Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché
non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei
lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato».
Credo che
quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi
giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del
discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella
manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla
drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra
ormai conclamata «post-democrazia». E leggerle in sincronia con la
vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai
cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso)
che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di
una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda
dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi
l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»).
Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi. Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme.
Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi. Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme.
Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro
progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come
vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in
politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima
angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di
estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel
suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma
che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona
parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa
allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere
nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui
peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi
quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che
lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi — o che cosa — quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo. Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi — o che cosa — quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo. Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle.
È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per
dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito,
come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la
sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata.
Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto
ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non
possiamo noi, oggi, ignorare. Almeno tre «modelli», tutti giocati nel
passaggio — così simile al nostro per radicalità dei processi di
trasformazione — tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto
tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta
politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da
Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in
Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave
riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle
Unions (!), in cui il partito — il Labour, appunto — è, almeno
all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi»
all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di
cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura
prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il
modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di
azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé
gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta
economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di
«Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione
soreliana culminante nel mito dello sciopero generale
insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di
cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno
dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello
(non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in
gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una
«coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto
politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con
quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale
partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di
«sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare
alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente
territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non
quello delle Federazioni d’industria? Oppure — e le ipotesi possono
moltiplicarsi — non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»?
Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema — irrisolto — di
dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa
critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un
sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre
a mettere, ognuno, i propri cappelli.
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