domenica 27 luglio 2014

Nel teatrino delle “riforme strutturali chieste dall’Europa” svanisce la democrazia —  Dexter, Il Manifesto

Ue. Juncker e Draghi preparano cambiamenti «strutturali» da imporre ai vari paesi. L’Italia che guida il semestre europeo farebbe bene a opporsi. Ecco perché
C’è un’idea car­sica che scom­pare e ricom­pare nel dibat­tito poli­tico euro­peo: quella di con­ce­dere incen­tivi finan­ziari agli stati in cam­bio di riforme strut­tu­rali. Con­ce­piti per la priva volta nel marzo del 2013 con il nome di Con­trac­tual Arran­ge­ments sono ritor­nati in voga recen­te­mente gra­zie ad una ester­na­zione di Mario Dra­ghi in favore di un «Reform Com­pact» e sono stati ven­ti­lati da Junc­ker nel suo discorso inau­gu­rale al Par­la­mento europeo.
Si tratta di un’idea per­ni­ciosa che il governo ita­liano farebbe bene a bloc­care durante il seme­stre di pre­si­denza. Va detto innan­zi­tutto che una simile pro­po­sta è frutto soprat­tutto della de-politicizzazione del dibat­tito pub­blico, euro­peo e nazio­nale. Ecco alcuni motivi per non accet­tare l’ennesimo «pacco».

1) Le «riforme necessarie»

La prima obie­zione da muo­vere alla pro­po­sta è che essa si basa sull’assunto che esi­stano delle riforme strut­tu­rali «neces­sa­rie» che i paesi devono fare se vogliono tor­nare a cre­scere. È una can­ti­lena ricor­rente anche sui media ita­liani. Si tratta pur­troppo in parte d’ingenuità gior­na­li­stica, ed in parte di un mali­zioso trucco seman­tico. Le riforme strut­tu­rali sono in primo luogo sem­pre delle riforme «distri­bu­tive», vanno cioè a modi­fi­care in modo strut­tu­rale la distri­bu­zione delle risorse all’interno della società. L’esempio clas­sico sono le riforme del mer­cato del lavoro: esse deter­mi­nano in che modo il pro­dotto nazio­nale sia sud­di­viso fra salari e pro­fitti, ovvero fra lavo­ra­tori e datori di lavoro.
Le riforme attuate negli ultimi 20 anni in Ita­lia e in Europa hanno pro­vo­cato un mas­sic­cio tra­sfe­ri­mento di ric­chezza dai primi ai secondi (pari a più di 10 punti di Pil fra il 1970 ed oggi). Secondo la teo­ria che sot­tende que­sto tipo di riforme, una tale redi­stri­bu­zione della ric­chezza avrebbe dovuto — aumen­tando i ren­di­menti del capi­tale — pro­muo­vere ulte­riori inve­sti­menti e quindi aumen­tare il volume della pro­du­zione, e con esso la cre­scita e l’occupazione. Al di là del fatto che esi­stono ora­mai nume­ro­sis­simi studi che smen­ti­scono que­sto tipo di evo­lu­zione «vir­tuosa», è evi­dente che soste­nere astrat­ta­mente l’esistenza di «riforme neces­sa­rie» impli­chi rite­nere eco­no­mi­ca­mente e social­mente inin­fluenti i loro esiti distri­bu­tivi. Inol­tre signi­fica anche pre­ten­dere di far diven­tare «tec­nici» ed asso­luti dei dibat­titi che invece sono estre­ma­mente poli­tici e rela­tivi, poi­ché deter­mi­nano le con­di­zioni di vita dei cit­ta­dini e l’organizzazione della società.

