Per che cosa lottiamo? Per quale mondo, per quale
organizzazione sociale delle esisgenze collettive? Quale "altro mondo" è
possibile? La domanda è stata da tempo espulsa dalle discussioni
quotidiane e anche da quelle occasionali, da "convegno". Nel "movimento"
- definizione senza confini precisi, mobile, interpretabile a "pen di
segugio", a seconda delle convenienze temporanee di questo o quel
circolo in vena di "egemonia" - si preferisce concentrare l'attenzione
sulle "pratiche" che da sole, magicamente, produrrebbero quel che
l'organizzazione collettiva e consapevole faticosamente persegue.
Pubblichiamo questo sforzo di elaborazione del Collettivo MIlitant, che riprende alcune importanti riflessioni teoriche degli ultimi anni,
e le mette in relazione alla pratica quotidiana di movimento.
Spiegandone anche la tendenza al minoritarismo "strutturale",
refrattario a qualsiasi crescita che non sia monodimensionale; ovvero
alla pura - e perciò impossibile - riproduzione allargata dell'identico a
sé. Ognun per sé.
Un punto di partenza solido per attivare il pensiero critico. Ma
anche un piano di riflessione che implicitamente consiglia modificazioni
radicali della condotta politica, tesa alla costruzione di una nuova
soggettività radicale organizzata, articolata, radicata nel corpo
sociale e con l'apertura mentale derivante - obbligatoriamente - dal
misurarsi con i problemi immensi dell'organizzazione sociale
complessiva, la sua evoluzione possibile e quella materialisticamente
necessaria.
*****
Nonostante il superamento del marxismo come ideologia “ufficiale” del
campo delle sinistre non abbia portato alla produzione di un altro
“pensiero forte”, cioè strutturalmente definito e abbastanza univoco
nella sua interpretazione e applicazione, non per questo le sinistre,
tanto “di movimento” quanto partitico-istituzionali, sono rimaste prive
di una loro guida ideologica. Almeno in Italia, il pensiero
tendenzialmente dominante all’interno delle sinistre radicali è
scaturito dall’incontro tra il post-strutturalismo francese (Foucault,
Deleuze, Guattari), un pezzo di scuola di Francoforte (Marcuse), e la
speculazione politico-filosofica post-operaista di Tronti e Negri
(descrivendo una sorta di “decrescendo rossiniano”: da Marcuse, uno dei
più importanti filosofi del ‘900, a Foucault, uno dei massimi critici
del potere costituito e delle sue articolazioni, a Negri, l’esegeta di
Spinoza). Non c’è solo questo, ovviamente, ma il cuore del pensiero
radicale contemporaneo può situarsi all’incrocio di queste tre “scuole”
politico-filosofiche.
La sintesi di queste tendenze politico-culturali determina da
quarant’anni abbondanti la sostanza del pensiero radicale e conflittuale
italiano. Tale pensiero, al di là del giudizio che se ne voglia dare, è
caratterizzato però da una contraddizione decennale: sempre più egemone
all’interno della mobilitazione politica, fra i militanti, gli
studenti, i dirigenti della sinistra, ma sempre più minoritario per la
società nel suo complesso e all’interno delle classi subalterne. Siccome
ci troviamo all’apogeo di tale contraddizione (non staremo qui a
dimostrare quanto risulti ininfluente tale pensiero per i centri di
potere costituito, tanto economico quanto politico), comprendere le
ragioni di questo minoritarismo diventa parte della riscoperta di
strumenti politici all’altezza dei tempi.
Lungi dall’essere un discorso
esclusivamente intellettualistico, filosofico o astratto, la definizione
di questo problema concerne direttamente la quotidianità politica, le
lotte di ogni giorno e le loro prospettive. Perché oggi risolvere la
questione di come tornare ad esprimere un pensiero maggioritario, almeno
interno alla classe, è il problema principale onde evitare la
marginalizzazione sub-culturale verso cui stiamo tendendo.
