Guerre umanitarie. La barbarie temuta è arrivata. Di fronte alla permanenza dei conflitti, di quale equidistanza si può parlare?
Alla fine, dodici anni dopo, ecco il risultato della
sconfitta del più grande movimento contro la guerra, nella
fattispecie in Iraq, che scese in piazza con cento milioni di
persone e che venne definito «la nuova potenza mondiale». Hanno vinto
i neocon della destra americana e quei governi di centrosinistra
che in Occidente hanno sposato la causa del «militarismo
umanitario» che ha profumato di buono le stragi della nostra epoca:
la guerra è diventata permanente e dilaga.
E torna ovunque e all’improvviso. All’improvviso? La sua
sanguinosa attualità è tragicamente presente ogni giorno
nonostante il silenzio dei governi complici e spesso dei media, come Repubblica e Corriere della Sera, che
sono arrivati a cancellare le stragi di Gaza dalla prima pagina.
Spesso anche a sinistra la guerra è l’ultimo dei problemi, da
aggiungere all’ultimo momento in un documento, o in una presa di
posizione, nell’incapacità di interpretare le correlazioni che
legano, in un filo d’orrore, i diversi conflitti della terra ai
cambiamenti politici per cui si lotta. Ma il precipitare degli
eventi rende evidente la generale miopia che attraversa la cultura
occidentale. Che promette e annuncia crescita economica ma
nasconde la violenza che altrove si esercita per ottenerla
a qualsiasi costo, tacitando il pericolo e ottenendo consenso
e potere. Così la permanenza della guerra resta e riemerge,
riaprendo ferite malamente suturate e abilmente occultate.
Lo Stato d’Israele, che non conosce altro che la legge dei carri
armati, muove i tank per rioccupare la Striscia di Gaza e lo fa
perché ha «diritto a difendersi», fa sapere lo stesso Obama che nel
discorso del Cairo del 2009 dichiarava di sentire «il dolore del
popolo palestinese, senza terra e senza patria». Sono passati cinque
anni dall’inizio della sua Amministrazione e la crisi
mediorientale vede non solo sempre un popolo senza terra né patria,
ma la crisi è peggiorata perché la colonizzazione è stata estesa,
i Muri di divisione sono raddoppiati e, scrive l’editorialista di Haaretz Gideon
Levy, «Israele non vuole la pace, chi estende le colonie rafforza
l’occupazione e chi rafforza l’occupazione non vuole la pace». I razzi
di Hamas sono il fumo, certo distruttivo e micidiale, che nasconde
questa verità: lo Stato di Palestina, ridotto ad una alveare di
insediamenti, non ha più alcuna continuità territoriale e non
potrà esistere più.
Sono 270 le vittime dei bombardamenti aerei israeliani, in gran
parte civili comprese decine di bambini. Pensate solo a quanto odio
è stato seminato dai bombardieri in questi giorni. E di che
equidistanza stiamo parlando? C’è uno Stato, quello d’Israele che
occupa le terre di un altro popolo che, anche secondo la Carta dell’Onu
ha il diritto a ribellarsi. Qualcuno dica a che cosa hanno portato
finora i finti negoziati di pace, con un governo israeliano sordo ad
ogni richiesta di ritiro secondo due storiche Risoluzioni dell’Onu
o di blocco delle colonie e rabbioso — Netanyahu è letteralmente
fuori di sé — per la nuova unità nazionale palestinese Fatah-Hamas.
Ma, certo, Israele ha diritto alla sua sicurezza. E i palestinesi,
che non si danno per vinti, a che cosa hanno diritto?
E proprio mentre dilaga la nuova guerra mediorientale,
l’abbattimento criminale di un aereo di linea malese sui cieli tra
Ucraina e Russia, con quasi 300 vittime – già con rimpallo di
responsabilità — obbliga a volgere lo sguardo in Europa. Già nei
giorni scorsi erano decine i morti nell’est dell’Ucraina, negli scontri
tra milizie separatiste e nazionaliste filorusse nate nel
Donbass in contrapposizione al nazionalismo ucraino antirusso
del movimento di Majdan ormai al potere a Kiev, sostenuto dal’Ue
e soprattutto dalla Nato che porta avanti l’indiscussa
e indiscutibile strategia dell’allargamento della sua strategia
militare a est, proprio alla frontiera russa. Una volontà che
è all’origine, non a conclusione, delle tensioni e del conflitto
in corso.
E appena si volge lo sguardo dall’est europeo all’altra sponda del
Mediterraneo, l’instabilità della Libia – santuario militare di
ogni sollevazione jihadista nell’area — diventa macroscopica.
Siamo a soli tre anni dall’abbattimento del regime di Gheddafi grazie
all’intervento degli aerei della Nato diventati l’aviazione degli
insorti jihadisti in guerra contro il raìs. Guidava allora la nuova
coalizione bellica occidental-umanitaria, con l’Italia
protagonista, il «disinteressato» Sarkozy. Che riuscì
a convincere un iniziale recalcitrante Obama che poi, con Hillary
Clinton, ha pagato il prezzo di questa avventura con i fatti di
Bengasi dell’11 settembre 2012.
Giovedì le milizie islamiste di Misurta, le più armate
e radicali, hanno occupato Tripoli, dove un illegittimo
e improbabile governo chiede l’intervento internazionale. Intanto
si combatte in Siria e le milizie qaediste dello Stato islamico
dell’Iraq e del Levante avanzano in territorio iracheno, mentre in
Afghanistan le ultime elezioni presidenziali sono accusate di
brogli e le truppe Usa e Isaf/Nato resteranno ancora per altri due
anni.
Non c’è pace. È un disastro. Permane solo la barbarie che temevamo
sarebbe arrivata se non si fosse costruita una alternativa di valori
e di sistema. In questi giorni noi ci rivoltiamo al dissennato
tentativo del presidente Renzi di manipolare la nostra
Costituzione con la cancellazione della eleggibilità diretta
e democratica del Senato. Riflettiamo allora per un attimo sul fatto
che per ognuna delle guerre che abbiamo elencato l’Italia è stata o è
protagonista e ha un ruolo militare.
Non solo in Iraq ma anche in Medio oriente dove partecipa ad un
Trattato militare con Israele, nonostante sia un paese in guerra
permanente; in Libia ha bombardato dopo avere applaudito al regime
dell’ex raìs, in Siria è ancora nella famigerata coalizione degli
«Amici della Siria» che ha alimentato il conflitto; mentre in
Ucraina l’Italia sostiene, senza che se ne discuta, l’Alleanza
atlantica che pericolosamente allestisce da anni la sua nuova,
provocatoria, cortina militare alla frontiera russa come se fosse
la nuova Guerra fredda. Riflettiamo allora su quanto sia stato
devastato l’articolo 11 della nostra Costituzione che bandisce la
guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.
E ribelliamoci. Cancellano il Senato perché, dicono, «produce ceto
politico». Mentre cresce solo la guerra, cancellano l’articolo 11
per produrre ceto militare e nuovi conflitti.
Nessun commento:
Posta un commento