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Taranto si è in fondo in questi giorni confermata la nemesi delle
nefandezze connesse al modello di sviluppo. La parola d’ordine
semplificata è semplice, o si crepa di cancro, grazie alle esalazioni
prodotte dal polo siderurgico, o si crepa di disoccupazione se questo,
come da decisioni giudiziarie, verrà chiuso. In mezzo loro, i
lavoratori, le loro famiglie il cui destino è sospeso e carico di rabbia
che non trova pace, loro che bloccano e occupano la città e che
pretendono una soluzione che sembra incompatibile con le decisioni dei
padroni. Tutto è sospeso fino al 15 settembre quando il tribunale si
pronuncerà sulla richiesta di riapertura della fabbrica ma l’operazione
che ha portato anche all’arresto di coloro che dovevano garantire anche
la sua bonifica non promette bene. Da Taranto arriva rabbia e
disperazione a malapena fermata dall’intervento provvido di uno dei
pochi uomini del sindacato ancora dotati di una certa credibilità come
Maurizio Landini. Prevale il senso d’impotenza e del perso per perso, la
lotta condotta giorno dopo giorno, forse senza prospettive, di pura
anche se necessaria resistenza. La vicenda di Taranto è solo quella oggi
alle cronache, il paese intero sembra devastato dalla metastasi del
blocco del circuito produttivo, non si vende e non si consuma e allora
perché produrre? Il viaggio che segue, a macchia di leopardo e senza
nessuna pretesa di essere esauriente, è attorno a zone produttive, a
singoli comparti, a vertenze particolari, lavoratori e lavoratrici che
passeranno l’agosto in fabbrica o in piazza e che forse apriranno con
largo anticipo l’autunno caldo. Ma dietro una situazione del genere c’è
anche la vittoria di un modello che si è rivelato totalmente
fallimentare. L’alfiere delle fiere forzate, degli stabilimenti in
eccesso, delle giornate di cassa integrazione distribuite come bombe a
grappolo è di certo l’amministratore delegato della Fiat, il dott.
Marchionne. Facile prendersela con la politica dei prezzi della
concorrenza tedesca quando si è puntato tutto sulla distruzione dei
contratti nazionali, sui salari bassi, su modelli che non valgono la
cifra a cui vengono venduti. «Gli ultimi giorni di produzione della
“Musa” sono stati drammatici –racconta con rabbia Pasquale Lojacono, ex
rappresentante Rsu della Fiom, ormai cacciata dagli stabilimenti – Ci
rendevamo conto che tutto stava precipitando e che la Fiat non voleva
fare investimenti ad agosto ma un colpo del genere è veramente di quelli
che fanno male». Si perché da alcuni giorni i prodotti fallimentari
elaborati dai geni della direzione non verranno più fabbricati,
risultato per 2600 lavoratori non ci saranno più collocazioni mentre
altri 2300 potranno lavorare al massimo 2 giorni a settimana.
Anche a Mirafiori si sta consumando l’ennesimo sterminio, alla faccia
di trovate pubblicitarie come “Fabbrica Italia”, i lavoratori, anche
quelli in attività, raccontano di aver perso con i diversi periodici
cassa integrazione, almeno 18 mila euro ciascuno di salario. Chi aveva
risparmi li ha bruciati, molti hanno dovuto attingere anche al fondo
pension e al tfr.«Io ormai come sindacalista sono stato cacciato via-
racconta ancora Pasquale – Ma alcuni giorni fa sono andato in direzione
per accompagnare un lavoratore a cui avevano fatto una contestazione.
