domenica 5 aprile 2015

Come far vivere un’agenda di riscatto —  Marco Revelli

Oggi la metà dei cit­ta­dini non va nem­meno più a votare», per­ché non si sente rap­pre­sen­tata da nes­sun par­tito. E «più della metà dei lavo­ra­tori non è rap­pre­sen­tata da nes­sun sin­da­cato»
Credo che quando si discute di «coa­li­zione sociale», come si è fatto in que­sti giorni sul mani­fe­sto, si debba par­tire da que­ste due frasi del discorso di Mau­ri­zio Lan­dini, a con­clu­sione della bella mani­fe­sta­zione della Fiom a Roma, che ci richia­mano, tutti, alla dram­ma­tica crisi di rap­pre­sen­tanza che carat­te­rizza la nostra ormai con­cla­mata «post-democrazia». E leg­gerle in sin­cro­nia con la vera e pro­pria lezione pub­blica di Ste­fano Rodotà, rivolta ai cin­quan­ta­mila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ asso­luta neces­sità di una coa­li­zione oriz­zon­tale, di una «coa­li­zione sociale», appunto, che non solo arti­coli la domanda dei sog­getti sociali nei con­fronti della poli­tica, ma ne strut­turi l’agenda (mi pare che abbia detto pro­prio così: l’«agenda»).
Sta qui, esat­ta­mente, il punto su cui ci lace­riamo tutti, e in parte anche ci dila­niamo come se fos­simo avver­sari anzi­ché nau­fra­ghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due prin­ci­pali pila­stri della vicenda sociale e poli­tica nove­cen­te­sca: il Sin­da­cato e il Par­tito. Entrambi cre­sciuti fino ad assu­mere una cen­tra­lità costi­tuente ed entrambi caduti. O comun­que svuo­tati: ridotti spesso a invo­lu­cri inca­paci di trat­te­nere le ener­gie sociali che li ave­vano fatti grandi. Crisi della Rap­pre­sen­tanza, appunto, sociale e poli­tica insieme.
Forse sba­glio, ma stento a vedere nell’azione di Lan­dini un chiaro pro­getto, sociale o poli­tico, né tan­to­meno per­so­nale (come vor­rebbe il bru­sio pet­te­golo su «sca­late alla Cgil» o «discese in poli­tica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fon­da­tis­sima ango­scia di chi sa di stare den­tro una strut­tura a rischio di estin­zione. Una «mac­china» (non solo la Fiom, ma il Sin­da­cato nel suo com­plesso) che fu straor­di­na­ria per potenza e crea­ti­vità, ma che andrà irri­me­dia­bil­mente a sbat­tere o a esau­rirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cam­biare radi­cal­mente se stessa allar­gando il pro­prio campo sociale. Così come mi sem­bra di vedere nella furia (cre­scente) di Rodotà nei con­fronti dei par­titi (in cui peral­tro ha mili­tato a lungo, in posi­zioni api­cali), com­presi quelli pic­coli, e a lui vicini, più una dispe­ra­zione per il vuoto che lasciano che il ran­co­roso disprezzo per quel che sono.
Se que­sto è vero, allora, quello che sia Lan­dini che Rodotà ci indi­cano è un punto di par­tenza, non certo di arrivo. Per­ché se è evi­dente che un pro­cesso di aggre­ga­zione oriz­zon­tale, al livello dei fram­men­tati sog­getti sociali, è indi­spen­sa­bile per ricom­porre una qual­che capa­cità di arti­co­lare una «voce» capace di farsi sen­tire e di pro­durre un’«agenda» alter­na­tiva, rimane, grande come una casa il pro­blema di chi — o che cosa — quell’agenda la agi­sca. In qual­che modo il pro­blema intorno a cui si sono arro­vel­lati, e sono finiti in secca, tutti i movi­menti di pro­te­sta emersi dagli anni Ses­santa in poi, e che ora ha finito per risuc­chiare nel suo gorgo anche il vec­chio «movi­mento ope­raio», costretto, come quelli, a ricer­care, bran­co­lando nel buio, la pro­pria via verso una capa­cità d’impatto sui mec­ca­ni­smi fon­da­men­tali della deci­sione poli­tica, in chiave non solo difen­siva (o oppo­si­tiva) ma anche «offen­siva». In grado cioè di imporre deci­sioni radi­cal­mente diverse da quelle ammi­ni­strate al livello di Governo. Pro­blema dram­ma­tico, per­ché, come ci dice la Gre­cia, quelle poli­ti­che sono oggi mor­tali per la Società (distrug­gono, let­te­ral­mente, il Sociale). E se non ven­gono rove­sciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle.
