Questa riflessione di Tonino Bucci,
ex giornalista di Liberazione, in polemica con Eco, merita di essere
ripresa dal suo profilo Facebook.
Umberto Eco lamenta il declino dei tempi presenti e imputa a Facebook di aver dato la parola a intere legioni di imbecilli.
Umberto Eco lamenta il declino dei tempi presenti e imputa a Facebook di aver dato la parola a intere legioni di imbecilli.
Gli imbecilli, però, sono sempre
esistiti e sempre esisteranno, con o senza Facebook. Ma, a parte questo,
l'argomento è insidioso. Di cosa mai si dovrebbe avere nostalgia, di un
mondo selettivo dove solo le élite avevano diritto di parola? Dovremmo
guardare all'indietro, a un tempo passato, quando solo le presunte
avanguardie illuminate partecipavano della circolazione delle idee,
quando i mezzi di trasmissione di queste erano appannaggio di ristretti
ceti sociali? Dubito, tra l'altro, che sia mai esistita nella storia
dell'umanità un'epoca in cui la cultura - intesa in senso lato - fosse
il prodotto esclusivo degli intellettuali di professione e non invece un
sistema complesso di norme, idee e valori elaborato dalla società nel
suo insieme. La cultura non è fatta solo dalla Critica della ragion pura
o da romanzi come Il nome della rosa. Cultura sono anche le mentalità
collettiva.
Al posto di Eco mi chiederei piuttosto perché i cosiddetti
intellettuali di professione abbiano fallito, dal momento che loro
avrebbero dovuto fare da argine all'imbecillità dilagante, visto e
considerato che per lungo tempo hanno goduto del pieno sostegno degli
apparati culturali tradizionali, di case editrici, università, riviste e
giornali. I ceti intellettuali avrebbero potuto utilizzare il proprio
potenziale per orientare ed educare l'opinione - ammesso che potessero
arrogarsi un tale monopolio morale. I mezzi, li avevano. Non l'hanno
fatto. Per questo la boutade di Eco sembra il grido disperato
dell'intellettuale classico, se non la manifestazione piccata del suo
risentimento, per essere stato scalzato da Facebook e Twitter, per non
essere più al centro dell'attenzione sulla scena pubblica. Se la
categoria da lui rappresentata ha perso autorevolezza agli occhi
dell'opinione pubblica non è certo per colpa dei social media. Va
riconosciuto che le nuove tecnologie dell'informazione hanno scardinato
le vecchie divisioni del lavoro, che molte professioni intellettuali un
tempo considerate prestigiose oggi sono state discreditate e
precarizzate (gli insegnanti, vero?) - anche per effetto della Rete,
come dimostra lo stato del giornalismo. Sono processi profondi, contro i
quali non c'è resistenza che tenga, processi che alla vecchia figura
dell'intellettuale "legislatore" di valori a tutto campo, hanno
sostituito figure più agili e flessibili di intellettuali specializzati
(web designer, social media manager, agenti di pubblic relations) e il
cui compito consiste nella "traduzione" e divulgazione di contenuti e
valori del proprio campo specifico.
Eppure, tutto ciò non basta a
costruire un alibi. Se, una volta passati di scena i Pasolini e gli
Sciascia, i Calvino e i Sanguineti, gli intellettuali sono diventati
impotenti, questo lo devono anche a se stessi e all'essersi accomodati,
un passetto alla volta, a recitare il ruolo di chierici del potere.
Ma se proprio vogliamo discutere di Facebook e compagnia bella, altri
forse sono gli aspetti su cui valga la pena discutere. Piuttosto che
lamentarsi con sdegno aristocratico per il potere di parola degli
imbecilli, occupiamoci di come proprio le persone di media cultura
utilizzano i social media. L'aspetto più dirompente è che Facebook ha
trasformato la scena pubblica in uno sterminato spazio di esibizione del
proprio privato. A questo esibizionismo non si sottraggono neppure i
più culturalmente dotati. Lasciamo pure perdere di quanto
pericolosamente questa società della comunicazione assomigli sempre più a
una società del controllo orizzontale, in cui non solo tutti
controllano tutti senza bisogno di un'autorità superiore, ma ognuno
concede spontaneamente e con piacere tutto il proprio Io privato allo
sguardo altrui.
Non passa giorno senza che milioni di utenti Facebook nel mondo non facciano un resoconto accurato delle proprie faccende domestiche, della lista delle spese future da approntare, dello stato del proprio umore, dell'ultimo litigio con il ragazzo o che diffondano proverbi, messaggi d'amore universali, aforismi in salsa sentimentale, saluti e baci. Una melassa di buoni sentimenti spalmata in bella vista convive fianco a fianco con l'esibizione delle pulsioni più feroci. Facebook è il regno di amorevoli madri e padri di famiglia che tra una foto e l'altra dei propri bambini invocano pulizia etnica e forni crematori per gli zingari fin dalla tenera età. Chi augura all'odiato collega di lavoro una lenta morte fra atroci tormenti, chi spande urbi et orbi stucchevoli messaggi d'amore ad amici e amiche del cuore.
