Una grande manifestazione di
impotenza operaia. Quella degli operai ThyssenKrupp, oggi a Terni, è
stata forse una delle più grandi manifestazioni cittadine degli ultimi
anni. QUatro ore di sciopero a fine turno mattutino, con molti degli
altri turni che arrivano in bicicletta o scooter. Oltre duemila
lavoratori e qualche familiare, gente affacciata alle finestre che
saluta e grida “fate bene”, pochi che si lamentano per le difficoltà
create alla circolazione.
Del resto questa fabbrica – le
acciaierie, che prima di andare alla Thyssen erano di proprietà
pubblica, marchio Italsider – è addirittura più antica di gran parte
della città che la circonda. Che questa fabbrica chiuda è una disgrazia
di rara potenza, un evento disgregatore di portata quasi biblica.
Normale che una massa così grande di gente che ne dipende sia capace di
farsi oltre cinque chilometri di camminata, sotto il sole e l'afa, in un
pomeriggio di fine luglio, pur di andare a bloccare la superstrada.
Evento limite, per i sindacati molto “moderati” che da sempre
controllano – più che rappresentare - questi lavoratori. Anche la Fiom
qui, ha il volto di Camusso, neanche quello di Landini...
E infatti, una volta arrivati in cima
allo svincolo, si capisce subito che i “complici” hanno contrattato –
fin qui anche avrebbe anche un senso – tutto il percorso con le forze
dell'ordine, tanto che soltanto poche macchine e camion fiscono per
fermarsi a causa dell'occupazione della sede stradale. Ma più di questo
non sono disposti a gestire. Non una spiegazione ai lavoratori, che
cuociono sotto il sole e ribollono già di loro per la preoccupazione. Li
guardi in faccia e vedi che tra loro non ci sono “prepensionandi”. Sono
troppo giovani per essere inseriti in qualsiasi “scivolo” dei vecchi
tempi, troppo anziani per trovare una nuova occupazione in un settore
devastato dalle chiusure (la metallurgia); figuriamoci oggi che quegli
scivoli il governo Renzi tende a farli cortissimi. Anzi, meglio
niente...
Un lungo tempo in cui nessuno sa che cosa
fare, con i dirigenti sindacali defilati e silenziosi. Ognuno comincia
ad agitarsi come sa e crede. Una ventina di fascisti del gruppo “Stato e
potenza” - quelli che per qualche tempo aveva provato a spacciarsi per
“socialisti”, quasi nostalgici dell'Urss – si va a schierare davanti
alla polizia, a un'estremità del blocco. Nessuno gli va dietro. Poi
cominciano a gridare di andare a fermare anche il traffico sottostante
il viadotto, quello deviato sulla provinciale. Fin lì erano stati in
fondo al corteo, isolati e silenziosi. Sconosciuti a tutti, la metà
circa proveniente da Roma, estranea al territorio e ancor più a questa
classe operaia.
I sindacalisti tacciono e non danno
nessuna indicazione. “Ognuno fa come meglio crede”, dice uno. Come se il
loro compito si fosse esaurito lì, nel portare quasta massa di
lavoratori disperati a sfogarsi nel nulla, di modo che la prossima volta
se ne stiano a casa.
Gli operai salgono e scendono lungo lo
svincolo, cercano di dare una senso alla mobilitazione innalzando – per
come possono e sanno, dopo decenni di “pace sociale indotta” - il
livello del conflitto. Un automobilista che prova a fare il furbo
infilandosi detro un'ambulanza a sirene spiegate - l'unico mezzo che
giustamente viene lasciato passare – rischia qualche manata. Tocca ai
poliziotti gestire con un briciolo di buon senso la tensione crescente.
L'incazzatura cresce e smania, ma è
totalmente assente una direzione sindacale chiara. Sfogatevi, sembrano
aver deciso i “complici”. Poi, tanto, sarete buttati fuori...
L'ipotesi è più che un'ipotesi.
All'interno della fabbrica si continua a lavorare ad alto ritmo, anche
all'altoforno – uno dei due – che l'azienda ha dichiarato di voler
fermare per sempre, mettendo fuori 550 dipendenti. Non solo. La Thyssen
ha chiesto di posticipare le ferie. Un segnale che chiunque può leggere
in trasparenza: “completiamo la commessa in corso, poi mandiano i
lavoratori al mare e quando tornano trovano tutto chiuso”.
Impossibile che i totem silenziosi di
Cgil-Cisl-Uil non l'abbiano capito. Più facile che lo sappiano
perfettamente, e abbiano deciso di mandare in vacca una mobilitazione
che non poteva non esserci. Anche a costo di lasciare spazio ai fascisti
con tanto di tricolore e in maglietta nera (“nazione, socialismo,
combattimento”) che provano a costruirsi una credibilità.
Quelli dell'Usb volantinano fin
dall'inizio del corteo, discutono con gli operai, raccolgono consensi
sull'unica proposta possibile in queste condizioni (“la Thyssen deve
tornare pubblica, qualsiasi cosa dica l'Unione Europea”). Ma questa non è
l'Ilva di Taranto, non hanno ancora una presenza interna allo
stabilimento, una rappresentanza nell'Rsu, anche se nel territorio la
loro presenza si va estendendo a molti luoghi di lavoro.
La giornata finisce con blocchi spontanei
che si riproducono qui è là, un incrocio dopo l'altro. Senza un disegno
o una tattica ragionata, finalizzata, un obiettivo chiaro. Oltre,
naturalmente, la non chiusura dei mezzo impianto e una massa enorme di
licenziamenti.
Questa gente merita un destino migliore.
Ma è anche lo specchio esatto dell'interopaese. E dei rischi che sta
correndo, da una “rottamazione” all'altra.
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