Recentemente
è uscito nelle librerie “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti
nell’Italia della Crisi” (la casa Usher, euro 10), scritto dal
collettivo Clash city workers. Si tratta di un libro straordinario, nel
senso letterale della parola, cioè di fuori dell’ordinario, sia per i
temi che affronta sia per il metodo che adotta. Oggetto del libro è la
composizione di classe, ovvero le caratteristiche e la struttura delle
classi sociali in Italia. L’attenzione è rivolta in particolare alla
classe dei lavoratori salariati (i nostri del titolo), ma, elemento da
non sottovalutare, viene dedicato ampio spazio anche al lavoro autonomo
ed ai settori intermedi e piccolo borghesi, che hanno sempre giocato un
ruolo importante nella vita politica italiana. Sono questi temi quasi
del tutto ignorati da decenni sia dalla ricerca universitaria
(sociologica, politologica ed economica) sia da sindacati e da partiti
di sinistra e persino comunisti. L’approccio degli autori non è
accademico, visto che l’analisi è dichiaratamente funzionale all’azione,
cioè alla ripresa e allo sviluppo della lotta di classe in Italia.
“Dove sono i nostri è un libro coraggioso perché rimette al centro del
dibattito politico le classi e la lotta di classe senza tacere di farlo
in un’ottica di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente e ponendosi
questioni enormi ma ormai ineludibili, come la ricomposizione e
l’organizzazione della classe lavoratrice. Del resto, chiunque voglia
ricostruire una presenza organizzata sindacale e politica di classe nel
nostro Paese non può esimersi dal partire da che cosa sono i salariati
qui ed ora. Lavori di questo tipo sono un segnale positivo da
valorizzare e sviluppare specie nel momento attuale, quando la sinistra
di classe e i comunisti vivono il momento di maggiore arretramento dalla
fine della Seconda guerra mondiale".
Un lavoro certosino sui numeri dell'Istat
L’analisi
di Clash city workers è importante anche perché ha il merito di partire
dai dati empirici e di essere sistematica e tendenzialmente
complessiva. Dei “nostri”, cioè dei lavoratori salariati ci viene
illustrato dove sono, quanti sono e chi sono, se sono donne, immigrati,
giovani, se stanno in questo o quell’altro settore dell’economia o in
questa o quell’altra area del Paese. Gli autori a questo scopo hanno
svolto una certosina ricerca negli archivi soprattutto dell’Istat,
compresi i censimenti e le rilevazioni delle forze di lavoro. La
descrizione della classe è basata sulla classificazione per attività
economiche dell’Istat (Ateco), ma è sempre sviluppata in maniera
critica, perché c’è chiara la consapevolezza in chi scrive che le
classificazioni statistiche, come tutte le classificazioni delle scienze
sociali, implicano una determinata concezione della realtà, influenzata
dai rapporti sociali, e quindi non sono mai neutrali. Ma senza il
riferimento ai dati dell’Istat (e di Eurostat) non sarebbe possibile
avere un quadro dettagliato e complessivo della classe oggi in Italia,
per il quale si necessita di risorse e strumenti enormi. Un impegno che
oggi è giudicato gravoso persino dagli istituti di statistica nazionali,
se è vero che c’è la tendenza a sostituire i censimenti periodici con
indagini campionarie e censimenti continui che integrino le rilevazioni
con gli archivi dei vari enti statali. Troppo spesso la sinistra negli
ultimi anni si è focalizzata o piuttosto si è limitata a parlare di
inchiesta operaia, ispirandosi al famoso questionario di Marx, quando lo
stesso Marx vedeva l’inchiesta soprattutto come strumento di lotta per
penetrare all’interno della classe operaia, favorendone la presa di
coscienza della propria condizione, invece che come strumento di ricerca
scientifica. Ad ogni modo, “Dove sono i nostri” non si limita al dato
statistico quantitativo, in quanto alla descrizione di ogni settore del
lavoro salariato si accompagna sempre un richiamo all’esperienza diretta
del collettivo dei Clash city workers con i vari settori del lavoro
salariato in anni di lotte e vertenze in alcune delle aree metropolitane
principali del nostro Paese. Di ogni settore viene valutato il grado di
centralità nella accumulazione capitalistica nonché la capacità di
mobilitazione espressa negli ultimi anni, la presenza del sindacato, e
le potenzialità di ricomposizione con il resto della classe e di
antagonismo nei confronti del capitalismo.
