Come volevasi dimostrare la luce in fondo al tunnel è solo un
mortaretto mediatico e il job act un inganno per i cittadini
e probabilmente un autoinganno per una classe dirigente alla disperata
ricerca di galleggiamento. L’Istat infatti spazza via il trionfalismo
fasullo dell’aumento dei contratti a tempo indeterminato e certifica la
risalita della disoccupazione al 12, 7 %. Possiamo certamente dare la
colpa a Renzi e al suo governo di aver deliberatamente preso in giro i
cittadini spacciando misure a favore dell’offerta e di Confindustria
come panacea per il lavoro. Possiamo considerare responsabile
storico quell’ambiente tra liberale e socialdemocratico, con centro
intellettuale nella Bocconi Chicago addict che da decenni vede nella
caduta dei salari e nella cancellazione dei diritti del lavoro la strada
maestra della competitività al ribasso di valori civili. Possiamo
mettere sul banco di accusa l’Europa che si è fatta conquistare
interamente dal liberismo e dallo spirito delle troike. Possiamo persino
accusare le sinistre, nella loro infinita varietà, di essersi arrese a
tutto questo senza combattere o di aver combattuto con armi sbagliate e a
volte d’epoca.
Sì, possiamo dire di tutto, ma dobbiamo riconoscere che la crisi è
strutturale e non può essere risolta all’interno del recinto della
tradizionale politica o in quello del riformismo più o meno ipocrita
degli ultimi vent’anni. Bisogna prendere atto che l’aumento di
produttività e di competitività realizzato a scapito di retribuzioni,
orari di lavoro, diritti e tutele non solo è eticamente repellente e del
tutto contrario al progresso immaginato, ma è esattamente il motivo
della crisi, non la sua causa e men che meno il suo rimedio. Il fatto è
che a parità di produzione c’è sempre meno lavoro, che l’equilibrio in
qualche modo raggiunto dal capitalismo industriale dentro la cui logica
era necessario che le merci massivamente prodotte fossero massivamente
acquistate, è completamente saltato, lasciando spazio a un capitalismo
finanziario dedito alla creazione di denaro fittizio, la cui massima
preoccupazione è quella di evitare i contraccolpi della disoccupazione
sempre più strutturale attraverso imposizione di oligarchiche, creazione
di nemici e destabilizzazione geopolitica, ma disposta persino alla
guerra pur di rimanere al potere.
La realtà, peraltro ormai delineata a livello scientifico da molti studi oltre che supportata dai dati empirici, è che la diffusione delle tecnologie elettroniche e robotiche sta espellendo dal lavoro specializzato e competente un numero enorme di persone e che al contrario di quanto si ipotizzasse in passato, il settore terziario non riesce ad assorbire il surplus anche perché la stessa rivoluzione tecnologica sta facendo strage di posti pure nei servizi. Chi comprerà dunque i prodotti? Al contrario di quanto si pensa o viene detto il problema non è affatto la flessibilità che anzi diminuisce drasticamente nei settori più complessi e a massima concentrazione di sapere. La flessibilità e la precarietà sono invece considerate consustanziali oltre che opportune alle attività di basso livello che ancora non sono state intaccate dalle macchine e per le quali si richiede una modesta esperienza e un sapere minimo. Si tratta sostanzialmente di una favola per aumentare i profitti per alimentare la caldaia finanziaria, ovvero quella dove brucia il capitale fittizio.
Siamo dunque a uno snodo epocale di cui la crisi generalizzata nella quale stiamo vivendo non è che un effetto, dapprima nascosto dalla globalizzazione, ma infine deflagrato, man mano che si andavano esaurendo gli eserciti di riserva a basso e bassissimo costo in Asia e in altre aree del mondo. Come uscirne fuori senza mettere in conto a medio e forse breve termine una guerra distruttiva che consumi molta forza lavoro e con essa la civiltà stessa? La soluzione ovvia, a meno di non immaginare una sorta di luddismo del terzo millennio o di rifugiarci in qualche arcadia, sarebbe quella di diminuire drasticamente gli orari, aumentare i salari, ridare dignità, tutele e certezze anche al lavoro meno specializzato, vale a dire l’esatto contrario di ciò che si sta facendo oggi. Solo così si potrebbero risollevare le sorti di una domanda aggregata strutturalmente in calo e creare dunque nuove attività. Questo però – oltre ad avere conseguenze enormi sul terreno geopolitico – andrebbe tutto a discapito dei profitti e introdurrebbe il germe di una fuoriuscita dal capitalismo, la maturazione di nuove e diverse idee di società, il ritorno ad aspirazioni ormai abbandonate come ferri arrugginiti. Perciò si fa tutto il contrario di ciò che si dovrebbe nella speranza che basti un maggior controllo sociale, una trasformazione delle società democratiche in autoritarie per mantenere il controllo e l’egemonia culturale.
