitalistico moderno sa ben convivere con un
po’ di eterodossia.
Per fare un esempio, prendiamo la questione del conflitto
capitale-natura: sei ambientalista? Bene, ma così finiamo a parlare di
green economy, di sviluppo sostenibile, di modelli perfettamente
compatibili col modo di produzione del capitale. Queste dinamiche sono
ancora più sviluppate nei paesi in cui il capitalismo è più maturo che
da noi: negli USA ci sono dipartimenti interi di marxismo nelle
università, dipartimenti di ecologia etc. Ma qual è il problema? Il
problema è che vengono considerati delle riserve, qualcosa da preservare
ma che non può avere possibilità di interconnettersi con la società.
Sei marxista e quindi stai lì da parte, fai le tue cose e non mi
contaminare la società in termini di immettere il virus rivoluzionario
della possibilità della trasformazione radicale.
Ora, portando alle conclusioni estreme questo discorso, qualcuno
potrebbe chiedermi: allora come mai fai il professore? Il mio punto di
vista è che, come marxisti, dobbiamo vivere l’accademia come un posto di
lavoro, come una fabbrica del sapere e trovare come gli operai il
sistema di inceppare l’ingranaggio, di immettere nel sistema saperi
rivoluzionari, cultura di classe, sfruttare l’autonomia che tuttora
possiamo difendere nel proporre programmi e modalità di insegnamento,
essere incompatibili del sistema approfittando delle contraddizioni di
sistema, facendo dei saperi il bene comune per eccellenza. E nella
fabbrica, anche quando il livello della lotta era molto più alto, ci
sono sempre stati compagni all’avanguardia, più politicizzati, che
appartenevano ad un’organizzazione. Come c’erano le magliette a strisce o
i tanti operai venuti dal sud, come mio padre, che magari non avevano
una coscienza politica così radicata ma in compenso una grande rabbia e
facevano gli scioperi selvaggi, i blocchi, il sabotaggio della linea di
produzione, contrastando padrone ma anche la CGIL. C’erano quelli che
avevano la coscienza di stare fuori dal sistema capitalistico agendo in
maniera rivoluzionaria sul posto di lavoro, in maniera organizzata o
meno, e poi invece c’era quello che cercava solo il quieto vivere,
magari qualche ora di straordinario in più e di certe cose non voleva
neanche sentir parlare.
L’accademia è una catena di montaggio, è un esamificio, è un luogo di
una corruzione tremenda di cordate politiche e partitiche di baroni e
baronetti, dove si incrocia il peggio dell’omologazione e del produrre
saperi e menti per il sistema, per il perpretarsi di questa società del
capitale. È poi alla fine il luogo dove i saperi e i gestori di questi
saperi sono messi al servizio del potere.
Ora, che cosa può fare quindi un compagno, un rivoluzionario, un
marxista dentro l’accademia? Innanzitutto può fare in modo che ci siano,
non le voglio chiamare piccole isole felici, ma almeno dei luoghi in
cui accogliere compagni che non accettano queste logiche e mostrare a
tutti ma in primis agli studenti che non c’è solo il pensiero unico, che
la scienza non è neutrale, che esiste il pensiero di classe e in questo
chi propone saperi e modalità di trasmissione a favore del popolo che
vive di proprio lavoro o della costrizione al non lavoro, al lavoro
negato.
L’importante è che poi nel loro ruolo, che sia preside, direttore di
dipartimento o rettore non importa, si facciano portatori di quelle che
sono istanze anche rivendicative per il sapere, la cultura come primario
bene collettivo, di qualità, gratuito. Perchè sicuramente oggi
nell’accademia non puoi fare la rivoluzione, però si possono adottare,
per esempio, dei programmi di corso alternativi, contenuti di classe,
modalità di trasmettere valori etici, sociali, politici derivanti dalla
cultura popolare e destinati ad arricchire il patrimonio sociale, cioè
in termini marxiani far sì che si facciano passi in avanti nella
relazione fra sviluppo delle forze produttive e adeguatezza si rapporti
sociali a favore della classe dei lavoratori.
Non ci si può piegare alla compatibilità del consociativismo anche
culturale, come fanno molti miei colleghi, per paura di bruciarsi la
carriera. E giocati la carriera, dico io. Nello stesso spirito con cui
anche ai tanti operai, come mio padre, che protestavano, e magari
venivano anche arrestati durante gli scontri, avrebbero fatto comodo
centomila lire in più, anche loro avevano famiglie da sostenere. Però il
problema è la trasformazione, il conflitto e la visione collettiva di
un mondo diverso, senza piegarsi nell’individualismo.
