Due articoli nello stesso giorno
per dire una cosa – tra le righe, naturalmente – che smonta quasi tutte
le argomentazioni a favore delle “riforme strutturali”, quegli
stravolgimenti della vita, del salrio e delle condizioni di vita che
l'Unione Europea prescrive a tutti i paesi, specie quelli con problemi.
La notizia è semplice: in Europa,
Germania compresa, dall'inizio della crisi (ovvero dall'estate 2007) gli
investimenti sono crollati del 20% (18% al netto dell'inflazione). Non
vi sembra una notizia importante? Beh, tenete presente che nessuna
economia, di qualsiasi dimensione, può minimamente “crescere” se non si
fanno investimenti. Pubblici o privati, non importa.
Se aggiungete il fatto che la stessa
Unione Europea impone di tagliare la spesa pubblica – ovvero anche di
non effettuare nuovi investimenti pubblici – non si capisce come e
perché un'economia possa uscire dalla profonda recessione in cui è
entrata.
O meglio: l'unica crescita possibile è
quella delle esportazioni, contando sul fatto che la recessione implica
disoccupazione e quindi anche caduta dei salari reali. Il che favorisce,
in genere, una maggiore “competitività” delle merci verso l'estero.
Il
problema è che se tutti fanno stessa politica – ovvero se tutti cercano
di essere “trainati dalle esportazioni”, a scapito della domanda interna
– allora diventa impossibile che tutti “crescano”. Servirebbe, insomma,
anche qualcuno che “compra”, altrimenti come si fa a “vendere”?
Questo è oggi l'Unione Europea a guida
tedesca, con la Germania – appunto – oberata da un eccesso di surplus
(tradotto: le esportazioni superano in valore le importazioni;
addirittra di 280 miliardi l'anno) e quasi tutti gli altri paesi in
deficit.
Le colpe? Dei trattati europei "stupidi",
da Maastricht in poi (e ancora non è entrato in vigore il Fiscal
Compact! detto anche “l'inizio della fine”), moneta unica compresa. Ma
anche di una “governance” ottusa o semplicemente orientata dagli
interessi dei più forti (il capitale multinazinale, non necessariamente o
non solo tedesco). Qualcuno che ci guadagna, insomma, c'è. Anche se
pure loro hanno smesso di “crescere”.
Il che genera un problema ulteriore, o
meglio svela la causa originaria della crisi: c'è un eccesso di
risparmio. O, marxianamente, una “sovrapproduzione di capitale”. Una
massa di “liquidi” che non trovano modo di essere investiti e quindi
valorizzati; che restano perciò parcheggiati in cassaforte o trovano
momentaneo ristoro in qualche “bolla” finanziaria. Prima
dell'inevitabile esplosione locale e della fuga verso lidi più sicuri
(Bund tedeschi o titoli del Tesoro statunitensi).
Non c'è una via d'uscita indolore da
questa situazione, è noto. Checché ne dicano Guido Tabelli e Federico
Fubini (editorialisti rispettivamente del Sole24Ore e di Repubblica,
i due giornali che riportano la notizia data in apertura). La
sovrapproduzione, quando diventa conclamata (“eccesso di risparmio” e
“crollo degli investimenti”), esige un “aumento della competitività” che
sfocia regolarmente in guerra. Commerciale e delle monete, in un primo
tempo. Militare, quasi sempre, dopo un po'.
*****
Riforme radicali per la svolta in Europa
Guido Tabellini
Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell'area euro e in Italia
confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l'inadeguatezza della
strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese
deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell'offerta per
riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per
riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell'area euro è la
carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione
impedisce il rientro dal debito.
Alla fine del 2013, i consumi privati dell'intera area euro erano del
2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati
erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10%
negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello
europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare
la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di
stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell'area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l'emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell'arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull'espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell'operazione: l'espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l'aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell'area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l'emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell'arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull'espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell'operazione: l'espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l'aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.
E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda
aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e
il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è
sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità
diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi.
Eppure un'ipotesi del genere nell'area euro è pura fantascienza, perché
si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto
politico della Germania che teme l'azzardo morale. Di qui a sei o nove
mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli
di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l'intervento
sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l'aiuto
della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro
europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non
deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza
di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La
cosa è tutt'altro che scontata, perché l'assenza di crescita mette a
rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l'anno in corso che per il
2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente
non c'è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e
se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo,
piuttosto che aumentare il prelievo.
Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli
di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È
inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione
qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla
fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto
il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non
tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la
fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i
modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta
e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora
disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e
qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le
politiche dell'offerta per ridare competitività all'economia italiana?
Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono
comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la
fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future
dell'economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad
adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la
crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle
politiche macroeconomiche di tutta l'area euro. Ma questa svolta non ci
sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o
no, questa è la realtà della moneta comune.
Qui, in pdf, l'articolo di Fubini da Repubblica: Fubini_Repubblica.pdf230.04 KB
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