E’ in questo contesto che si situano sia le ridicole sceneggiate di Renzi, i non sense dei suoi consiliori, l’acquiescenza servile di un milieu politico intento alle sue camarille. Ma dove si situano anche le proposte di reddito di cittadinanza o reddito sostitutivo o sussidio di disoccupazione a tempo indeterminato o integrazione di reddito (il ventaglio è ampio e politicamente molto differente): è fin troppo chiaro che a qualcosa di questo genere bisognerà arrivare necessariamente, tuttavia per paradossale che sia queste misure tamponano il problema, ma se impostate male non lo risolvono affatto, anzi possono essere, come del resto accade in Germania con i mini jobs, surrettiziamente funzionali a certe logiche di umiliazione del lavoro che lo stato finisce per supportare con i soldi pubblici. Ciò che occorre è davvero un mondo nuovo.
La realtà, peraltro ormai delineata a livello scientifico da molti studi oltre che supportata dai dati empirici, è che la diffusione delle tecnologie elettroniche e robotiche sta espellendo dal lavoro specializzato e competente un numero enorme di persone e che al contrario di quanto si ipotizzasse in passato, il settore terziario non riesce ad assorbire il surplus anche perché la stessa rivoluzione tecnologica sta facendo strage di posti pure nei servizi. Chi comprerà dunque i prodotti? Al contrario di quanto si pensa o viene detto il problema non è affatto la flessibilità che anzi diminuisce drasticamente nei settori più complessi e a massima concentrazione di sapere. La flessibilità e la precarietà sono invece considerate consustanziali oltre che opportune alle attività di basso livello che ancora non sono state intaccate dalle macchine e per le quali si richiede una modesta esperienza e un sapere minimo. Si tratta sostanzialmente di una favola per aumentare i profitti per alimentare la caldaia finanziaria, ovvero quella dove brucia il capitale fittizio.
Siamo dunque a uno snodo epocale di cui la crisi generalizzata nella quale stiamo vivendo non è che un effetto, dapprima nascosto dalla globalizzazione, ma infine deflagrato, man mano che si andavano esaurendo gli eserciti di riserva a basso e bassissimo costo in Asia e in altre aree del mondo. Come uscirne fuori senza mettere in conto a medio e forse breve termine una guerra distruttiva che consumi molta forza lavoro e con essa la civiltà stessa? La soluzione ovvia, a meno di non immaginare una sorta di luddismo del terzo millennio o di rifugiarci in qualche arcadia, sarebbe quella di diminuire drasticamente gli orari, aumentare i salari, ridare dignità, tutele e certezze anche al lavoro meno specializzato, vale a dire l’esatto contrario di ciò che si sta facendo oggi. Solo così si potrebbero risollevare le sorti di una domanda aggregata strutturalmente in calo e creare dunque nuove attività. Questo però – oltre ad avere conseguenze enormi sul terreno geopolitico – andrebbe tutto a discapito dei profitti e introdurrebbe il germe di una fuoriuscita dal capitalismo, la maturazione di nuove e diverse idee di società, il ritorno ad aspirazioni ormai abbandonate come ferri arrugginiti. Perciò si fa tutto il contrario di ciò che si dovrebbe nella speranza che basti un maggior controllo sociale, una trasformazione delle società democratiche in autoritarie per mantenere il controllo e l’egemonia culturale.
E’ in questo contesto che si situano sia le ridicole sceneggiate di Renzi, i non sense dei suoi consiliori, l’acquiescenza servile di un milieu politico intento alle sue camarille. Ma dove si situano anche le proposte di reddito di cittadinanza o reddito sostitutivo o sussidio di disoccupazione a tempo indeterminato o integrazione di reddito (il ventaglio è ampio e politicamente molto differente): è fin troppo chiaro che a qualcosa di questo genere bisognerà arrivare necessariamente, tuttavia per paradossale che sia queste misure tamponano il problema, ma se impostate male non lo risolvono affatto, anzi possono essere, come del resto accade in Germania con i mini jobs, surrettiziamente funzionali a certe logiche di umiliazione del lavoro che lo stato finisce per supportare con i soldi pubblici. Ciò che occorre è davvero un mondo nuovo.
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