A differenza del pensiero marxista, la sistematizzazione di questo
pensiero radicale nasce nelle università, e ci nasce non determinando ma
seguendo la crescita della mobilitazione studentesca. Una serie di
intellettualità accademiche vengono “tirate per la giacchetta”,
costrette a misurarsi con una predisposizione alla rivolta
generazionale, alla mobilitazione costante, alla partecipazione
politica, che impone agli intellettuali meno imbolsiti la “questione
movimento”. Tra il 1942 e il 1951 Herbert Marcuse lavorerà prima all’Oss
poi alla Cia; Foucault nel 1966 pubblica il suo libro fino ad allora
più importante, Le parole e le cose, che è una resa dei conti
con Marx e il marxismo, un libro giudicato “di destra” per la violenza
della critica a Marx; Antonio Negri un cattolico militante poi iscritto
al Psi. Sono solo esempi, non esaustivi ma significativi non per svelare
un “pedigree politico” non conforme alle loro successive evoluzioni
(peraltro Marcuse negli anni Venti era comunista spartachista), quanto
per chiarire come gli autori principali di questo pensiero non “formano”
il movimento studentesco ma vengono da questo formati tramite
l’incontro sconvolgente con la soggettività studentesca. Una
soggettività che esplode nel 1968 ma che ha i suoi prodromi almeno
dall’inizio degli anni Sessanta, quando il definitivo decollo
dell’economia europea post-bellica garantisce la creazione di
un’università di massa nella quale accedono non più solo i figli del
direttore di banca ma anche quelli di una piccola borghesia in ascesa e
financo i primi figli di operai. La composizione sociale studentesca
cambia forma, producendo contraddizioni che poi sfoceranno
nell’eccezionale fenomeno del ’68 e degli anni Settanta in Italia.
La crescente mobilitazione politica di questa soggettività
necessitava però di un pensiero radicale capace non soltanto di porre
una critica assoluta al sistema capitalista, ma anche di prendere le
distanze dal socialismo reale sovietico, di cui i partiti comunisti
nazionali erano espressione e principale problema per questo spirito di
rivolta. A parte rari esempi (e il Pci, nonostante tutto, rimase uno dei
partiti più propenso alla dialettica con il ’68), quella tra partiti
comunisti e movimento studentesco è la storia di una rottura immediata e
non più risanata, una conflittualità a volte latente a volte plateale.
Impossibile servirsi del pensiero marxista “ufficiale”,
leninista-staliniano di stampo sovietico, quando nei vari contesti
europei la rottura portava la soggettività studentesca a confliggere in
primo luogo con quella storia. Servivano strutture di pensiero,
ideologie, forme culturali o contro-culturali capaci di prendere le
distanze tanto dal capitalismo quanto dal socialismo realizzato, tanto
da Washington che da Mosca, tanto dalle democrazie cristiane quanto dai
partiti comunisti. E questo fatto è ancora più evidente in Francia per
la presenza di un partito, il Pcf, ancor più chiuso del Pci nella sua
dialettica interna e nella comprensione dei fenomeni sociali eccedenti
la soggettività operaia. Non sarà per caso dunque che proprio dalla
Francia verrà lo stimolo decisivo alla rottura con una tradizione
politica e la sistematizzazione di nuove forme ideologiche. Una rottura
non determinata solo dalla presenza del Pcf, ma dall’egemonia del
pensiero cartesiano-razionalista, dal “dominio hegeliano” nei
dipartimenti universitari, e via dicendo, che per reazione produrrà il
rifiuto del pensiero positivista e storicistico ottocentesco.