L’impressione che ho avuto, parlano con i dirigenti, è che neanche loro
credono più in un futuro. Il problema è che molti lavoratori ora non ce
la fanno più a resistere, in parecchi si sono indebitati per andare
avanti. A Torino, come in qualsiasi altra città non campa una famiglia
con 800 euro». La Fiom fa notare anche come il tanto decantato accordo
che ha spaccato tutto, si sia rivelato totalmente inadeguato Nasconde il
fatto che si vogliono produrre meno vetture con meno lavoratori e
basta. Pasquale, come gran parte degli altri ,ha lavorato 12 giorni in 7
mesi, per il resto solo cassa integrazione. Questo impianto è uno di
quelli che sta per morire nell’indifferenza generale, secondo Pasquale e
la Fiom la sola soluzione per mantenere il livello occupazionale è
quella della riduzione dell’orario di lavoro, ma da quell’orecchio l’ad
della Fiat non ci vuole sentire, per mantenere un rapporto con i
lavoratori si sono organizzate assemblee degli iscritti fuori dal luogo
di lavoro, incontri con i simpatizzanti, ma a Torino è anche difficile,
quello che resta della Fiat è sparso per un vasto territorio, anche
raggiungere i lavoratori non è facile.
La situazione della Fiat e della produzione di veicoli è secondo
Emanuele De Nicola, di Melfi, entrata in una fase che potrebbe essere di
non ritorno.«Come annunciato ci hanno messo in cassa e riprenderemo a
lavorare (forse) il 29 agosto. Ma qui non si illude nessuno, è troppo
tempo che lavoriamo 8 giorni al mese se va bene, il salario diminuisce
me non ci sono produzioni da fare. Si avvicina la fine se non ci sarà un
intervento diretto del governo. Personalmente ho seri dubbi che la Fiat
voglia realmente restare in Italia». Anche i lavoratori di Melfi non
passeranno ferie tranquille, si sta ancora aspettando la sentenza
definitiva che riguarda lo scontro fra Fiom e Fiat, si aspetta dal 10
luglio ma ancora c’è il silenzio. Non si tratterebbe di una vittoria
simbolica, si ridefiniscono anche con questa sentenza, le relazioni
industriali in Italia. «Noi – continua Emanuele – auspichiamo una
ripresa per fare chiarezza rispetto alle intenzioni reali della Fiat,
dobbiamo capire se vogliono o meno riconvertire le produzioni. I
dirigenti Fiom come Emanuele hanno una linea ben definita, sono
convintiche soltanto investendo in ricerca e innovazione per creare un
nuovo modello di auto a basso impatto ambientale e realmente
ecocompatibile si possa uscire dalla crisi. Oggi si producono più
automobili di quante se ne vendono, quindi andrebbe cambiata
radicalmente la strategia industriale:«Dobbiamo partire dall’idea di
città intelligenti – dice Emanuele – in cui si rimette in discussione il
concetto stesso di mobilità, il servizio pubblico, capire come uscire
prima che inizi la scarsità, dalla dipendenza dal petrolio, ragionare
insomma. Cose che la Fiat sembra non voler fare. E il governo nazionale
sembra subalterno alle decisioni di Marchionne, oppure si da credito a
buffonate come la messa in affitto di stabilimenti industriali. Occorre
altro, non basta la Punto Evo che produciamo noi, anche a metano che non
si vende, bisogna sperimentare i motori ad idrogeno, investire sul
fotovoltaico, e se la Fiat non è in grado di farlo che se ne vada senza
pretendere nulla. A me sembra che il governo francese si sia creato meno
problemi per affrontare la crisi della Peugiot . E chi pensava che la
Fiom fosse la responsabile della chiusura degli stabilimenti ora ci deve
ripensare.
