Non solo Grecia. In
effetti non si era mai visto un creditore, per stupido che esso sia,
cercare di uccidere il proprio debitore, come invece il Fmi sta facendo
con i greci. Ci deve essere qualcosa di più: la costruzione scientifica
del «nemico». E la volontà di un sacrificio esemplare.
L'economia che uccide di cui parla il Papa la vediamo al lavoro in
questi giorni, in diretta, da Bruxelles. Ed è uno spettacolo
umiliante. Non taglia le gole, non ha l’odore del sangue, della
polvere e della carne bruciata. Opera in stanze climatizzate, in
corridoi per passi felpati, ma ha la stessa impudica ferocia della
guerra. Della peggiore delle guerre: quella dichiarata dai ricchi
globali ai poveri dei paesi più fragili. Questa è la metafisica
influente dei vertici dell’Unione europea, della Bce e, soprattutto,
del Fondo monetario internazionale: dimostrare, con ogni mezzo,
che chi sta in basso mai e poi mai potrà sperare di far sentire le
proprie ragioni, contro le loro fallimentari ricette.
La «trattativa sulla Grecia», nelle ultime settimane, è ormai
uscita dai limiti di un normale, per quanto duro, confronto
diplomatico per assumere i caratteri di una prova di forza. Di una
sorta di giudizio di dio alla rovescia.
Già le precedenti tappe avevano rivelato uno scarto rispetto a un tradizionale quadro da «democrazia occidentale», con la costante volontà, da parte dei vertici dell’Unione, di sostituire al carattere tutto politico dei risultati del voto greco e del mandato popolare dato a quel governo, la logica aritmetica del conto profitti e perdite, come se non di Stati si trattasse, ma ormai direttamente di Imprese o di Società commerciali.
Già le precedenti tappe avevano rivelato uno scarto rispetto a un tradizionale quadro da «democrazia occidentale», con la costante volontà, da parte dei vertici dell’Unione, di sostituire al carattere tutto politico dei risultati del voto greco e del mandato popolare dato a quel governo, la logica aritmetica del conto profitti e perdite, come se non di Stati si trattasse, ma ormai direttamente di Imprese o di Società commerciali.
Ha ragione Jürgen Habermas a denunciare lo slittamento – di per
sé devastante – da un confronto tra rappresentanti di popoli in un
quadro tutto pubblicistico di cittadinanza, a un confronto tra
creditori e debitori, in un quadro quasi-privatistico da tribunale
fallimentare. Era già di per sé il segno di una qualche
apocalisse culturale la derubricazione di Alexis Tsipras e di
Yanis Varoufakis da interlocutori politici a «debitori», posti
dunque a priori su un piede di ineguaglianza nei confronti degli
onnipotenti «creditori».
Ma poi la vicenda ha compiuto un altro giro. Christine Lagarde ha
impresso una nuova accelerazione al processo di disvelamento,
alzando ancora il tiro. Facendone non più solo una questione di
spoliazione dell’altro, ma di sua umiliazione. Non più solo la
dialettica, tutta economica, «creditore-debitore», ma quella, ben
più drammatica, «amico-nemico», che segna il ritorno in campo della
politica nella sua forma più essenziale, e più dura, del «polemos».
In effetti non si era mai visto un creditore, per stupido che esso
sia, cercare di uccidere il proprio debitore, come invece il Fmi
sta facendo con i greci. Ci deve essere qualcosa di più: la
costruzione scientifica del «nemico». E la volontà di un sacrificio
esemplare.
Un auto da fé in piena regola, come si faceva ai tempi
dell’Inquisizione, perché nessun altro sia più tentato dal fascino
dell’eresia.
Leggetevi con attenzione l’ultimo documento con le proposte
greche e le correzioni in rosso del Brussels group, pubblicato
(con un certo gusto sadico) dal Wall Street Journal: è un esempio
burocratico di pedagogia del disumano.
L’evidenziatore in rosso ha spigolato per tutto il testo cercando,
con maniacale acribia ogni, sia pur minimo, accenno ai «più
bisognosi» («most in need») per cassarlo con un rigo. Ha negato la
possibilità di mantenere l’Iva più bassa (13%) per gli alimenti
essenziali («Basic food») e al 6% per i materiali medici (!). Così
come, sul versante opposto, ha cancellato ogni accenno a tassare
«in alto» i profitti più elevati (superiori ai 500mila euro), in
omaggio alla famigerata teoria del trickle down, dello
«sgocciolamento», secondo cui arricchire i più ricchi fa bene
a tutti!
Ha, infine, disseminato di rosso il paragrafo sulle pensioni,
imponendo di spremere ulteriormente, di un altro 1% del Pil — e da
subito! — un settore già massacrato dai Memorandum del 2010 e del
2012.
Il tutto appoggiato sulla infinitamente replicata falsificazione dell’età pensionabile «scandalosamente bassa» dei greci (chi spara 53 anni, chi 57…). Il direttore della comunicazione della Troika Gerry Rice, durante un incontro con la stampa, per giustificare la mano pesante, ha addirittura dichiarato che «la pensione media greca è allo stesso livello che in Germania, ma si va in pensione sei anni prima…».