All’inizio degli anni Sessanta viene scoperto il pensiero di Mao. Un pensiero utilizzato soprattutto per portare la lotta dentro al partito comunista e contro
i dirigenti politici comunisti. Nonostante determini la storia della
Cina da un trentennio e ne sia presidente da più di un decennio, è solo
dal ’60 in avanti che Mao viene preso a modello di un pensiero
rivoluzionario alternativo al socialismo sovietico e al suo marxismo
ortodosso. Questo fatto avviene perché di Mao interessa la sua capacità
di portare la lotta di classe nel partito, perché anche nel partito,
cioè nella supposta avanguardia politica del proletariato, può annidarsi
il germe del riformismo, della controrivoluzione, della borghesia. E’
il pensiero che legittima la lotta degli studenti tanto alle destre
quanto alle sinistre ufficiali. Il maoismo costituirà parte del
retroterra culturale di una serie di autori che poi prenderanno il largo
recidendo completamente l’originaria appartenenza al movimento
comunista ufficiale, di cui Mao (purtroppo per loro) fa ancora parte. E,
ancora una volta, sarà dalla Francia che verrà introdotto questo
“maoismo occidentale” quale arma intellettuale anti-sovietica.
Accomunati capitalismo e socialismo reale in un’unica categoria
avversa, quella del potere autoritario da combattere prescindendo dalle
forme che questo assume, tanto di destra come di sinistra, il cuore del
ragionamento politico teorico si sposta dall’anticapitalismo – utile a
spiegare solo una parte del problema – all’antiautoritarismo, meglio in
grado di cogliere il rifiuto verso ogni imposizione gerarchica e, non
secondariamente, utile anche alla lotta quotidiana verso le istituzioni
sociali emblema del potere autoritario: in primis l’università, secondo
poi tutte le “istituzioni totali” quali il carcere, gli ospedali
psichiatrici, eccetera, ma anche i partiti e i sindacati. Il rapporto
dialettico tra studenti in cerca di un sistema di pensiero “anti-potere”
e autori volti all’indagine del meccanismi del potere stesso, produrrà
quel milieu culturale favorevole all’affermazione di una
“critica del potere” che non assumerà più i contorni della critica al
potere capitalista, quanto di una critica filosofica ai meccanismi del
potere, qualsiasi essi siano. E’ in questo tornante filosofico-politico
che si situa la riscoperta di Nietzsche “da sinistra”, come autore in
grado più del marxismo stesso non solo di spiegare l’intima
organizzazione del potere, ma di legittimare la rivolta individuale alle
organizzazioni gerarchiche, qualsiasi esse siano: rimandiamo a questa nostra analisi l’analisi del ruolo di Nietzsche e dei nietzscheani nelle correnti di pensiero radicali contemporanee.
Se il marxismo individuava nei rapporti di produzione il cuore del problema, indicando nel capitalismo un insieme di rapporti sociali da
ribaltare di segno attraverso la presa del potere, il nuovo pensiero
radicale metteva in discussione questa presa del potere. Anche se non
esplicitamente, la decostruzione intima delle microfisiche del potere,
delle sue caratteristiche sempiterne, delle sue articolazioni
necessarie, rendeva il potere qualcosa di autoritario di per sé,
qualcosa da cui discostarsi, da combattere qualsiasi forma questo
prendesse. La questione non era più chi controllava
i rapporti di produzione, ma l’avversione totale, conflittuale, senza
mediazioni, al potere costituito. Se il marxismo voleva sostituirsi al
capitalismo, il pensiero post-strutturalista/marcusiano non voleva più
avere niente a che fare col potere stesso, elaborando una forma di
individualismo anti-autoritario che non poteva non incrociarsi col
pensiero libertario e anarcoide soprattutto nel porre l’individuo contro la società organizzata.
Tradotta nella quotidianità, tale tendenza si concretizzava abolendo
ogni divisione organizzativa riproducibile rapporti di gerarchizzazione
formale. L’assemblea, simbolo di organizzazione orizzontale, senza
rappresentanti, senza cariche precostituite, senza dunque quelle
formalità in grado di riprodurre rapporti di potere anche all’interno
dei movimenti, veniva posta ad emblema di una nuova prassi. L’aspetto
organizzativo della mobilitazione, inaggirabile anche per gli studenti
del ’68, doveva fondarsi sull’informalità tanto delle cariche e dei
rappresentanti, quanto dei meccanismi decisionali. L’obiettivo di
impedire al proprio interno quelle tendenze che si combattevano
all’esterno, quel potere costituito divenuto la questione principale dei
movimenti studenteschi, imponeva per coerenza di smantellare al proprio
interno ogni forma di gerarchizzazione, di divisione del lavoro non
liberamente accettata, ogni rappresentanza indiretta. Una condizione
facilitata dall’estrema potenzialità di mobilitazione del soggetto
studentesco, disponibile alla partecipazione totalizzante,
all’assemblearismo permanente, all’estrema orizzontalità, ad ogni ora
del giorno e della notte.