La Fiat, e più in generale la produzione siderurgica, sono l’aspetto
più visibile di un Paese in cui ad essere al crollo è l’economia reale
che ne dica il presidente del consiglio. Le realtà produttive che sono
rimaste hanno scelto di scaricare tutte le difficoltà sui lavoratori con
orrende devastazioni contrattuali, l’uso massiccio della cassa
integrazione (straordinaria o in deroga), cercando di espellere il
conflitto dalla fabbrica e dimostrando assoluta assenza di volontà nella
riprogrammazione della propria strategia di mercato. Migliaia e
migliaia di lavoratori, le loro famiglie, che vivono questo scorcio
d’estate in maniera drammatica, senza soldi e senza la voglia nemmeno di
pensare alle meritate ferie. E poi ci sono gli altri, quelli che
attengono ad altri comparti, il mondo frammentato e disperso dei
lavoratori precari, delle piccole aziende, dei servizi in cui
l’occupazione o diminuisce o è cattiva occupazione. Le cifre sono
spaventose 3.152.763 sono quelli registrati come lavoratori precari
24.133.764 quelli a tempo indeterminato 2.402.482 gli ufficialmente
disoccupati. Nel primo quadrimestre del 2012 sono state utilizzate dalle
aziende 322 milioni di ore di cassa integrazione per una media di
470.000 lavoratori in cassa a tempo pieno. In media sono stati persi per
ogni lavoratore 2.600 euro in busta paga per un totale di 1,2 miliardi
di euro. Lo sottolinea la Cgil sulla base dei dati Inps sulla cig nel
2012. Dopo il dato record del 2011, anche nell’anno in corso le ore di
cassa integrazione utilizzate dalle aziende si aggireranno intorno al
miliardo.
Anche per questo 2012, quindi, il quarto anno consecutivo di crisi,
“la cassa integrazione si avvia ad attestarsi attorno al miliardo di ore
autorizzate”, osserva il segretario confederale, responsabile
Industria, Elena Lattuada – si continuano a registrare dati negativi che
indicano uno stato di profondissima crisi e di inesorabile declino del
settore industriale. Senza ripresa – avverte – questi dati peggioreranno
tirandosi dietro disoccupazione e desertificazione industriale. Bisogna
dare risposte al profondo malessere sociale rimettendo al centro il
lavoro”.
Ad aprile – sottolinea la Cgil nella sua elaborazione dei dati Inps
diffusi nei giorni scorsi – sono stati chiesti 86 milioni di ore (-13,6%
su marzo). Nel primo quadrimestre sono state autorizzate 322,8 milioni
di ore in linea con lo stesso periodo del 2011. “Le ore di cig – afferma
la Cgil – azzerano dall’inizio dell’anno 470.000 posizioni di lavoro ma
coinvolgono mediamente 940 mila persone con un’incidenza di cig per
occupato nell’industria pari a 46 ore per dipendente”.
Nei primi quattro mesi del 2012 il totale delle ore di cig ordinaria è
stato di 101 milioni di ore (+26,54% tendenziale) . La richiesta di ore
per la cassa integrazione straordinaria nel periodo gennaio-aprile
(110,9 milioni) segna un calo del 18,6% sullo stesso periodo dell’anno
scorso.
Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) con 110,9 milioni di
ore autorizzate (+3,79%) risulta lo strumento più usato. I settori che
presentano un maggiore volume di ricorso alla cigs in questi quattro
mesi sono quello del commercio con (39,9 milioni e +31,16%) e il settore
meccanico (21,9 milioni ma con un -31,88%). Le regioni maggiormente
esposte con la cassa in deroga da inizio anno sono la Lombardia con 20,5
milioni di ore (+19,70%), l’Emilia Romagna con 12,5 milioni (+15,19%) e
il Lazio con 11,7 milioni di ore (+154,18%).
“Considerando un ricorso medio alla cig, pari cioè al 50% del tempo
lavorabile globale (9 settimane) – afferma la Cgil – sono coinvolti da
inizio anno 938.525 lavoratori in cigo, cigs e in cigd. Se invece si
considerano i lavoratori equivalenti a zero ore, pari a 17 settimane
lavorative, si ha un’assenza completa dall’attività produttiva per
469.262 lavoratori, di cui 160 mila in cigs e altri 160 mila in cigd.
