Bisogna parafrasare una celebre stilettata di Fortebraccio per arrivare
all’essenza di questo figlio di papà, così neghittoso negli studi da
non essersi mai laureato, ma altrettanto deciso a non conoscere mai il
senso concreto della parola lavoro. Perché Matteo Orfini è la versione
tracotante e contemporanea del vedo gente faccio cose di Ecce bombo, un
tristissimo esempio di classe dirigente che messa alla prova dimostra
tutta la sua inconsistenza o meglio ancora rivela ingenuamente i propri
moventi.
Così il commissario del Pd romano, nonché presidente del Pd per
renzata ricevuta, inciampa nei suoi retropensieri e nell’illustrare il
commissariamento de facto del Comune di Roma in vista del giubileo, ma
assolvendo la giunta Marino demansionata a segnaposto politico per
evitare elezioni, fa la sua porca gaffe. Non sa trovare di meglio che
paragonare la trovata di affidare a Gabrielli la gestione della città
alle vicende dell’Expo. Cioè al più clamoroso fallimento organizzativo,
ideativo ed etico in cui è stato trascinato il Paese. Infatti la
nomina del commissario straordinario, poi battezzato coordinatore, che
riduce Marino a un feticcio apre la strada maestra della solita
emergenza: l’affidamento degli appalti e degli incarichi senza concorso.
A una giunta completamente coinvolta nel sistema corruttivo viene
consentito di rimanere al suo posto per continuare per addossarle
l’opera di tagli ai servizi e caduta di operatività che sono ormai il
correlato oggettivo del patto di stabilità. Forse non è un caso che il
padre di Orfini sia stato il produttore del pap’occhio.
Così si ottengono alcuni vantaggi: si evita lo tsunami di un redde
rationem politico inevitabile, si ubbidisce al Vaticano e a questo
giubileo anticipato che il misericordioso Francesco pensa come
coronamento mediatico del proprio pontificato (la data canonica del 2025
è troppo lontana per lui) e come forzatura nei confronti del sinodo, si
lascia intatta la configurazione in cui si è innestata la corruzione,
si mettono in cantiere nuovi affari di emergenza e si spera che i
soldini arrivati per via giubilare, plachino le ire dei romani.
Dopotutto Orfini ha ragione nel suo inconsapevole autodafé o per altri
versi buona novella per le truppe d’appalto: si sente puzza di Expo
lontano un miglio. Ma appunto per questo non doveva tirare fuori
il paragone che dimostra sia l’hobbismo dialettico di cui si ciba, sia
l’assuefazione al vuoto etico che gli fa apparire l’associazione delle
due cose come virtuosa ed esemplare.
In tutto questo appare completamente assente qualunque visione
sociale e questo vuoto rimbomba assordante nelle vicende di questi
giorni, evidenziando la mancanza di pensieri, prospettive, programmi,
insomma di qualsiasi cosa possa chiamarsi politica. Si tratta soltanto
giochi di scacchi di elite decise a conservare i privilegi, compreso
quello di vedersi retribuire profumatamente il vedo gente e faccio cose.
Anche se è pessima gente e sono cose prive di senso.
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