Se per la condizione studentesca, nonchè per gli intellettuali
“organici” al movimento, il potere era qualcosa da rifiutare “a
prescindere”, così non sembra essere per la società nel suo complesso.
Giungiamo allora al centro della contraddizione ancora oggi attuale. La
società nel suo complesso – non questo o quel gruppo ristretto – ha
bisogno di organizzazione, di divisione dei ruoli, di articolazione
politica ed economica: in sintesi, ha bisogno di un potere. Il pensiero
marxista, cioè la critica rivoluzionaria al potere capitalista, non
chiedeva l’abolizione di ogni potere ma la conquista di un potere
popolare, dei lavoratori, capace di ribaltare il rapporto di produzione
determinato in forma alienata e fondato sul profitto privato. Era un
discorso immediatamente capace di divenire maggioritario, perché
esprimeva il bisogno dei lavoratori non di liberarsi dal potere, ma di
conquistarlo. E in effetti, in una società divisa in classi, l’ipotesi
di una lotta per il potere di una di queste classi non poteva che
egemonizzare ogni orizzonte politico. Direttamente o indirettamente,
tutte le forze politiche che avessero voluto interagire e rappresentare
le classi subalterne dovevano in qualche modo accettare il piano
marxista del discorso, anche per distaccarsene. Il marxismo esercitava
cioè un’egemonia culturale nel vero senso della parola, cioè influenzava
e determinava anche senza volerlo ogni piano del discorso politico,
perché capace di tradurre politicamente un istinto sociale storicamente
determinato, quello della riappropriazione cooperativa della produzione.
Il pensiero post-strutturalista francese, una parte della cosiddetta
scuola di Francoforte, nonché l’operaismo italiano (sebbene in forme
diverse e sebbene stiamo parlando principalmente delle teorie al
servizio del movimento studentesco), rifiutando il piano del potere,
produssero nei fatti una cesura storica con le classi subalterne, a cui
non gli si proponeva più una presa del potere ma un conflitto continuo e
indeterminato con esso, qualsiasi potere fosse, perché, come recita il
verso di uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, “non ci sono poteri buoni”.
Ci
sembra allora situarsi qui la contraddizione filosofica centrale che
determina il minoritarismo congenito di tale pensiero, che purtroppo
egemonizza ancora oggi il discorso politico dei movimenti. Nonostante
tutte le decostruzioni possibili dei meccanismi di potere – alcune
peraltro notevoli e capaci di arricchire il bagaglio teorico del
pensiero rivoluzionario – rimane inevasa la domanda di potere che deriva
dall’organizzazione sociale nel suo complesso.
Se la società ha necessità di un qualche tipo di potere, rispondere a
questo bisogno collettivo rifiutando il piano del discorso costringe il
pensiero conflittuale ad una incomunicabilità di fondo con le masse subalterne.
Capace di convincere i militanti costantemente mobilitati, quindi
predisposti in certo qual modo alla partecipazione politica
totalizzante, tale pensiero non riesce congenitamente ad interloquire
con la popolazione e con le sue fasce popolari, impossibilitate alla
continua partecipazione politica e dunque esigenti forme di
organizzazione sociale basate sulla divisione dei compiti formalizzata.
Parlare di organizzazione allora non comporta solo ragionare della
propria di organizzazione, ma anche di quella generale una volta
conquistato il potere. Comporta, in altri termini, chiarire quale tipo
di alternativa politica rappresentare, come movimenti di classe. La
difficile comprensione di questa alternativa ci sembra essere uno dei
motivi profondi dell’incapacità delle sinistre attuali di andare al di
là del proprio bacino militante, peraltro sempre più ristretto.
da http://www.militant-blog.org
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