Tanto più nei rapporti privati reali diventiamo taciturni, tanto più soffriamo di incomunicabilità, tanto più fatichiamo a costruire rapporti affettivi, tanto più i sociologi iniziano a lanciare l'allarme per la crisi delle relazioni sentimentali e private nei paesi del Nord Europa, quanto più siamo sopraffatti dal bisogno irrefrenabile di confessarci, raccontarci e metterci a nudo. Facebook non nega a nessuno la possibilità di costruirsi un Io privato pubblico, una interiorità tutta da raccontare, un canale di sfogo ad ambizioni letterarie - certo non sempre fondate -, una sensazione di onnipotenza al limite dell'egocentrismo e del delirio. Desideriamo esibire i nostri sentimenti in questa immensa vetrina sociale, ma siamo spesso incapaci di comunicare con le persone in carne e ossa con cui conviviamo.
Chi è incapace a sollevare lo sguardo dal tran tran quotidiano e incrociare quello altrui, chi ha perso per strada qualsiasi dote di introspezione psicologica e chi non l'ha mai avuta, può trasformarsi su Facebook in campione d'ineguagliabile profondità psicologica, nonché implacabile cacciatore di I like. Non occorre citare i comportamenti sociali più estremi - violenze domestiche, stupri, pedofilia - per testimoniare della difficoltà di costruire e gestire rapporti umani. È la stessa quotidianità della nostra vita affettiva e relazionale a entrare in crisi. Tanto più su Facebook allestiamo in scena un io traboccante di sentimenti, aforismi e frasi retoriche a effetto, quanto più nella vita reale non ci resta più nulla da dire.
È il paradosso della società della comunicazione. Siamo sempre connessi e tra Facebook, Twitter, Skype, WhatsApp o Viber abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta di come collegarci agli altri. Sartre diceva che non ci accorgiamo dell'inferno che è qui tra noi nel quotidiano, nelle relazioni tra individui, perché siamo sempre esposti al rischio di divenire opachi come le cose, inautentici, persone di malafede, cose tra le cose. Con la sola differenza che ai suoi tempi non esisteva Facebook per leggere nel post del proprio convivente la sua anima.
Non passa giorno senza che milioni di utenti Facebook nel mondo non facciano un resoconto accurato delle proprie faccende domestiche, della lista delle spese future da approntare, dello stato del proprio umore, dell'ultimo litigio con il ragazzo o che diffondano proverbi, messaggi d'amore universali, aforismi in salsa sentimentale, saluti e baci. Una melassa di buoni sentimenti spalmata in bella vista convive fianco a fianco con l'esibizione delle pulsioni più feroci. Facebook è il regno di amorevoli madri e padri di famiglia che tra una foto e l'altra dei propri bambini invocano pulizia etnica e forni crematori per gli zingari fin dalla tenera età. Chi augura all'odiato collega di lavoro una lenta morte fra atroci tormenti, chi spande urbi et orbi stucchevoli messaggi d'amore ad amici e amiche del cuore.
Tanto più nei rapporti privati reali diventiamo taciturni, tanto più soffriamo di incomunicabilità, tanto più fatichiamo a costruire rapporti affettivi, tanto più i sociologi iniziano a lanciare l'allarme per la crisi delle relazioni sentimentali e private nei paesi del Nord Europa, quanto più siamo sopraffatti dal bisogno irrefrenabile di confessarci, raccontarci e metterci a nudo. Facebook non nega a nessuno la possibilità di costruirsi un Io privato pubblico, una interiorità tutta da raccontare, un canale di sfogo ad ambizioni letterarie - certo non sempre fondate -, una sensazione di onnipotenza al limite dell'egocentrismo e del delirio. Desideriamo esibire i nostri sentimenti in questa immensa vetrina sociale, ma siamo spesso incapaci di comunicare con le persone in carne e ossa con cui conviviamo.
Chi è incapace a sollevare lo sguardo dal tran tran quotidiano e incrociare quello altrui, chi ha perso per strada qualsiasi dote di introspezione psicologica e chi non l'ha mai avuta, può trasformarsi su Facebook in campione d'ineguagliabile profondità psicologica, nonché implacabile cacciatore di I like. Non occorre citare i comportamenti sociali più estremi - violenze domestiche, stupri, pedofilia - per testimoniare della difficoltà di costruire e gestire rapporti umani. È la stessa quotidianità della nostra vita affettiva e relazionale a entrare in crisi. Tanto più su Facebook allestiamo in scena un io traboccante di sentimenti, aforismi e frasi retoriche a effetto, quanto più nella vita reale non ci resta più nulla da dire.
È il paradosso della società della comunicazione. Siamo sempre connessi e tra Facebook, Twitter, Skype, WhatsApp o Viber abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta di come collegarci agli altri. Sartre diceva che non ci accorgiamo dell'inferno che è qui tra noi nel quotidiano, nelle relazioni tra individui, perché siamo sempre esposti al rischio di divenire opachi come le cose, inautentici, persone di malafede, cose tra le cose. Con la sola differenza che ai suoi tempi non esisteva Facebook per leggere nel post del proprio convivente la sua anima.
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