2) Chi deve fare le riforme

Un altro pro­blema di que­sto pecu­liare tipo di «rifor­mi­smo» è sta­bi­lire chi debba fare le riforme, ovvero è innan­zi­tutto neces­sa­rio inten­dersi sulla posi­zione rela­tiva dei diversi stati rispetto a degli obiet­tivi o — in gergo — ben­ch­mark. Non è dif­fi­cile capire il livello di arbi­tra­rietà che ciò com­porta: non sol­tanto si devono moni­to­rare degli indi­ca­tori eco­no­mici piut­to­sto che altri, ma è anche neces­sa­rio sta­bi­lire degli obiet­tivi comuni – ovvero l’orizzonte verso cui ci si dirige. L’Ocse ha svi­lup­pato diversi indici per clas­si­fi­care la «capa­cità rifor­ma­trice» dei paesi. Gli indici più noti sono l’Epl (Employ­ment Pro­tec­tion Legi­sla­tion) e il Pmr (Pro­duct Mar­ket Regu­la­tion), valori bassi di que­sti indici sareb­bero vir­tuosi, secondo l’Ocse, poi­ché indi­cano minore rego­la­men­ta­zione, minori pro­te­zioni per i lavo­ra­tori, mag­gior fles­si­bi­lità e mag­giore aper­tura dei mercati.
Tra­la­sciando l’assoluta arbi­tra­rietà dei cri­teri, è inte­res­sante notare che uti­liz­zando gli indici dell’Ocse si potrebbe arri­vare a con­clu­sioni sor­pren­denti. Ad esem­pio i Paesi con l’Epl più ele­vato in Europa sono la Ger­ma­nia e l’Olanda, men­tre l’Irlanda, la Spa­gna e anche l’Italia hanno indici deci­sa­mente più bassi. Simil­mente per quanto riguarda l’apertura dei mer­cati, l’Italia si piazza meglio ad esem­pio del Lus­sem­burgo e del Bel­gio. C’è chi ha osser­vato quindi che se si usas­sero que­sti indici per sta­bi­lire chi deve fare le riforme si potrebbe cadere nel para­dosso di dover pagare la Ger­ma­nia per­ché libe­ra­lizzi il mer­cato del lavoro.

3) Chi paga per le riforme

Sup­po­nendo di poter accan­to­nare ideal­mente le prime due obie­zioni, il terzo pro­blema è sta­bi­lire come si for­ma­lizza l’incentivo finan­zia­rio per gli stati che fanno le riforme. Innan­zi­tutto sarebbe neces­sa­rio dare un prezzo alle riforme: quanto costa la libe­ra­liz­za­zione dei ser­vizi postali o la fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro? In secondo luogo, si trat­te­rebbe di finan­zia­menti a fondo per­duto (quindi dei tra­sfe­ri­menti) o dei pre­stiti (quindi da rim­bor­sare)? Nel primo caso, quali paesi sareb­bero dispo­sti a ope­rare tali tra­sfe­ri­menti, con­si­de­rata la feroce oppo­si­zione fin qui dimo­strata da tutti i prin­ci­pali paesi? Nel secondo caso, non solo biso­gne­rebbe prez­zare bene le riforme ma anche valu­tarne molto bene i ren­di­menti, poi­ché i pre­stiti si ripa­gano con gli interessi.
Tut­ta­via forse la ragione più forte per opporsi a simili idee ce la dà pro­prio Mario Dra­ghi, quando sostiene, nell’articolo sopra citato, che gli esiti dei pro­grammi del Fmi for­ni­scono dei buoni esempi di come la disci­plina impo­sta da organi sovran­na­zio­nali sia utile per imporre riforme. In sostanza Dra­ghi pro­pone di sospen­dere la demo­cra­zia ed appli­care all’Europa la stessa tera­pia adot­tata dal Fmi con i Paesi asia­tici degli anni Novanta. E guarda caso i paesi che ne sono usciti meglio sono quelli che non l’hanno appli­cata, come sug­ge­ri­sce spesso Stiglitz.
Infine, è bene ricor­dare che que­sto tea­trino sulle riforme strut­tu­rali serve ad evi­tare di discu­tere del vero pro­blema dell’eurozona, ovvero l’incompleta archi­tet­tura dell’unione mone­ta­ria. Per­ché, come diceva Key­nes, «il pub­blico afferra sem­pre meglio le cause par­ti­co­lari che le cause gene­rali, la depres­sione sarà quindi attri­buita a ten­sioni indu­striali, (…), alla Cina, alle tasse, (…), a qua­lun­que cosa al mondo fuor­ché alla poli­tica mone­ta­ria, che è stata il motore di tutto».

Dex­ter è il miste­rioso secondo nome di Harry Dex­ter White, archi­tetto degli accordi di Bret­ton Woods. Dex­ter è anche lo pseu­do­nimo di un esperto di que­stioni euro­pee che vive a Bruxelles

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