L’accademico è inoltre anche un privilegiato, perché per quanto
abbiamo subito negli ultimi anni una contrazione di stipendio, un
professore prende tra i tremila e i quattromila euro al mese. Rispetto
alla vostra generazione, siamo sicuramente dei privilegiati. Ecco, di
fronte a questo un accademico dovrebbe mantenere quantomeno, e dico
quantomeno, lo spirito costituzionale: difendere fino in fondo
l’autonomia, la libertà di pensiero dei docenti universitari, di tutti..
Noi, a differenza di molte altri dipendenti statali, non siamo tenuti a
prestare giuramento di fedeltà allo Stato. Un professore marxista
dovrebbe entrare in classe il primo giorno e rivendicare la propria
appartenenza politica culturale, che non significa assolutamente
partitica a quella o altra organizzazione, ma semplicemente al mondo
culturale e di classe di riferimento. Questo non vuol dire chiedere agli
studenti di diventare tutti marxisti, ma avere almeno un’onestà
intellettuale maggiore di chi professa “io sono un tecnico e quindi sono
neutrale”. La neutralità della scienza non esiste. Tu ti poni per
quello che sei e proponi un pensiero diverso.
Insomma, l’accademia non è assolutamente svincolata da quello che sta
avvenendo nella società. I saperi non sono svincolati. Oggi si parla
tanto di beni comuni, ecco, sicuramente un bene comune centrale,
fondamentale, direi di prima necessità sono i saperi. In quest’ottica
una battaglia che propongo da anni è quella contro il diritto d’autore e
i brevetti. L’opera dell’ingegno deve essere socializzata, non può
essere proprietà della multinazionale che fa pagare un vaccino
cinquanta, cinquecento volte quello che costa.
Insomma, per riassumere, questa accademia sarà completamente
riformabile in chiave sociale quando il sistema sarà diverso. Questo
però non significa che non ci possa essere nel frattempo un ruolo, anche
importante, per un militante marxista all’interno di essa.
Dal suo punto di vista dove vede in questo momento, sia in italia
che nel resto del mondo, movimenti o contraddizioni interessanti con un
ruolo di rottura? Pensiamo ad esempio al caso della logistica in
Italia.
V: Innanzitutto, partendo dal nostro paese, metto sempre al
centro la questione dell’indipendenza dei movimenti. Per indipendenza
ovviamente non intendo indipendenza dalla politica. Qualsiasi movimento,
anche quello più stupido di opinione, è completamente politico. Per
indipendenza intendo quell’espressione forte che è autonomia di classe.
Non l’Autonomia con la a maiuscola degli anni settanta. Intendo quell’
indipendenza di classe che negli anni si è sempre espressa come
autonomia del mondo del lavoro e dei lavoratori da quelle che sono le
regole dello sviluppo (o meglio dello sviluppismo) capitalista.
La classe che non deve cogestire il modello di sviluppo nelle regole
del sistema del capitale. Con ciò intendo dire che non deve essere né
concertativa né consociativa, né a livello di partito né a livello di
sindacato. Parliamo di autonomia quando la classe esprime il massimo
della sua potenzialità, in alternativa radicale al modo di produzione
capitalistico. Questo è quello che voi nella domanda chiamate rottura.
E quanto di questa dinamica troviamo in Italia o in Europa oggi? Non
molto. Un po’, ma non molto. Vogliamo elencare i casi italiani? Il
movimento dell’abitare, i movimenti contro la precarietà o quello dei
migranti, con le loro contraddizioni e limiti, il sindacato indipendente
conflittuale e di classe come può essere USB.
Al di là della sigle, i movimenti che esprimono questa potenzialità
sono quelli che si danno continuità e non vivono sull’estemporaneità
della rivendicazione che da tattica si fa stategica. Non mi
fraintendete, la rivendicazione è importante: se nasce un movimento qua
sotto per rivendicare che ci sia la fontanella, questo va bene. Il
problema è: la fontanella è un momento tattico rivendicativo
nell’orizzonte di un progetto di trasformazione o è la fontanella per la
fontanella non inserita nel contesto piu ampio di un respiro che crei
condizioni reali di trasformazione?
Io non critico Tsipras o altri per la lotta alla precarietà, certo
che va fatta, la lotta per la tassazione dei capitali, certo che va
fatta, la lotta per il reddito sociale, certo che va fatta. I momenti
rivendicativi e tattici devono esserci. Ma quando il momento
tattico-rivendicativo diventa la tua unica strategia e non sei in grado
di andare oltre quello, allora hai perso. Anche perché il capitalismo è
ben pronto a fare politiche di redistribuzione, se ne ha la possibilità.
Perché dover alimentare il conflitto, quando può facilmente evitarlo?
Oggi il problema è la crisi, altrimenti le politiche redistributive
continuerebbero.