Il tutto appoggiato sulla infinitamente replicata falsificazione dell’età pensionabile «scandalosamente bassa» dei greci (chi spara 53 anni, chi 57…). Il direttore della comunicazione della Troika Gerry Rice, durante un incontro con la stampa, per giustificare la mano pesante, ha addirittura dichiarato che «la pensione media greca è allo stesso livello che in Germania, ma si va in pensione sei anni prima…».
Una (doppia) menzogna consapevole, smentita dalle stesse fonti
statistiche ufficiali dell’Ue: il database Eurostat segnala, fin
dal 2005, l’età media pensionabile per i cittadini greci a 61,7
anni (quasi un anno in più rispetto alla media europea, la Germania
era allora a 61,3, l’Italia a 59,7).
E sempre Eurostat ci dice che nel 2012 la spesa pensionistica
pro capite era in Grecia all’incirca la metà di Paesi come l’Austria
e la Francia e di un quarto sotto la Germania.
Il Financial Times ha dimostrato che «accettare le richieste dei creditori significherebbe per la Grecia dire sì ad un aggiustamento di bilancio… pari al 12,6% nell’arco di quattro anni, al termine dei quali il rapporto debito-PIL si avvicinerebbe al 200%». Paul Krugman ha mostrato come l’avanzo primario della Grecia «corretto per il ciclo» (cyclically adjusted) è di gran lunga il più alto d’Europa: due volte e mezzo quello della Germania, due punti percentuali sopra quello dell’Italia.
Il Financial Times ha dimostrato che «accettare le richieste dei creditori significherebbe per la Grecia dire sì ad un aggiustamento di bilancio… pari al 12,6% nell’arco di quattro anni, al termine dei quali il rapporto debito-PIL si avvicinerebbe al 200%». Paul Krugman ha mostrato come l’avanzo primario della Grecia «corretto per il ciclo» (cyclically adjusted) è di gran lunga il più alto d’Europa: due volte e mezzo quello della Germania, due punti percentuali sopra quello dell’Italia.
Dunque un Paese che ha dato tutto quello che poteva, e molto di più. Perché allora continuare a spremerlo?
Ambrose Evans-Pritchard – un commentatore conservatore, ma non accecato dall’odio – ha scritto sul Telegraph che i «creditori vogliono vedere questi Klepht ribelli (greci che nel Cinquecento si opposero al dominio ottomano) pendere impiccati dalle colonne del Partenone, al pari dei banditi», perché non sopportano di essere contraddetti dai testimoni del proprio fallimento. E ha aggiunto che «se vogliamo datare il momento in cui l’ordine liberale nell’Atlantico ha perso la sua autorità – e il momento in cui il Progetto Europeo ha cessato di essere una forza storica capace di motivare – be’, il momento potrebbe essere proprio questo». È difficile dargli torto.
Ambrose Evans-Pritchard – un commentatore conservatore, ma non accecato dall’odio – ha scritto sul Telegraph che i «creditori vogliono vedere questi Klepht ribelli (greci che nel Cinquecento si opposero al dominio ottomano) pendere impiccati dalle colonne del Partenone, al pari dei banditi», perché non sopportano di essere contraddetti dai testimoni del proprio fallimento. E ha aggiunto che «se vogliamo datare il momento in cui l’ordine liberale nell’Atlantico ha perso la sua autorità – e il momento in cui il Progetto Europeo ha cessato di essere una forza storica capace di motivare – be’, il momento potrebbe essere proprio questo». È difficile dargli torto.
Non possiamo nasconderci che quello che si consuma in Europa in
questi giorni, sul versante greco e su quello dei migranti, segna un
cambiamento di scenario per tutti noi.
Sarà sempre più difficile, d’ora in poi, nutrire un qualche orgoglio del proprio essere europei. E tenderà a prevalere, se vorremo «restare umani», la vergogna.
Sarà sempre più difficile, d’ora in poi, nutrire un qualche orgoglio del proprio essere europei. E tenderà a prevalere, se vorremo «restare umani», la vergogna.
Se, come tutti speriamo, Tsipras e Varoufakis riusciranno
a portare a casa la pelle del proprio Paese, respingendo quello che
assomiglia a un colpo di stato finanziario, sarà un fatto di
straordinaria importanza per tutti noi.
E tuttavia resterà comunque indelebile l’immagine di un potere
e di un paradigma con cui sarà sempre più difficile convivere.
Perché malato di quel totalitarismo finanziario che non tollera
punti di vista alternativi, a costo di portare alla rovina l’Europa,
dal momento che è evidente che su queste basi, con queste
leadership, con questa ideologia esclusiva, con queste
istituzioni sempre più chiuse alla democrazia, l’Europa non
sopravvive.
Mai come ora è chiaro che l’Europa o cambia o muore.
La Grecia, da sola, non può farcela. Può superare un round, ma se
non le si affiancheranno altri popoli e altri governi, la speranza
che ha aperto verrà soffocata.
Per questo sono così importanti le elezioni d’autunno in Spagna e in Portogallo.
Per questo è così urgente il processo di ricostruzione di una
sinistra italiana all’altezza di queste sfide, superando
frammentazioni e particolarismi, incertezze e distinguo, per
costruire, in fretta, una casa comune grande e credibile.
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