Lo
avrete notato anche voi: nel 90 per cento dei casi i docenti chiamati
ad illustrare ai lettori o ai telespettatori questo o quel problema
provengono da università private, siano esse la Bocconi, la Cattolica o
la famigerata Luiss dove esistono persino docenti di flussi migratori o
quella roba strana del San Raffaele dove filosofia e odontoiatria si
mischiano per dare un gettone di presenza a tanta
intellighentia irriducibile al pensionamento dalle luci dei riflettori.
Si tratta di un riflesso, secondario, ma non trascurabile, della “buona
scuola” i cui presupposti e capisaldi sono nati negli anni ’90 e
attribuiscono alla privatizzazione, a una supposta “concorrenza” e alla
sciagurata didattica d’oltreatlantico – in via d’abbandono per palese
disfunzionalità dove è nata – effetti miracolosi.
Quindi – a parte le evidenti sponsorizzazioni – questa costante
presenza di docenti di atenei privati dovrebbe portare a supporre che
questi centri di sapere privatistico siano migliori di quelli pubblici e
non soltanto studifici riservati ai rampolli delle classi dirigenti per
educarli ai piaceri e alle ideologie della disuguaglianza nonché per
sottrarli a una vera competizione con i figli delle classi subalterne.
Invece è vero proprio il contrario: questi atenei da ricchi che in
quanto “competitivi” per natura dovrebbero prendere sul serio le
classifiche internazionali ne sono invece praticamente assenti. Certo
sono ranking che invece di occuparsi direttamente della qualità della
didattica e della ricerca prendono in esame parametri laterali come le
possibilità di impiego, i rapporti con le industrie, i guadagni degli ex
studenti, gli stipendi dei docenti, la qualità di stanze e dormitori e
via andare, cioè tutti dati (peraltro spesso forniti senza controllo da
ex studenti) che si mordono la coda. Ma si tratta del brodo ideologico
naturale in cui questi atenei campano, quello che dovrebbe asseverare il
loro valore e nel quale invece affondano.
Nessuno di loro, compresa la Bocconi, certamente la più nota e
storica delle università private, figura entro il 700° posto nei ranking
internazionali, mentre in specifici campi di ricerca almeno 6
dipartimenti di fisica, 2 di matematica, 2 di chimica, 1 di ingegneria
delle università statali italiane figurano entro i primi 100 posti.
Anche nelle classifiche più specifiche per settori di studio non va
molto meglio: la Bocconi si situa al 48° posto su 50 nella categoria
Social Sciences and Management. E dire come illustra la
tabella
a fianco che invece le università statali italiani hanno una
produttività scientifica, comparata alle scarsissime risorse, molto
superiore a quella Usa, francese, tedesca e seconda solo alla Gran
Bretagna che tuttavia è divenuta un vero e proprio mercato d’elezione
per tonnellate di robaccia tra accademia e commercio. Inutile aggiungere
che tutti i dati sono stratosfericamente inferiori a quelli degli
atenei statalissimi della Cina, sintomo di un modello occidentale e
imperiale in rapido declino.
Le altre università private da cui ci arriva gran parte del verbo dei
mass media nemmeno esistono, eppure costituiscono il “modello” su cui
si imposta la buona scuola e che dovrebbe convincerci. Per di più sono
private solo quando conviene e invece succhiano a più non posso fondi
pubblici. Nel 2012 presero un contributo pubblico di 89,6 milioni. La
Bocconi – tanto per fare l’esempio più illustre – si prese una fetta di
14 milioni 950 mila euro. Insomma 1150 euro a studente, mentre per la
Cattolica che ha goduto di 40 milioni con circa 40 mila studenti, la
cifra scende a 1000 euro. Questo significa che i cittadini italiani
hanno dato a ciascun allievo di queste università private una cifra di
poco inferiore alle tasse annuali di uno studente delle università
statali che si aggira sui 1400 euro. E questo senza tenere conto dei
contributi degli enti locali che in qell’anno arrivarono a 32 milioni, a
una cifra cioè che porta il contributo pubblico per studente degli
atenei privati ben al di sopra delle normali tasse universitarie. Nel
2015 questi contributi sia statali che locali sono lievemente diminuiti
arrivando a un totale di circa 100 milioni che però non cambia affatto
il senso del discorso.
Dunque la buona scuola in questo caso somma il danno alla beffa
perché ciò che è presentato come migliore non lo è affatto, anzi tende
ad essere peggiore e ciò che è privato lo è solo parzialmente e
figurativamente. Insomma un inganno nel Paese degli inganni.
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