La classe operaia c'è ancora, il resto sono chiacchiere
L’impiego
del dato quantitativo e statistico, unitamente al recupero delle
categorie marxiste di interpretazione dei rapporti di produzione,
permette ai Clash city workers di fornire una risposta esplicita alle
tendenze culturali che negli ultimi vent’anni hanno determinato una
forte confusione teorica. Infatti, le trasformazioni nel processo di
accumulazione del capitale svoltesi a partire dagli anni ’80 sono state
l’occasione per eliminare, insieme alle categorie marxiste, la
centralità della classe operaia, ovvero del lavoro salariato e
produttivo di plusvalore. La terziarizzazione è stata intesa come il
superamento dell’industria e della manifattura a favore della produzione
immateriale, il superamento del fordismo come la morte della grande
fabbrica, e la rivoluzione informatica e tecnologica come la
sostituzione del lavoro subordinato con il cosiddetto lavoro
“cognitivo”. Infine, l’eliminazione del soggetto di classe del processo
di lotta ha condotto a quella che alcuni con compiacimento definivano
“sinistra senza aggettivi”, contribuendo così pesantemente alla
decadenza della sinistra politica nel nostro Paese .
Dati alla mano,
“Dove sono i nostri” ci dice invece che il settore impiegato
nell’industria, dopo decenni di trasformazione e nonostante i devastanti
effetti della crisi, è tutt’ora quello largamente più consistente
all’interno del lavoro: quasi 4 milioni di addetti nella manifattura che
diventano 5,8 milioni nell’industria strettamente intesa (censimento
2011). Inoltre, attraverso un dettagliato lavoro di scomposizione dei
settori Ateco, ci dice un’altra cosa importante e cioè che una parte
notevole delle unità perse da questo settore e ora classificate nel
terziario, sono in realtà composte di lavoratori esternalizzati, che
continuano a svolgere il loro lavoro o dentro la fabbrica o all’esterno,
ma sempre in relazione diretta o indiretta alla produzione della grande
fabbrica, che rimane centrale nella produzione della ricchezza. A
dispetto delle generalizzazioni dei teorici dell’economia della
conoscenza, tra i lavoratori dei servizi la maggioranza svolge mansioni
operaie e il rimanente, sebbene spesso con alta scolarizzazione, è
costituito da lavoratori in buona parte proletarizzati, che più spesso
di quanto si pensi svolgono mansioni ripetitive, parcellizzate,
esecutive, e la cui subordinazione al capitale è schiacciante, sebbene
spesso in forme mascherate come quelle del lavoro parasubordinato e
delle false partite Iva. Anche la questione della frammentazione della
produzione manifatturiera va ridimensionata, perché molte micro e
piccole imprese sono nei fatti articolazioni della grande azienda,
rispondendo a esigenze di riduzione dei costi e di neutralizzazione
della capacità di mobilitazione dei lavoratori. Del resto, sebbene non
esistano più aggregazioni giganti come Mirafiori con i suoi 50mila
operai, è la grande impresa a presentare la quota maggiore di addetti.