Continua così a calare il reddito per migliaia di cassintegrati: dai
calcoli dell’Osservatorio cig, si rileva come i lavoratori parzialmente
tutelati dalla cig abbiano perso nel loro reddito 1,2 miliardi di euro,
pari a 2.600 euro per ogni singolo lavoratore”.
Cifre di questo tipo fanno pensare che il numero di coloro che
quest’anno stanno già riducendo in maniera tremenda il proprio tenore di
vita e che difficilmente potranno permettersi una vacanza estiva, è
destinato a crescere in maniera esponenziale.
Come se non bastasse bisogna considerare che fra chi ha un contratto a
tempo indeterminato, cresce in maniera esponenziale il numero di colo
che si ritrova in cassa integrazione sapendo che la mobilità, ovvero il
licenziamento, restano dietro l’angolo, mondi diversi fra di loro che
spesso non hanno neanche modo di incontrarsi e di dialogare, di fare
massa comune, in cui si cercano le soluzioni per sbarcare il lunario.
Parlare di “ferie” e di vacanze a chi vive in una simile condizione
spesso suona come un insulto, come il voler rammentare che le condizioni
di vita, di un anno due anni addietro, oggi non hanno modo di esistere.
Stefano Materia, segretario Fiom Cgil di Catania, ci racconta
sconsolato di come stia morendo l’attività produttiva nella sua
provincia. «In questi giorni abbiamo saputo che per i 39 lavoratori
della Nokia, che producono software – dice ,con tono irato – non ci sono
prospettive se non qualche ricollocazione individuale. Lo stesso per
gli altri che costituivano l’indotto. Catania e Siracusa sono il cuore
produttivo della Sicilia ma da noi ormai siamo con la Cig al 70%,
resiste Siracusa ma è come se si tenesse su una gamba sola. La
produzione nostra finisce in Portogallo, noi resistiamo, lunedì e
martedì saremo in sciopero e manifesteremo». Si c’è chi l’estate la vive
anche come momento di lotta e di difesa del posto di lavoro,
combattendo contro un sistema che li vuole schiacciati.
Ma c’è chi lotta, resiste e in qualche maniera riesce a non
lasciarsi, per ora schiacciare. Tutti al mondo conoscono gli “studios”
di Cinecittà, luogo storico per la produzione culturale in Italia e nel
mondo. Luigi Abete è un imprenditore che intende acquistare l’area ( in
cui per altro sorge anche un parco) per creare altra speculazione
edilizia, ovviamente dichiarando di voler invece mettere in atto un
rilancio. Messi in discussione i posti di lavoro dei circa 250 che degli
studios sono l’anima e anche la storia, ma anche le migliaia di posti
che ruotano attorno all’industria cinematografica. Sono intervenute le
Rsu interne, si è tentato di rompere il silenzio che il potente Abete ha
tentato di imporre sulla vertenza e si sono attuati presidi,ci si è
relazionati alla città anche con momenti spettacolari come la finta
nevicata di inizio luglio. Alla fine,grazie al prezioso lavoro di
compagni come Citto Maselli, si è mosso il mondo della cultura, quella
che si percepisce anche come opportunità di vita e di lavoro. Hanno
preso parola persone come Ghini, Tognazzi, Tornatore. La vicenda è
uscita dai confini nazionali e sono intervenuti Loach e Tritignant, lo
stesso Le Figarò si è soffermato sulla vicenda. Abete non ha preso molto
bene la determinazione dei lavoratori, continua a dichiarare di volersi
liberare dei riottosi ma nel frattempo c’è chi comincia a chiedere le
sue di dimissioni. A protestare contro lo smantellamento di un pezzo di
industria privatizzata già 15 anni fa ora ci sono anche gli abitanti del
quartiere che non vogliono vedere trasformato un parco importante per
il territorio in cemento allo stato puro. Il comitato “Cinecittà bene
comune” e forze politiche come il Prc sostengono la loro lotta.