Come avrebbe giudicato Karl Marx la
crisi dell’euro? Facile: come un conflitto fra capitale e lavoro. Più
sorprendente è che questa sia ormai l’interpretazione più corrente fra
gli economisti anglosassoni e che ad alzare il vessillo della lotta di
classe siano ambienti vicini alla City londinese, con ilFinancial Times in prima fila.
Il ministro tedesco delle Finanze, Schaueble, maltratta il collega greco,Varoufakis,
spiega che la crisi ha fatto emergere paesi “responsabili e
irresponsabili” e, comunque, i problemi della Grecia sono stati generati
dalla Grecia e non, certo, dalla Germania? Tutte balle. Se qualcuno è
stato tanto stupido da riempirsi di debiti – è l’obiezione ricorrente,
da Krugman a Stiglitz all’ultimo blogger – è perché qualcuno è stato
tanto stupido da prestargli tutti quei soldi.
Soprattutto, questo non è un confronto-scontro fra Germania e Grecia,
fra paesi virtuosi e paesi neghittosi, fra chi ha fatto le riforme e
chi non le ha fatte. Non è un conflitto nazionale, ma sociale: i
lavoratori e le classi medie sia della Germania che della Grecia e degli
altri paesi, contro gli azionisti e i creditori delle banche, cioè i
capitalisti. Neanche Tsipras e Varoufakis sono così espliciti. La
sintesi più lucida di questa intepretazione l’ha fatta un ex banchiere e
professore di finanza, Michael Pettis e il Financial Times la rilancia con entusiasmo.
La spia, avverte il quotidiano della City, è
la produttività. I politici tedeschi parlano molto di riforme e citano
con orgoglio quelle che hanno fatto loro. Tuttavia, le riforme tedesche
hanno clamorosamente fallito in quello che dovrebbe essere lo scopo
principale: rilanciare la produttività. Al contrario, fra il 1998 e il
2014, la produttività dei lavoratori tedeschi è cresciuta in media solo
dello 0,6 per cento l’anno, un flop clamoroso, una performance peggiore
non solo di Svezia e Usa, ma anche di Irlanda, Spagna e Grecia (il
calcolo non include l’Italia): di fatto, la produttività tedesca dal
2007 ad oggi – riforme o no – è scesa. Cos’è successo, allora? Il punto
chiave è la compressione dei salari avvenuta in Germania. I pingui
profitti che ne sono risultati non sono stati investiti dalle aziende in
Germania (come mostra l’andamento della produttività) ma sono stati
parcheggiati nelle banche. E queste, non avendo occasione di impiego in
patria, visto il ristagno degli investimenti, li hanno utilizzati
all’estero, dove i tassi di interesse erano anche più interessanti.
Nasce qui il torrente di crediti tedeschi alla Spagna, alla Grecia,
all’Irlanda, per finanziare soprattutto improbabili boom immobiliari. A
finanziare quei boom sono stati le buste paga più magre dei lavoratori
tedeschi. Quando poi è esplosa la crisi, a pagare non sono state le
banche, i loro azionisti e i titolari delle loro obbligazioni (cioè chi
aveva, a sua volta, prestato i soldi alle banche), dunque i capitalisti,
ma i lavoratori dei paesi irrorati di crediti, con la disoccupazione di
massa. E non è finita, avverte Pettis. Con quelle montagne di debiti,
l’economia non può riprendere a svilupparsi. Basta guardare la Grecia
che, oppressa dal pagamento degli interessi, non ha le risorse per
incentivare la crescita. La strada segnata è quella di un lento
assorbimento dei debiti. Ovvero, le banche risaneranno lentamente i loro
conti, smaltendo quei crediti incagliati, in Grecia come in Spagna o in
Portogallo, facendone pagare il costo alle classi medie, sia come
depositanti, che come contribuenti.
E’ una rilettura dell’austerità, assai scomoda per la classe
dirigente della Ue. Ancora più scomoda è la ricetta che ne scaturisce.
In una cultura, come quella anglosassone, in cui la bancarotta è il
primo passo per ripartire e non l’ultimo per uscire di scena, la crisi
finirà quando sarà ristrutturato il debito. Tagliandolo, oppure con le
idee creative (legare i titoli del debito alla crescita del Pil)
proposte da Atene. Per radicali ex rivoluzionari, come Tsipras e
Varoufakis, da Washington e da Londra scrosciano gli applausi.
Maurizio Ricci - Repubblica.it
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