“Dove sono i nostri” sottolinea la centralità della manifattura nel
sistema economico dei Paesi “a capitalismo avanzato”, che è confermata
dagli sforzi, a partire dall’amministrazione Obama, per reinternalizzare
parti di produzione migrate all’estero. Ma insiste anche, ed è la cosa
più importante, sulla sua centralità soggettiva: <<Contrariamente a
quanto comunemente pensano molti attivisti politici, che scontano su
questo anche una mancanza complessiva di informazione e di conoscenza
del mondo operaio, che si caratterizza per una conflittualità continua
anche se non sempre visibile e di “piazza”, il proletariato della
media-grande fabbrica rimane a tutt’oggi il soggetto più combattivo del
mondo del lavoro, anche se spesso è incapace di creare relazioni che
vadano oltre il perimetro del proprio stabilimento, pesantemente
inquadrato com’è da sindacati che ne limitano l’azione.>> (pag.
76).
Il falso terziario
In queste poche
righe c’è un mondo di contenuti e di problematiche. C’è una critica
implicita a chi troppo velocemente ha liquidato la centralità operaia e
della grande impresa, c’è l’osservazione che la lotta di classe c’è
sempre, anche se in forme “invisibili”, c’è la frammentazione delle
lotte (un tema centrale in Dove sono i nostri), e infine c’è la
questione, sempre più centrale, del sindacato. Tuttavia, in Dove sono i
nostri non siamo davanti al puro e semplice revival della centralità del
lavoro produttivo. L’analisi, infatti, ripercorre le trasformazioni
subite dalla composizione di classe non solo a seguito dei processi di
esternalizzazione, ma anche di quelli incentrati sulle privatizzazioni
del welfare e sullo sviluppo di settori legati all’espansione
dell’accumulazione capitalistica, sia nuovi che vecchi, ma con una
impetuosa espansione recente. Il lavoro produttivo viene rintracciato
nello sviluppo di settori terziari come le comunicazioni, i trasporti e
il magazzinaggio, l’informatica, l’istruzione e la sanità privata, ecc.
Nessuna categoria del lavoro dipendente viene dimenticata, comprese la
Grande distribuzione e la Pubblica Amministrazione, alle quali vengono
dedicate pagine interessanti. Pagine altrettanto importanti sono
dedicate al ceto medio dell’artigianato e della piccola impresa, che,
come viene sottolineato, ha svolto e svolge tutt’ora un ruolo importante
nella politica di questo Paese, nonostante e forse a causa dei processi
di ristrutturazione complessiva a livello europeo.
Integrare i settori
Alla
fine di questa analisi e coerentemente con i fini pratici della loro
riflessione, gli autori si pongono la domanda centrale del loro lavoro,
che da il titolo al capitolo conclusivo: come organizzare il conflitto?
In primo luogo, dicono i Clash city workers, le organizzazioni per
essere efficaci devono ricalcare la struttura materiale
dell’accumulazione. In caso contrario, gli insuccessi sono inevitabili,
come in effetti è accaduto in Italia. Dunque, visto che la
terziarizzazione dell’economia mette in collegamento diretto settori
diversi su un piano internazionale, una organizzazione di lotta
sindacale articolata per categorie e legata al solo piano nazionale
risulta inadatta. L’organizzazione del lavoro salariato dovrebbe invece
rispecchiare le filiere in cui è articolata la produzione capitalistica,
mettendo in relazione settori economici diversi e individuando i nodi,
rappresentati dalla grande imprese, che connettono i vari elementi della
filiera e della subfornitura. Contemporaneamente è necessario
internazionalizzarsi, cioè creare un network tra lavoratori di Paesi
diversi.