Ma quindi qual è il problema? I problemi sono tanti: l’involuzione
dei sindacati storici e dei partiti della sinistra, compresi i
cosiddetti marxisti o comunisti, l’eurocentrismo, l’incomprensione dei
nuovi soggetti del lavoro e del non lavoro, della nuova società, il
nuovo blocco sociale ma anche il nuovo blocco storico (parlando in
termini gramsciani), ma anche delle condizioni di classe e del conflitto
di classe. A questo aggiungiamo una parola scomoda: il “tradimento” di
quelli che sono i principi fondanti del marxismo e del socialismo che ha
fatto sì che oggi la condizione dei rapporti di forza dalla parte dei
lavoratori in Europa sia di estrema debolezza.
Giro molto il mondo, non certo da turista ma da intellettuale
militante, in particolare l’America Latina, e se devo parlare
onestamente devo dire che oggi c’è una condizione di rapporti di classe
che è estremamente sfavorevole alla classe lavoratrice. Quando i
compagni in America latina parlano di socialismo possibile qualcuno si
incazza e dice: “esiste il socialismo, non quello possibile”. Però
quando Fidel ben sottolinea che la rivoluzione è il senso del momento
storico intende proprio questo. Tenete sempre conto che tra quello che
vorremmo fare e quello che facciamo in politica ci sono i rapporti di
forza di contesto internazionale. Perché se le relazioni di forza in
campo sono estremamente sfavorevoli, puoi essere abbattuto con un
soffio. Questo significa che bisogna avere una grande capacità tattica
senza rinunciare all’orizzonte, quello rivoluzionario del socialismo.
La domanda è quindi dove vedo di più questi momenti di rottura;
secondo me il conflitto capitale lavoro è più aspro, più diretto in
primo luogo in America latina, perché è lì che si coniuga l’oggettività
delle condizioni drammatiche generate dal capitalismo (non dimentichiamo
che tutt’oggi, e non stiamo parlando di Pinochet o dei generali
argentini, vengono uccisi quotidianamente sindacalisti militanti in
Perù, in Colombia) con una soggettività in movimento. Sia soggettività
che nasce dai movimenti di liberazione, sia all’interno di nuovi
movimenti progressisti, democratici, e anche rivoluzionari.
Una spinta di classe e rivoluzionaria che stiamo seguendo con estrema
attenzione è quella dell’ALBA. Cuba non è più sola. In maniera
diversificata, ovviamente, l’ALBA contiene diversi processi di
transizione al socialismo. Dico in maniera diversificata perché il
socialismo chavista bolivariano è completamente diverso da quello
cubano, martiano e marxista, e a sua volta quello martiano è diverso dal
socialismo comunitario di Morales in Bolivia, e questo a sua volta è
diverso da quello in Ecuador etc.. Tuttavia lì ormai non parliamo più di
laboratorio: lì c’è un’area, un’ alleanza, che è sicuramente
caratterizzata da una presenza di principi basilari e costituzionali
applicativi che sono anti-capitalisti e anti-imperialisti. Poi, tutti i
processi hanno limiti e contrasti. Però questa ormai è un’area che si
sta definendo nei percorsi anche contraddittori della transizione
socialista.
Poi chiaramente una crisi globale così violenta come quella degli
ultimi anni non ha favorito questo progetto. Ovviamente in un momento di
crisi si approfondiscono anche le contraddizioni interne ai vari paesi,
e bisogna stare attenti ai rapporti internazionali e via discorrendo.
Al di là dell’ALBA, che meriterebbe un discorso a parte, delle
rotture possono venire da una nuova relazione nel Sud del mondo, dove
per Sud non intendo necessariamente una connotazione geografica. Quando
dico Sud intendo la parte del mondo che ha subito di più l’imperialismo,
il colonialismo, la colonizzazione, le condizioni di sfruttamento e di
super sfruttamento, ovvero quella che una volta chiamavamo, in termini
Guevariani la “Tricontinental”: America latina e centrale, Africa e
Asia. Ma oggi possiamo allargare questo discorso ai PIIGS, alle
condizioni del Sud-Europa, è lì che possiamo trovare con più facilità
momenti di rottura.
In tutto questo ci sono soggettività adeguate? No. Sarei disonesto a
dire altrimenti, come compagno, come rivoluzionario, come intellettuale e
come marxista. Non ci sono le soggettività, diciamo che abbiamo qualche
piccola macchia di leopardo. Dove forse la macchia di classe e
rivoluzionaria più grande e promettente è quella dell’ALBA, anche se ci
sono naturalmente altre sacche di resistenza.
Bisogna invertire in chiave di un reale e organizzato
internazionalismo di classe questo rapporto Nord-Sud, tra paesi a
capitalismo maturo e paesi colonizzati, a vari stadi e in maniera
diversa. Di fronte alla nuova competizione internazionale
inter-imperialistica, va creata invece una nuova globalizzazione della
solidarietà e della complementarietà dei popoli, ovvero quello che io
chiamo, sarò un vecchio marxista, l’internazionalismo socialista.
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