È l’eterno pro­blema del rap­porto tra Sociale e Poli­tico. O, per dare volti ai con­cetti, tra Sin­da­cato e Par­tito. Che non è ine­dito, come in molti oggi sem­brano pen­sare, ma tema ricor­rente da quando la sfera sociale si è mas­si­fi­cata e quella poli­tica demo­cra­tiz­zata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricor­darci che quel rap­porto ha una sua sto­ria: esempi con­creti di mul­ti­formi solu­zioni che non pos­siamo noi, oggi, igno­rare. Almeno tre «modelli», tutti gio­cati nel pas­sag­gio — così simile al nostro per radi­ca­lità dei pro­cessi di tra­sfor­ma­zione — tra Otto­cento e Nove­cento. Il modello cosid­detto tede­sco, incen­trato sul pri­mato del Par­tito (e della lotta poli­tica) sul Sin­da­cato (e l’azione riven­di­ca­tiva) teo­riz­zato da Kau­tsky e dalla Seconda inter­na­zio­nale: schema pre­valso anche in Ita­lia nel corso dell’età gio­lit­tiana e sta­bi­liz­za­tosi in chiave rifor­mi­sta nel secondo dopo­guerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il par­tito — il Labour, appunto — è, almeno all’origine, diretta espres­sione del sin­da­cato: sua «pro­tesi» all’interno delle isti­tu­zioni, «asso­cia­zione di asso­cia­zioni» di cui le orga­niz­za­zioni dei lavo­ra­tori, con strut­tura pre­va­len­te­mente oriz­zon­tale, sono i «com­mit­tenti». Infine il modello fran­cese, quello che è stato defi­nito «sin­da­ca­li­smo di azione diretta», in cui il Sin­da­cato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi com­piti del Par­tito rifiu­tando la sepa­ra­zione tra lotta eco­no­mica e lotta poli­tica e costi­tuen­dosi in una sorta di «Par­tito sociale»: modello a sua volta oscil­lante tra l’impostazione sore­liana cul­mi­nante nel mito dello scio­pero gene­rale insur­re­zio­nale e quella prou­d­ho­niana, arti­co­lata con forme di coo­pe­ra­ti­vi­smo e di mutua­li­smo come espres­sione di auto­go­verno dei produttori.
È ipo­tiz­za­bile che, sal­tato defi­ni­ti­va­mente il primo modello (non c’è più un «par­tito di rife­ri­mento» per nes­suno), torni in gioco qual­cuno degli altri due? Che si possa imma­gi­nare una «coa­li­zione sociale» com­mit­tente nei con­fronti di un «sog­getto poli­tico» dele­gato a ripri­sti­narne una rap­pre­sen­tanza? E con quale forma orga­niz­za­tiva, che non sia più quella del tra­di­zio­nale par­tito di massa? Oppure che si ria­pra la strada a ipo­tesi di «sin­da­ca­li­smo di azione diretta», che però dovrebbe rivo­lu­zio­nare alle radici il pro­prio modello orga­niz­za­tivo, farsi inte­gral­mente ter­ri­to­riale com’era il sin­da­cato delle Camere del Lavoro e non quello delle Fede­ra­zioni d’industria? Oppure — e le ipo­tesi pos­sono mol­ti­pli­carsi — non sarebbe meglio con­ti­nuare a «cer­care ancora»? Tutti insieme. Ponen­doci seria­mente il pro­blema — irri­solto — di dove, e come, possa coa­gu­larsi oggi, in Ita­lia, quella «massa cri­tica» in grado di tra­durre nei luo­ghi del Governo la forza di un sociale riscat­tato dalla pro­pria impo­tenza, prima di cor­rere a met­tere, ognuno, i pro­pri cappelli.

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