Secondo gli autori, è proprio l’integrazione tra primario,
secondario e terziario, combinata con la concentrazione dei capitali
(dovuta alla finanziarizzazione) che determina l’unificazione oggettiva
della classe lavoratrice: <<La combinazione di questi due
processi, terziarizzazione dell’industria e finanziarizzazione, fa sì
che dal punto di vista materiale questi lavoratori siano già uniti. Sono
però artificialmente divisi da un punto di vista sindacale e
soprattutto politico. Una volta preso atto preso atto di questa
trasformazione materiale, qual è il nostro compito? Quello di lavorare
per ricomporre da un punto di vista soggettivo quello che oggettivamente
connesso.>> (p. 179) Inoltre, visto che <<è in atto una
uniformazione al ribasso di tutti i lavoratori, che vedono diventare le
loro condizioni di vita e le loro aspettative sempre più simili, la
classe è oggi molto più omogenea che in passato e nei prossimi anni lo
sarà sempre di più>>. (p.191) Queste conclusioni destano, però,
qualche perplessità. Sembrerebbe, infatti, che gli autori tengano conto
solo di un aspetto di quanto emerge dalla loro stessa analisi. La realtà
del lavoro si presenta dialetticamente sotto due aspetti contradditori.
Uno effettivamente è quello del peggioramento generalizzato delle
condizioni di vita e di lavoro. L’altro è la compresenza sui posti di
lavoro di personale con tipologie contrattuali diverse e spesso
dipendente da aziende diverse, cui si aggiunge l’articolazione della
produzione in base a catene produttive basate su esternalizzazione e
subfornitura. È quest’ultima condizione a rendere la classe frammentata e
disomogenea, per taluni aspetti, come mai prima d’ora. Il fatto che il
capitale sia sempre più interconnesso non implica affatto che lo siano i
lavoratori. Anche affermare che la classe è separata da barriere
artificiali può portare a non considerare che la classe è scomposta in
primo luogo proprio sul piano materiale, cioè dell’organizzazione della
produzione, come conseguenza dei processi oggettivi e “spontanei”
dell’accumulazione. E questo è ancora più vero sul piano internazionale,
dove i lavoratori periferici si guarderebbero bene dall’intraprendere
una rivendicazione salariale che facesse saltare un investimento e
quindi importanti posti di lavoro. Naturalmente, questi rilievi non
significano che oggi esistano le basi materiali per la ricomposizione e
lo sviluppo della lotta di classe, ma che tale sviluppo deve essere
prodotto tenendo conto dei limiti esistenti. Limiti per il cui
superamento è necessario sciogliere il nodo dell’organizzazione.
Entrare in contatto con i lavoratori
A
tale proposito, un’altra questione che richiede un sovrappiù di
riflessione è quella della dimensione sindacale e politica, in cui
vengono identificate le <<barriere artificiali>> di cui si
diceva. Giustamente gli autori più volte osservano come il sindacato
limiti l’azione della classe lavoratrice e assuma un ruolo collaborativo
con il capitale in una dimensione neocorporativa, di cui la
costituzione degli enti bilaterali è un esempio, e tenda a trasformarsi
in agenzia di servizi. Tuttavia, al momento di trarre delle conclusioni,
si dice che il problema <<non è tanto quello di fondare un “vero”
sindacato conflittuale>>, ma <<entrare in contatto con la
forza lavoro … se vogliamo costruire una coscienza di classe che si
ponga all’altezza delle sfide che ci si parano davanti…Dobbiamo unire i
lavoratori indipendentemente da territori, categorie, aziende, sindacati
di appartenenza, li dobbiamo portare a porsi su un piano
politico...>> (p.199)
A questo punto bisogna distinguere la
questione in due aspetti. Il primo è quello del sindacato. Certamente è
corretto quanto dicono gli autori che la lotta deve superare la
dimensione aziendale, locale e settoriale e va portata sul piano
generale. Rimane, però, il fatto che, come dimostrato dai governi degli
ultimi anni le cui controriforme pesantissime sul piano del mercato del
lavoro e delle pensioni sono passate senza colpo ferire, se il lavoro è
ingabbiato in sindacati collaborativi c’è poco da generalizzare. Mi
sembra evidente che se non si dispone di una organizzazione sindacale
nazionale e autonoma dai partiti di governo non c’è verso che la
situazione si sblocchi. In termini pratici, ciò significa fare i conti
con quello che oggi è diventata la CGIL e con le potenzialità di
sviluppo e coordinamento che hanno le sigle sindacali alla sua sinistra.
