Io, in politica, sono un realista. Almeno in buona percentuale. Intendo ‘realista’ come opposto a ‘velleitario’.
Ritengo che abbiano effetto solo i passi che non siano più lunghi della
gamba. Altresì penso che la cose si cambiano davvero se non ci si
limita a petizioni di principio, a vaghe manifestazioni d’intenti, ad
astratte cognizioni di diritti, all’invettiva, all’indignazione, o alla
giustapposizione altrui delle proprie posizioni personali, etiche,
spirituali. Ritengo che i rapporti di forza siano essenziali, e che da
questi si debba sempre partire, e guai a ignorarli. Sono realista anche
perché sono pronto a capire certe mosse politiche alla luce delle
ragioni storiche, che fungono in qualche modo da solida giustificazione
di quelle stesse mosse.
Detto ciò,
però basta. Non sono disposto a morire di realismo, né a immaginare lo
stato del mondo (o il ‘presunto’ stato del mondo) come assolutamente
determinante per le mie decisioni. La politica è anche trasformazione,
rischio, sfida, volontà, fantasia, creatività, sfacciataggine. Senza
queste caratteristiche essa perde di senso, si trasforma in una piatta
gestione dell’esistente, in piccolo cabotaggio, in una pratica di
governo (e persino di opposizione!) talmente scialba da apparire
ridicola.
Per l’iperrealista le cose accadono solo perché accadono, i
fatti avvengono quasi prodigiosamente o perché l’avversario li concede.
Tutto ciò che è non-io ha la precedenza assoluta sull’io. I partiti
cessano di essere agenti trasformativi per divenire cartine al
tornasole, semplici accertatori di stati di fatto. I politici dismettono
i panni dei combattenti, per assumere quelle dei ‘certificatori’ di
realtà. Essi si limitano a dire ‘è così’, e ad aggiungere “di più non si
può”. Per il futuro “vedremo”.
Gli
iperrealisti sono malati di ‘concretezza’, o di quella che immaginano
sia la ‘concretezza’. E tacciano gli altri di velleitarismo, a partire
da quelli che vorrebbero imprimere, invece, alla realtà una torsione e
trasformare i rapporti di forza con azioni mirate e un po’ di vena
rivoluzionaria. Sono talmente abbarbicati alla realtà (o presunta tale)
che pensano davvero morte le ideologie. Ma così facendo si gettano mani e
piedi nella braccia dell’avversario (che è tutto meno che realista,
anzi ritiene che la realtà sia un gioco del quale prendersi gioco).
L’avversario dell’iperrealista, difatti, è sempre una specie di
giocoliere, un funambolo, un paraculo, un giocatore di poker, un
cantante da navi da crociera, uno che punta tutto sulla voglia del suo
popolo di sfasciare le regole e sovvertire le condizioni della realtà.
Tra i due, l’iperrealista alla fine è il vero conservatore.
Perciò dico
questo: accettare regole e condizioni dell’altro, scambiandole per unica
realtà di fondo, è un modo certo per perdere. Provare a sovvertire quel
che appare ovvio e consolidato nel pensiero egemone (per dire: la
politica è comunicazione, il leader è tutto, le ideologie non esistono) è
rischioso, certo, fa apparire velleitari, ma è l’unico modo per
vincere, anche se lo spiraglio appare strettissimo, e le percentuali di
riuscita basse. Ma a cosa serve la politica se invece del coraggio è
alimentata solo dalla prudenza? Io dico a nulla.
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