giovedì 18 giugno 2015

Buona scuola una minchia Di ilsimplicissimus


renzi-ciuchiLo avrete notato anche voi: nel 90 per cento dei casi i docenti chiamati ad illustrare ai lettori o ai telespettatori questo o quel problema provengono da università private, siano esse la Bocconi, la Cattolica o la famigerata Luiss  dove esistono persino docenti di flussi migratori o quella roba strana del San Raffaele dove filosofia e odontoiatria si mischiano per dare un gettone di presenza a tanta intellighentia irriducibile al pensionamento dalle luci dei riflettori. Si tratta di un riflesso, secondario, ma non trascurabile, della “buona scuola” i cui presupposti e capisaldi sono nati negli anni ’90 e attribuiscono alla privatizzazione, a una supposta “concorrenza” e alla sciagurata didattica d’oltreatlantico – in via d’abbandono  per palese disfunzionalità dove è nata – effetti miracolosi.
Quindi – a parte le evidenti sponsorizzazioni – questa costante presenza di docenti di atenei privati dovrebbe portare a supporre che questi centri di sapere privatistico siano migliori di quelli pubblici e non soltanto studifici riservati ai rampolli delle classi dirigenti per educarli ai piaceri e alle ideologie della disuguaglianza nonché per sottrarli a una vera competizione con i figli delle classi subalterne. Invece è vero proprio il contrario: questi atenei da ricchi che in quanto “competitivi” per natura dovrebbero prendere sul serio le classifiche internazionali  ne sono invece praticamente assenti. Certo sono ranking che invece di occuparsi direttamente della qualità della didattica e della ricerca prendono in esame parametri laterali come  le possibilità di impiego, i rapporti con le industrie, i guadagni degli ex studenti, gli stipendi dei docenti, la qualità di stanze e dormitori e via andare, cioè tutti dati (peraltro spesso forniti senza controllo da ex studenti) che si mordono la coda. Ma si tratta del brodo ideologico naturale in cui questi atenei campano, quello che dovrebbe asseverare il loro valore e nel quale invece affondano.
Nessuno di loro, compresa la Bocconi, certamente la più nota e storica delle università private, figura entro il 700° posto nei ranking internazionali, mentre in specifici campi di ricerca almeno  6 dipartimenti di fisica, 2 di matematica, 2 di chimica, 1 di ingegneria delle università statali italiane figurano entro i primi 100 posti. Anche nelle classifiche più specifiche per settori di studio non va molto meglio: la Bocconi si situa al 48° posto su 50 nella categoria Social Sciences and Management. E dire come illustra la
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tabella a fianco che invece le università statali italiani hanno una produttività scientifica, comparata alle scarsissime risorse, molto superiore a quella Usa, francese, tedesca e seconda solo alla Gran Bretagna che tuttavia è divenuta un vero e proprio mercato d’elezione per tonnellate di robaccia tra accademia e commercio. Inutile aggiungere che tutti i dati sono stratosfericamente inferiori a quelli degli atenei statalissimi della Cina, sintomo di un modello occidentale e imperiale in rapido declino.
Le altre università private da cui ci arriva gran parte del verbo dei mass media nemmeno esistono, eppure costituiscono il “modello” su cui si imposta la buona scuola e che dovrebbe convincerci.  Per di più sono private solo quando conviene e invece succhiano a più non posso fondi pubblici. Nel 2012 presero un contributo pubblico di 89,6 milioni. La Bocconi – tanto per fare l’esempio più illustre – si prese una fetta di 14 milioni 950 mila euro. Insomma 1150 euro a studente, mentre per la Cattolica che ha goduto di 40 milioni con circa 40 mila studenti, la cifra scende a 1000 euro. Questo significa che i cittadini italiani hanno dato a ciascun allievo di queste università private una cifra di poco inferiore alle tasse annuali di uno studente delle università statali che si aggira sui 1400 euro. E questo senza tenere conto dei contributi degli enti locali che in qell’anno arrivarono a 32 milioni, a una cifra cioè che porta il contributo pubblico per studente degli atenei privati ben al di sopra delle normali tasse universitarie. Nel 2015 questi contributi sia statali che locali sono lievemente diminuiti arrivando a un totale di circa 100 milioni che però non cambia affatto il senso del discorso.
Dunque la buona scuola in questo caso somma il danno alla beffa perché ciò che è presentato come migliore non lo è affatto, anzi tende ad essere peggiore e ciò che è privato lo è solo parzialmente e figurativamente. Insomma un inganno nel Paese degli inganni.

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