La
seconda questione riguarda che cosa intendiamo per coscienza di classe e
per politica. La coscienza di classe non è soltanto percezione di sé in
quanto salariato e in quanto parte di un collettivo con interessi e
caratteristiche comuni. Questa è la coscienza “economica”, che
certamente è un ineludibile e importante primo passo. La coscienza
“politica” di classe si sviluppa oltre il campo dei rapporti tra operai e
padroni, matura nel campo dei rapporti tra tutte le classi con lo Stato
e con il governo, nel campo dei rapporti reciproci fra tutte le classi.
È insieme la consapevolezza dell’irriducibile antagonismo fra gli
interessi del lavoro salariato e tutto l’ordinamento politico e sociale
contemporaneo e la capacità di riorganizzare la totalità della società
secondo quegli stessi interessi.
Di conseguenza, estendere la lotta
sul piano politico vuol dire non soltanto generalizzare e unificare le
lotte immediatamente economiche ma unificare le lotte in tutti i campi
della vita sociale in una strategia complessiva per la conquista del
potere politico. E, visto che l’espressione concentrata del potere è lo
Stato, la lotta politica è in definitiva lotta contro lo Stato del
capitale e per la conquista e la trasformazione della macchina statale
stessa. La capacità di lottare politicamente, nei termini suddetti,
implica ogni volta riuscire a elaborare la tattica giusta, che sia
coerente con la strategia di trasformazione della realtà e che nello
stesso tempo sia capace di tradurla in azione concreta qui ed ora. Oggi,
ad esempio, bisogna avere la capacità di dare una nostra spiegazione
della crisi e una prospettiva generale di superamento della crisi
stessa, entrando nelle specificità della fase, dalla questione dell’euro
a quella del debito pubblico, alle trasformazioni istituzionali. Mentre
nel passato forse era possibile ricomporre la classe anche solo sulla
difesa delle proprie condizioni economiche, oggi qualsiasi
generalizzazione o ricomposizione delle lotte anche di quelle più
limitatamente economiche solleva immediatamente problemi relativi alla
organizzazione e all’indirizzo generale della società. È evidente,
quindi, che se la politica è tutto questo, allora non possiamo esimerci
dall’affrontare la questione dell’organizzazione politica, cioè del
partito, che è un po’ il convitato di pietra di “Dove sono i nostri”.
Quello del partito è il nodo intorno al quale si gioca la possibilità di
fare il salto, auspicato anche dagli autori di Dove sono i nostri,
dalla dimensione della difesa economica a quella della politica.
La
situazione della classe lavoratrice in Europa e in Italia deve
scontrarsi con condizioni di lotta molto difficili e livelli
organizzativi spesso ridotti al lumicino, all’interno di un crisi
epocale del capitale che si manifesta in forme inedite, che richiedono
ai lavoratori una notevole capacità di collegare condizioni immediate e
visione generale. Di fronte a questa situazione non ci sono scorciatoie.
Il processo di ricostruzione di una soggettività di classe antagonista –
sindacale e partitica - sarà lungo e difficile, e soprattutto
richiederà apporti molteplici, rendendo necessaria una non scontata
capacità di confronto e di sintesi fra le esperienze, parziali eppure
fondamentali, che sono maturate in Italia negli ultimi anni. “Dove sono i
nostri” è, a pieno diritto, il prodotto di una delle più interessanti
di queste esperienze. Il contributo che ci offre è fondamentale, perché,
restituendoci il soggetto sociale della trasformazione della società
nella sua concretezza e materialità, finanche misurabile
statisticamente, ci aiuta a piantare i nostri piedi ben saldi per terra.
Avere come punto di riferimento permanente la classe lavoratrice e il
radicamento al suo interno rappresenta il necessario antidoto alle
derive politiciste e elettoralistiche che hanno caratterizzato gli
ultimi decenni.
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