Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”,
si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di
pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma
contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un
cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.
Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti
degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del
riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e
degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr
al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di
dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà
definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di
interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti
gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e
classi nel quadro mediorientale.
E’ chiaro, intanto, che intorno
al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti
degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i
fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e
dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica
islamica Iraniana.1
Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie
pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di
loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire
perché.
L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le
politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che
va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e
dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti
dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero
persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo
periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale
dell’antichità prima dell’impero romano.
Ora se per l’italietta
post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha
sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del
passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione
unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della
nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la
fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo
invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad
Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.
Ruolo
millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che
sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo
Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le
celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta
khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979,
dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita
al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e
condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di
nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della
monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad
Reza.
Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero
architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a
cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica.
Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a
spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia
dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi
dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso
spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.
Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera
su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio
potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto.
Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa
sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del
dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.
Difficilmente
però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto
festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si
lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser
sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma
anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo
raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la
fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2
permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e
finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di
liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in
atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo
Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla
Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica
Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).
Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3
la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il
destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e
democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli
insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una
guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader
(Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso
dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle
difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione
politico-economica del paese.
Questo parallelo, per quanto possa
apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure
di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni
successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia
l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele”
sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli
anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al
capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del
Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la
strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo
recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a
custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di
gas.
Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è
costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del
Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge
coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e
sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli
anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il
numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli
uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento
democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre
presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza
cambiare nulla.
Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la
tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e
Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al
Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta
guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano
sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda
caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu
al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del
Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie
africane e mediorientali.
L’altra grande differenza è che con i
suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari
immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere
all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi
investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i
suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni)
oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante
per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già
industrializzati in cui investire.
E questo è l’altro, e non
secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo
visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine
dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende
iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè,
che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra
italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con
quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla
politica delle sanzioni.
Da sempre privilegiato, fin dai tempi di
Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano
energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di
tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro
annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a
Losanna.
Follow the money! E prima o poi troverete anche
la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui
esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far
altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la
conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da
un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non
distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi
motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di
trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere
necessario al rafforzamento della società, dell’economia e
dell’industria iraniane.
La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una
modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in
Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa
distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un
esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata
nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della
società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese
in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e
solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto
da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare
cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle
alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con
Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto
dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata
dei palestinesi dalle loro terre.
In tutta l’area le ferite dei
trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora
aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i
facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e
contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di
intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e
culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di
più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta
avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi,
filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da
Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in
carica.
Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe
ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane
potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello
dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale
ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del
Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei
turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una
borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua
forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e
delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a
sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza
dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le
frange più avanzate della resistenza curda.
Far finta di non
vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli
imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un
autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.
- Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)
- Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte
- Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.
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